Editoriale

Votare per CHI se il CHI è un mistero

Ben centouno simboli, uno accanto all’altro, appesi alla bacheca del Viminale, lì per ottenere udienza e possibilità di entrare nella scheda elettorale che il 25 settembre verrà proposta agli italiani chiedendo in cambio un voto possibilmente ragionato. Fra due giorni sapremo quanti simboli avranno passato l’esame degli organismi competenti. Per quanto potrà contare la mannaia della Cassazione, ne resteranno comunque tanti: un guazzabuglio di simboli e slogan messi a far da palo all’ennesima rapina (di consensi) inscenata da bellimbusti in cerca di gloria e visibilità. Passati gli esami, i promossi avranno un posto sulla scheda e andranno per mari, monti, pianure e colline alla ricerca di consensi – uno dieci mille centomila – che aprano le porte del Parlamento e, per qualcuno, anche quelle del governo. Le previsioni degli esperti non lasciano margine alla sorpresa: vincerà il centro, probabilmente quello più spostato a destra. Però, non è detto che le cose vadano proprio come pensano gli esperti. Secondo il giullare che a Ferragosto porta in piazza le sue particolarissime storie popolari quella che verrà sarà una tornata elettorale stramba, con strambate improvvise, ripensamenti clamorosi, voltafaccia impensabili, voti sparpagliati. rimescolamento di carte, coi delusi a minacciar scompiglio e i premiati a a cantar vittoria, se non intera almeno mezza. Cantate del giullare a parte, a chi vincerà toccherà l’impegno di dimostrare che le alleanze vantate non erano un venticello spensierato e occasionale, ma scelte precise, Capaci cioè di identificare un Presidente del Consiglio degno di tale nome.

Per votare bene, votare con ragionevole capacità di scelta, votare senza lasciarsi prendere per il naso dalla pubblicistica e dalle promesse, votare per il bene comune e non per il bene di qualcuno, converrà ripassare la storia e farne tesoro. Su quella parte di storia che ha contrassegnato l’Italia fino alla conclusione della seconda guerra mondiale (anno 1945) il giudizio è severo: fu un tempo di regime, in cui uno solo stava al comando e dove l’alleanza col nazismo fu causa di tragedie; un tempo da dimenticare; un tempo che finì quando libertà e democrazia divennero parte normale del vivere civile. Il seguito della storia, quello che appartiene ai giorni nostri, è un corollario di successi e insuccessi, di voti dati, di voti ripetuti, di voti rinnegati, di partiti dominanti e poi andati in rovina (la storia della DC e del PCI conferma la caducità di ideali anche nobili e di ideologismi con poco costrutto). Leggere per comprendere: è un auspicio, ma anche una necessità. Aiuta questo viaggio quel che Marco Bencivenga ha racchiuso nell’editoriale pubblicato ieri e che, come consuetudine, occupa il lunedì del nostro Bresciadesso.

LUCIANO COSTA      

 

Ecco, la storia recente insegna che…

L’impressione è che il 25 settembre non andremo a votare per scegliere il miglior programma di governo per il Paese, ma soltanto in quale campo stare: di qua o di là. Sopra o sotto. Un passo avanti o due indietro. Complice un sistema elettorale che premia le coalizioni più dei singoli partiti, di fatto ognuno di noi si schiererà da una parte o dall’altra, seppur protetto dall’anonimato, nel segreto dell’urna. È un po’ quel che successe il 2 giugno del 1946 ai nostri nonni (e alle nostre nonne, per la prima volta ammesse a una consultazione politica nazionale) quando furono chiamati a scegliere fra monarchia e repubblica. Finita da poco la Seconda Guerra Mondiale, nel 1946 gli italiani aventi diritto al voto erano 28 milioni e alle urne si presentarono quasi tutti (25 milioni).

A 76 anni di distanza è cambiato il mondo, l’affluenza al voto sarà sicuramente molto più bassa e l’esito della consultazione non avrà lo stesso impatto sull’assetto dello Stato. Nell’aria, però, si avverte il senso di un altro passaggio storico: per la prima volta – prevedono i sondaggi – il centrodestra non si limiterà a vincere le elezioni con la maggioranza relativa dei consensi, ma potrebbe superare la fatidica soglia del 50%. Quantomeno, grazie alla nuova legge elettorale l’alleanza fra Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia potrebbe ottenere la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento. Un caso unico, a 28 anni dal primo, storico successo, ottenuto dal centrodestra nelle Politiche del 1994.

Ricordate? Nelle prime elezioni post Mani Pulite, l’inchiesta che aveva decapitato i partiti tradizionali, sulla scena politica si erano affacciate due formazioni nuove di zecca: Forza Italia, fondata da Silvio Berlusconi, e la Lega Nord indipendentista di Umberto Bossi, già presente nel ‘92, è vero, ma con solo l’8% dei consensi (il vero boom sarebbe arrivato 14 anni più tardi). In quella turbolenta stagione quasi tutti i partiti tradizionali avevano cambiato insegna: il Movimento Sociale Italiano si era trasformato in Alleanza Nazionale (con l’eccezione di un gruppo di nostalgici confluiti in Fiamma Tricolore), il Pci si era diviso fra Pds (Partito democratico di sinistra) e Prc (Partito della rifondazione comunista) e quel che restava della vecchia Dc si era riproposto come Partito Popolare (raccogliendo soltanto 4 milioni di voti, contro i 12 milioni di due anni prima).

L’alleanza di centrodestra vinse le elezioni, ma si fermò al 42%, tanto che il primo governo Berlusconi – sostenuto da una maggioranza risicatissima al Senato – finì per durare solo 251 giorni, aprendo le porte al primo governo tecnico della storia repubblicana, guidato da Lamberto Dini.

Al centrodestra non andò meglio nel 1996: ottenne la stessa percentuale di consensi (42%), ai quali stavolta poteva aggiungere il 10% della Lega. Sulla carta aveva la maggioranza assoluta, ma con la nuova legge elettorale, parzialmente maggioritaria, la mancata adesione del partito di Bossi al Polo delle Libertà fu decisiva nell’attribuzione dei seggi, tanto favorevole al centrosinistra che la Presidenza del Consiglio andò prima a Romano Prodi, poi a Massimo D’Alema e infine a Giuliano Amato. Un’autentica beffa. Imparata la lezione, nel 2001 il centrodestra si presentò unito agli elettori e si prese la rivincita, sfiorando l’en plein: 49,6%. Tanto bastò a Berlusconi per garantirsi cinque anni tranquilli a Palazzo Chigi e per battere il record di durata di un esecutivo, fino ad allora detenuto dal primo Governo Craxi.

Alle successive elezioni Politiche (2006) cambiò la legge elettorale – dal Mattarellum si passò al cosiddetto Porcellum, ideato dal leghista Roberto Calderoli – e le urne sancirono una sostanziale parità: 49,81% per l’Unione, 49,74% per la Casa delle Libertà alla Camera; 48,96% e 50,21% al Senato. Il premio di maggioranza, deciso dai decimali, consentì a Prodi di restare a Palazzo Chigi per due anni, fino alla solita crisi, tanto che nel 2008 gli italiani furono chiamati nuovamente alle urne e incoronarono per la quarta volta Berlusconi, forte del 46,81% dei voti (contro il 37,55 del centrosinistra). Stavolta il Governo durò tre anni. Poi la crisi economica internazionale, lo spread alle stelle e l’eco delle inchieste giudiziarie indussero il fondatore di Forza Italia a rassegnare le dimissioni. E nel novembre 2011 lo scettro passò al secondo premier tecnico della storia: Mario Monti, l’ex commissario europeo che imponendo una stagione di austerity consentì all’Italia di rientrare nei severi parametri finanziari Ue. Il resto è storia recente.

Nel 2013 il boom del Movimento 5 Stelle (25,6%) mandò in frantumi il bipolarismo e con il Parlamento diviso in tre blocchi aprì le porte a un inedito «governo di larghe intese»: 19 ministri e addirittura 37 sottosegretari per… accontentare tutti, dal centrodestra (sceso al 29,2% dei consensi) al centrosinistra (prima coalizione con 29,6%). Il presidente del Consiglio? Enrico Letta (Pd), con Angelino Alfano (Popolo della Libertà) unico vice.

Come sia andata a finire è noto: dimissioni dopo 300 giorni, passaggio della campanella a Matteo Renzi e, dopo 1.024 giorni di governo bipartisan, nuova crisi innescata dall’esito sfavorevole del referendum costituzionale del dicembre 2016. A quel punto il testimone passò a Paolo Gentiloni, premier fino a fine legislatura.

Ed eccoci alle elezioni del 2018, l’altro ieri: M5S primo partito con il 32,7%, centrodestra (Lega, Fi, Fdi, Udc) prima coalizione con il 37,0%, centrosinistra in rincorsa a quota 22,9. Una simile impasse politica portò alla nascita del Governo giallorosso, con Giuseppe Conte premier e, per la prima volta, due vice a garantire visibilità agli azionisti di maggioranza: Matteo Salvini per la Lega, Luigi Di Maio per i Cinquestelle. L’inedita formula del «contratto di governo» durò 527 giorni, fino al Papeete e al ribaltone del Conte II, sostenuto da centrosinistra e M5S.

Il 13 febbraio 2021 la svolta: per gestire la pandemia Covid-19 e un piano vaccinale ostaggio di primule e No Vax, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella chiese aiuto a Mario Draghi e gli affidò la guida di un Governo di unità nazionale: dentro tutti, meno Fratelli d’Italia, Leu, Articolo 1 e Sinistra Italiana.

Un mese fa, il 21 luglio, le dimissioni dell’ex presidente della Bce, la chiusura anticipata della legislatura e l’ennesimo ricorso alle elezioni anticipate. Ora, per la prima volta, il centrodestra ambisce alla maggioranza assoluta in Parlamento ed è proprio questa possibilità a trasformare le elezioni in una sorta di referendum.

Che non si tratti di elezioni Politiche ordinarie, del resto, lo dimostrano almeno tre indizi: 1) finora tutte le forze politiche si sono concentrate sulle alleanze, la scelta dei candidati e la spartizione dei seggi, più che sui programmi; 2) grazie al Rosatellum – il nuovo, pasticciato, sistema elettorale – nel momento stesso in cui i partiti avranno depositato le liste, conosceremo il nome dell’80% degli eletti: in pratica andremo a votare solo per scoprire il restante 20%, quello assegnato nei collegi della quota proporzionale dal pronostico aperto; 3) per convincere gli elettori a votarlo, finora nessun partito ha presentato un vero programma di Governo, una scala di priorità, una visione «alta» del futuro. I più intraprendenti hanno fatto promesse mirabolanti che sanno fin d’ora di non poter mantenere, dalla costruzione del ponte sullo Stretto di Messina all’abbassamento dell’età pensionabile, passando per il cavallo di battaglia di ogni campagna elettorale: la drastica riduzione delle tasse.

Se davvero una forza politica mettesse nero su bianco l’impegno di abbassare le aliquote del fisco al 15% o al 23%, qualsiasi italiano probabilmente la voterebbe. Il problema è che promettere non basta: chi annuncia un simile taglio delle imposte deve dire anche dove andrebbe a prendere le risorse per renderlo sostenibile o quali servizi taglierebbe per rientrare del mancato gettito fiscale. In cambio dello «sconto» sul reddito avremo meno sanità o meno difesa? Meno fondi alle scuole e all’università o meno investimenti in infrastrutture?

Nel Paese evoluto con il più alto grado di evasione fiscale davvero qualcuno si illude che se le tasse fossero più basse le pagherebbero tutti, ma proprio tutti? Di questo e di molti altri temi concreti, anziché dei difetti degli avversari e di seggi da spartire, sarebbe bello parlassero i partiti da qui al 25 settembre, perché anche nei «referendum» la scelta non si fa a occhi chiusi, ma avendo ben chiaro cosa si sceglie. Soprattutto, cosa si guadagna e cosa si perde nel momento in cui si decide da che parte stare.

MARCO BENCIVENGA

Direttore “La Provincia di Cremona”

Altri articoli
Editoriale

Potrebbero interessarti anche