Il Domenicale

A lezione di Babe, il maialino gentile

Io, l’alba e la guerra: mi sveglio convinto di vivere in un mondo di pace; osservo l’alba che incurante delle nubi irradia la sua luce; leggo le ultime notizie di guerre che dicono, come ieri e l’altro ieri, bombe, missili, morti ammazzati, distruzioni, ragioni sotterrate dalla violenza. Quindi, pace impossibile? Eppure, come leggo tra le righe lasciate da un saggio, “il sole che sorge nuovo ogni giorno ci insegna che è possibile”. Medito e meditando ricordo due guerre inventate e descritte, ma mai combattute.  Una è ricordata come la guerra dei bottoni, l’altra come la guerra dei due mondi.

Se non vado errato “La guerra dei bottoni”, pregevole romanzo scritto da Louis Pergaud nel 1912, che poi divenne anche un film tutt’altro che stupido (avevo ancora le brache corte e me lo propose la zia maestra che voleva mettermi in zucca come fosse inutile litigare facendo girotondo attorno a quisquiglie) incomincia con due bande di ragazzini impegnati nell’appassionante “gioco” che mettendo gli uni contro gli altri in una sfida “all’ultimo bottone”, di fatto restano entrambi senza bottoni: di volta in volta, infatti, i prigionieri vengono spogliati dai vincitori di tutti i bottoni, fibbie e lacci che portano addosso, e rimandati a casa coi pantaloni in mano, più o meno in brache di tela, così fin quando ci sono bottoni e mamme disposte a rimetterli a posto ogni giorno e sempre uguali. Ovviamente il romanzo finisce quando i ragazzini, cresciuti una spanna, capiscono l’inutilità della loro piccola guerra e anche che non è da meno quella della guerra grande, che altrove i cosiddetti grandi vogliono comunque combattere, concludendo amaramente che se le cose non cambieranno in fretta “quando saremo grandi, diventeremo anche noi bestie come loro”.

Invece, “La guerra dei due mondi”, un film del 2005 diretto da Steven Spielberg e basato sull’omonimo romanzo scritto nel 1897 da H. G. Wells, incomincia con due bande di ragazzoni, una formata da alieni e l’altra da umani, intenzionate a darsele di santa ragione, una per conquistare spazio, l’altra per difendere ciò che è il suo spazio. La fantascientifica guerra dei due mondi finisce quando gli arrivati da chissà quale galassia, costretti a cibarsi con l’aria dei terrestri, piena di chissà che cosa, accorgendosi che non è cosa per loro, per non perire ritornano in fretta da dove son venuti.

Se tutto questo pensare abbia senso e serva a mettere in chiaro l’inutilità delle guerre e l’utilità della pace, non lo so. Però, essendo convinto che la pace “non vien correndo, ma solo volendo, mai cedendo, parole mantenendo, chi siamo valorizzando, non ciarlando, bensì bene facendo…” resto ottimista. Bella trovata! Ma la realtà è ben diversa. La pace infatti è una conquista e la conquista è un misto di volontà e saggezza: ci vuole volontà per mettersi a cercare pace e ci vuole saggezza per impedire che attorno alla pace qualcuno sia più uguale di altri. La pace è un bene di tutti e per tutti, quindi nessuno può adattarla ai propri voleri. Vale per i piccoli e sconosciuti, deve ancor di più valere per i grandi e potenti. La pace non si chiede, si fa. La pace è un diritto in alienabile, chi lo nega è un dittatore folle e indegno di far parte dell’umana avventura. “Però, nonno – mi ha chiesto il ragazzino -, come si fa a fare pace?”. Appunto: come si fa? Fino a un minuto fa credevo bastasse smettere di fare i gradassi e credersi sovrani dominatori della ragione. Adesso, dubito non basti più neppure questo. Infatti, c’è chi si dice disposto alla pace solo dopo aver ottenuto tutto quello che cercava facendo la guerra. Ma dai! E’ come se correndo la finale mondiale dei cento metri piani, a Jacobs, il più forte, fosse concesso di stare venti metri più avanti dei coloro che lo sfidano.

Sembra assurdo, invece è realtà. Ma dai! Non esiste che un assurdo diventi reale… Invece, se guardi a quel che sta accadendo, tutto è ferocemente vero. Infatti, tanto per esemplificare, quel tale che cala la mannaia sulla nazione sua vicina giudicandola colpevole di non ubbidire al suo volere – di lesa maestà come si dice – non è forse colui che essendo il più forte pretende comunque di avere almeno venti metri di vantaggio sul povero e miserrimo avversario di turno? Come si possa cambiare questa prospettiva, forse “niun lo sa” sebbene sia chiaro che “ove sia ognun lo sa”. A mio sol e inutile parere, il cambio di prospettiva diventa possibile se e come quella prospettiva s’incomincia a guardarla con occhi, cuore e mente finalmente diversi: usando Ragione (maestra di pensiero pensato e mai abusato o imposto), smettendola di andare a braccetto con Prepotenza (signorina buona per i peggiori usi e certo nemica della signora Virtù), usando Gentilezza (reginetta incontrastata del buon vivere) e parole gentili-riguardose-riverenti-rispettose-buone-soavi e geniali…

Come quelle usate da Babe, il maialino simpatico innalzato a modello di sapienza da un fantastico film (l’ho rivisto l’altra sera in Tv e mi sono meravigliato di trovarlo, a distanza di quasi trent’anni, ancora attuale, addirittura nuovo e rivoluzionario) che allevato in fattoria da un cane pastore addetto alle pecore diventa un maiale da pastore, che dopo aver fatto pratica con le anatre dello stagno, inizia a lavorare con le pecore, conquistando immediatamente la loro fiducia mettendo in vista, a differenza dei cani aggressivi e brutali con il gregge, una squisita gentilezza e un coraggio, da vero e buon leone, che chiedendo per favore ,  chiamando signora qualunque pecora, porgendo scuse sensate e invitando a fare piuttosto che a pretendere che il comando sia eseguito, dimostra che si può cambiare, eccome, il destino: per lui di un concorso per cani pastore da vincere pur essendo maiale; per noi di una corsa alla pace da fare adesso senza permettere che orsi in libera uscita possano sbranarla.

A lezione da un maialino, ma dai! Eppure, proprio da Babe ho imparato che non le parole gridate e forti ma quelle sussurrate e sensate sono l’antidoto a guerre e soprusi; anche che solo parole pensateci salveranno dalle angherie inscenate da certi figuri in continua e, ahimè, inarrestabile libera uscita. E perché la lezione non sembrasse fuori luogo, ho rimesso al centro della mia attenzione gli appunti di una vecchia lezione, quella dedicata ai grandi parlatori, ciarlieri e nulla più, capaci di esibire grandi pugni ma di piccoli cervelli. Veli propongo, in ordine sparso ma abbastanza aggiustati per sembrar lezione attuale e degna d’essere meditata.

Dunque: …risultano grandi parlatori quelli che hanno grandi pugni, e piccoli parlatori quelli che hanno pugni piccoli, il che dimostra che tutto l’apparato è piuttosto scemo, se pur non è inganno. Come se le Nazioni con pugni piccoli non potessero parlare eloquentemente quanto le altre! Naturalmente se si trattasse soltanto di parlare… Non posso trattenermi dal credere che questa fiducia insita nell’eloquenza del pugno grande, non appartenga a quella eredità animale di cui si parla… (qualcosa che a definir bruto parrebbe eccessivo, sebbene sembrerebbe il termine più appropriato in queste occasioni)…Il nocciolo della questione sta nel fatto che l’umanità è dotata d’istinto loquace quanto di istinto pugnace. La lingua è, storicamente parlando, amica quanto il braccio o il pugno. L’abilità del discorrere distingue l’uomo dagli animali e il miscuglio di imbonimento e sbarramento sembra un tratto peculiare all’umana natura… Questo parrebbe favorevole alla permanenza di istituzioni che offrano all’uomo un’opportunità di ciarlare…

Sembra che noi uomini siamo destinati a ciarlare per far saltar fuori chi abbia ragione. E va bene: ciarlare è la caratteristica degli Angeli. Il tratto peculiare all’umana natura sta nel fatto che noi ciarliamo fino a un punto; finché uno dei contendenti, quello che ha il braccio più forte, si sente così imbarazzato o adirato –l’imbarazzo si sa, dice il cinese, porta naturalmente all’ira – che l’imbarazzato e adirato contendente trova che tutto quel ciarlare è durato abbastanza, picchia il pugno sul tavolo, prende l’oppositore per il collo, gli appioppa una manata, poi sin guarda intorno e domanda all’auditorio che la fa da tribunale: “Ho torto, o ho ragione?”. E come vediamo succedere in ogni osteria, l’uditorio replica infallantemente: “Avete ragione!”. Soltanto gli umani risolvono in questo modo una lite. Gli Angeli risolvono le liti soltanto con la parola; i bruti le risolvono tutte coi muscoli e con gli artigli; solo gli esseri umani le risolvono con uno strano miscuglio di muscoli e ciarle. Gli Angeli credono soltanto nel diritto; i bruti soltanto nella potenza; soltanto gli esseri umani credono che la potenza sia diritto. Dei due, l’istinto ciarliero, o lo sforzo di scovare chi abbia ragione, è senza dubbio il più nobile.

Col tempo dovremo tutti soltanto ciarlare. Questo sarà la salvezza dell’umanità. Per ora dobbiamo appagarci del metodo da osteria e della psicologia da osteria. Non monta che la lite la risolviamo all’osteria o alla lega delle nazioni: in entrambi i luoghi siamo fondamentalmente e caratteristicamente umani. Ricordo quella volta in osteria con al centro una disputa tra due parti: una col braccio forte che parlava della sua infinita pazienza col vicino, del quale con riservatezza, magnanimità e altruismo voleva coltivare il suo fondo. Convinse tutti, anche i giurati, ad andare avanti a ciarlare mentre lui se ne andò fuori a recintare con una siepe la proprietà rubata. Poi tornò per invitare tutti a vedere. Ci andammo tutti e constatammo che la nuova siepe era sempre più spostata avanti perché anche allora quella siepe cambiava continuamente di posto. Chiese: “Ho torto o ragione?”. Rispondemmo: “Avete torto!”. Allora il tale col braccio forte protestò che lo si insultava pubblicamente, che si faceva torto al suo senso di modestia, che si macchiava il suo onore. Irato e superbo abbandonò la sala scuotendo la polvere dalle sue scarpe con sprezzante sogghigno, ritendendoci compagnia indegna di un suo pari… In conseguenza di ciò l’osteria perdette un buon po’n della sua reputazione di luogo adatto ad accomodamenti scientifici di liti private. Sono passati gli anni e credevamo di essere sulla via dell’incivilimento… Invece, un saggio Dio venne a dirci che avevamo di nuovo fallito, che eravamo costretti a desistere dato che eravamo civilizzati soltanto a mezzo, a metà, come in effetti attualmente siamo… È frattanto la reputazione dell’osteria se ne è andata e siam tornati a precipitarci gli uni sugli altri, a strapparci l’un l’altro i capelli, a ficcare i denti l’uno nella carne dell’altro, nel più vero stile in grande della giungla. Nondimeno non dispero del tutto. Quella cosa chiamata modestia o vergogna è dopo tutto una buona cosa, e altrettanto lo è l’istinto ciarliero. A mio modo di vedere siam totalmente privi di vergogna, per il momento. Ma lasciateci continuare a pretendere che il senso della vergogna l’abbiamo, e continuare a ciarlare. Col ciarlare potremo un giorno raggiungere la beata condizione degli Angeli.

Forse ho segnato. Ma se mettete i personaggi, di cui ho riassunto l’essere e il divenire, al posto giusto, scoprirete che son reali e che son qui a fare la guerra pretendendo di aver ragione pur essendo vili e villani usurpatori…

LUCUANO COSTA

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