Il Domenicale

Acchedevodì e Nunsochedevodì mandano a dire…

Magari hanno ragione quelli che gli altri un po’ troppo in su con l’età non li considerano, o li considerano incapaci di leggere il nuovo dominante e capaci solo di prendere il vecchio e spenderlo al mercato delle buone intenzioni.  O forse non hanno proprio ragione, che il vecchio ancora non stona se gli è dato modo di stare come segnaposto invalicabile tra l’intelligenza e la stupidità. Però, certo è evidente che tutto concorre a sbattere il vecchio fuori binario e così mettere il nuovo, anche il più sballato e imbarazzante, al suo posto. Vedo accavallarsi e moltiplicarsi telegiornali e giornali fatti alla maniera del manuale firmato da quel tale che di none faceva Acchedevodì e di cognome Nunsochedevodì… Secondo quel manuale, tacito ma imperante, il telegiornale-giornale-notiziario-almanacco-foglio-velina o che dir si voglia, doveva essere principiato con notizie sconvolgenti (guerre terremoti nubifragi alluvioni morti ammazzati arresti eccellenti attentati bombe sequestri  code chilometriche caduta di aerei azioni terroristiche, ma anche qualcosa, come un bimbo abbandonato o lasciato cadere al balcone o seviziato o preda di un pozzo o pazzo, capace di smuovere l’apatia e obbligare a stare davanti alla notizia fino al suo compimento…) e concluso con argomenti dolci-sorridenti-spensierati (sport, musica, cinema, teatro, cabaret, viaggi esotici, abbuffate, amori e tradimenti, pandoro e bambole, canzonette e cantori qual che siano e chi siano…). Fin quando non esisteva l’informazione di massa, al quotidiano occasionale, magari l’unico che arrivava in paese, era chiesto di dare agli ignoranti il minimo indispensabile per conoscere quel che accadeva intorno. E quel giornale grande come un lenzuolo, metteva in chiaro, a suo modo, quel che poteva. Dalle mie parti, però, l’unico quotidiano locale che circolava, per via della sua pretesa di spiegare o evidenziare solo quel che gli andava di spiegare o di mettere in evidenza lasciando il resto in attesa nel limbo dei desideri, non a caso era definito “bugiardino”, ma spesso anche “bugiardone” quando superava la decenza.

Oggi, visto l’andazzo: che regala scempi-orrori-tragedie-lutti-distruzioni e qualunque altra cosa serva a scompigliare l’umana avventura fino a renderla spazzatura; che trasforma la notizia in cencio da usare per accomodare i propri interessi piuttosto che il bisogno di conoscere e di avere verità piuttosto che finzione; che mischia aggressori e aggrediti quasi fossero tutt’uno piuttosto che unità distinte; che invoca pace ma non dice basta alla produzione e al commercio delle armi che le si oppongono; che grida libertà e democrazia sottintendendo però non l’assoluta certezza di essere liberi di vivere in democrazia ma, tutt’al più, in libertà accuratamente vigilata dai soliti potenti; che non conosce umanità e misericordia (che saranno pure termini infarciti di Vangelo, ma di tale potenza da far arrossire di vergogna chi li relega ai margini della società); che se ne infischia del bene invocato dai più; che osa suddividere le bombe in buone o cattive a seconda di chi le lancia e le usa; che si crogiola nella ricchezza prodotta dalle guerre senza neppure avere il dubbio che quella sia aberrazione-stravolgimento-assurdità-innaturalezza-disumanità-ferocia e assenza assoluta di civiltà (secondo il vocabolario civiltà è parola proveniente dal latino civilĭtas, a sua volta derivato dall’aggettivo civilis, cioè attinente al civis e alla civitas, indicante l’insieme delle qualità e delle caratteristiche materiali, culturali e spirituali di una comunità, spesso contrapposte al concetto di barbarie)… Ecco, visto l’andazzo mi chiedo e vi chiedo: tutto questo è questione di intelligenza e coscienza o di imbecillità-stupidità? Chissà…

Da ignorante qual sono (sicuro e certo di nulla sapere) mi ostino però a considerare l’intelligenza come via preliminare al bene e la coscienza come via al bene comune… Ma sono solo ipotesi. Infatti, al momento resta evidente che la coscienza rimane il mistero più grande e l’intelligenza, purtroppo, quello meno svelato e usato. Se sia vero oppure falso, dite voi. Per me “quanto più conosciamo, tanto più ci rendiamo conto della nostra ignoranza”. E’ anche per questo che il viaggio della conoscenza è e resta ancora così appassionante e misterioso, però inevitabile.

Dall’andazzo sommariamente raccontato nelle righe precedenti, ve ne sarete accorti, emerge un tasso di aggressività che ha proporzioni colossali. E a questa aggressività nessuno, o pochissimi, è immune. In verità, aggressivi lo erravamo anche ieri… Ma era un fatto che restava circoscritto nei cortili o al massimo diffuso appena dopo la siepe. Oggi invece l’aggressività non ha alcun limite sebbene intorno vi sia chi sostiene che mai come adesso siamo immersi nell’epoca più evoluta della storia. Ieri l’altro, per esempio, impegnato a “fare benzina”, di fronte a un tizio che uscito dal bar bestemmiava a gran voce maledicendo qualunque cosa assomigliasse a qualunque “dio”, sentendomi autorizzato a dirgli che poteva anche fare a meno di bestemmiare, mi sono sentito rispondere brutalmente che se cercavo rogne lui era proprio il tipo che me le avrebbe procurate. Di sicuro era un tipo aggressivo-arrabbiato-turbato-scontento (della vita e, forse, chissà, del caffè o del liquore appena sorbito). “Non ci faccia caso – mi disse allora l’addetto alle pompe (un giovane straniero, musulmano piuttosto che cristiano) – è accecato dalla rabbia, non sa quel che dice, dimentica che il mio-tuo-suo e nostro Dio è l’unico che concede consolazione e speranza agli afflitti e agli arrabbiati…”. Non ci ho fatto caso. Però, mi son detto, che cosa spinge un uomo qualsiasi, magari lavoratore, marito e padre a interpretare simili eccessi quando l’età della pietra e dell’ignoranza sembrerebbero essere stati definitivamente superati?

Questione di aggressività generata dalla paura di non sopravvivere alla propria banalità o dalla certezza che solo aggredendo si stabilisce la propria potenza? Sposo la tesi di Carlo Bordoni, secondo la quale, con l’opportuna fortificazione dei pensieri di Pinker (professore contemporaneo di psicologia ad Harvard) e Rousseau (filosofo e scrittore vissuto nel Settecento, per il quale “solo l’educazione può creare uomini nuovi per una società nuova”) assistiamo senza vergogna al ritorno del “pitecantropo” (quell’homo erectus, vissuto tra il Pliocene e il Pleistocene). Insomma, il pitecantropo è tra noi e, per di più, è in possesso di una nuova clava: la tecnologia digitale.

Chi sia e che sembianze abbia questo novello pitecantropo, Bordoni lo dice chiaramente: “E’ un individuo regredito all’istintualità primordiale, che si sente detentore di ogni diritto, che non si controlla, che usa violenza contro chiunque lo ostacoli lungo la strada, che reagisce con calci e pugni (magari, aggiungo io, anche con bombe missili cannonate bombardamenti) contro chi lo rimprovera, che esprime un’opinione diversa o che mette in discussione il suo predominio. Costui (che a mio parere assomiglia tremendamente a quel tale che si crede zar di tutte le sue russie e a quei tali che s’abbeverano alla sua fonte) è inutile giustificarlo: la paura atavica di non essere considerato né temuto, di essere insomma annullato, non è sufficiente a spiegare la gravità-assurdità-mostruosità del suo comportamento…” Quel, e quei surrogati di imperocrazia-dittatura-fascismo-nazismo-comunismo interpretato (spero pro-tempore breve brevissimo) dal suddetto scalcagnato zar e dai suoi seguaci (tanti e come lui imbevuti di arroganza), mostra al mondo “l’individuo che regredisce allo stato di natura, niente altro che un monade (uno che non ha uguali in natura/ndr) all’interno di un contesto che considera ostile, in cui deve difendersi dagli altri e, se possibile, dominarli. Se non con la forza bruta, almeno con la personalità, i gesti e le azioni (e in aggiunta, se non bastasse, con bombe missili et similia), essendo chiaro che in lui domina, feroce e incontrastato, prepotente e aggressivo l’io imperialistico e dittatoriale.

Immagino avrete notato come il pithecantropus, per giunta  technologicus, non tema la solitudine. “Si chiude dentro la sua camera iperbarica virtuale e si relazione unicamente col suo oggetto tecnologico; non si accorge del passare del tempo; davanti o dentro lo schermo – il suo mondo ovattato e in ogni dove e tempo super protetto – non si annoia, semmai lo usa spasmodicamente per sottrarre l’attenzione degli altri e per ricreare dovunque la sua comfort zone. Una comfort zone portatile, dotata di ogni comodità, dove la mente può dialogare col suo alter ego, senza tema di contraddizioni; perché essendo regredito, in forza della sua rigidità mentale, non accetta di essere contraddetto, aborre il rifiuto e l’opinione diversa dalla sua lo fa imbestialire; diventa aggressivo”. Se non può usare le mani (essendo più progredito del suo antenato, il pithecanthropus erectus, che usava solo la violenza fisica) ricorre alla più modesta ma devastante aggressività passiva (quella fatta di bombe sganciate altrove e di minacce amplificate da benevolente e asservita comunicazione). “Ma poi, nell’impossibilità di reagire apertamente e col sostegno di una qualsiasi ragione, l’aggressivo-passivo opera una resistenza estrema, lasciando trasparire la propria opposizione e il rifiuto di qualsiasi regola civile e umanitaria…”.

Così dalle parti dei guerrafondai riconosciuti, ma anche di quelli che la loro visione guerrafondaia la nascondono nei sottofondi dell’essere e dell’esistere. Però, nel mio e vostro quotidiano, “magari in maniera non meno efficace, chi non si è sottratto a un ordine ritenuto ingiusto, a una mancanza di rispetto, a un’offesa immeritata, nascondendo la propria rabbia dietro a una opposizione velata? Con una forma di risentimento o semplicemente un atteggiamento scontroso?”. Se così è, ci sono segnali di una preoccupante involuzione, che forse e senza forse ci rende “un po’ tutti passivi aggressivi”, che conferma l’esistenza in noi, nel nostro profondo, di qualcosa di quel pitecantropo che “non aveva ancora imparato la convivenza civile”.

Visto l’andazzo, lasciatemelo ripetere, sarei tentato di camminare senza pensare, alla maniera di quei cittadini di Boston e San Francisco che secondo uno studio approfondito e seriosissimo, per raggiungere una destinazione a piedi, non vanno per l’itinerario più corto, ma seguono altri criteri, più istintivi e spontanei, confermando così che il nostro cervello “non è ottimizzato per calcolare il cosiddetto cammino minimo”, quello più beve e congeniale alla fretta che assale e imperversa. Chi abita in una città fondata dai romani, che quindi ha le due strade principali che s’incontrano a croce, sa perfettamente che se devono incontrare un amico lo fanno convenire lì dove le strade s’incrociano. “E non importa – come scrive un logico analizzatore di usi e costumi – se per andare lì fanno cento metri in più, perché andare lì lo sentono comunque come un risparmio”. Ma di che cosa? Probabilmente di cervello. Ho pensato allora che la medesima cosa è visibile nella parlata. Infatti “anche quando parliamo, al telefono o direttamente tra di noi, col nostro discorso, quale sia il senso del discorso intrapreso, non seguiamo la via recta brevissima, ma quella lunga e contorta dei detti e contraddetti. In tal modo, spiega il logico di cui sopra, “passiamo vicino alle narrazioni che di quelle stesse esperienze han lasciato poeti e scrittori…”, i quali “non ci lasciano un’impronta astrattamente linguistica, ma concretamente morale. Perciò, come non riusciamo ad andare da un punto all’altro della nostra città per la via più breve, essendo perennemente deviati sulla via più bella, più attraente, così “non possiamo più esprimere le nostre esperienze con parole dirette e brutali ma dobbiamo fare i conti con le parole memorabili che per quelle esperienze hanno usato Dante, Leopardi, Manzoni, Verga e magari anche Jannacci, De André, Nodari, Nobbio, Eco, Milani, Mazzolari, Montini… eccetera eccetera, fino ad abbracciare chiunque scriva e comunichi secondo verità e coscienza ”.

Dice il mio personalissimo logico: “Non potremmo esprimere l’attaccamento alla casa, e l’istinto a non venderla, meglio di come ha fatto Verga; non potremmo esprimere il nostro andare in guerra meglio di come ha fatto Svevo, il quale spiega come, a un certo punto, la guerra e noi che l’incontriamo per strada, noi che andiamo in là e lei che viene in qua, e incontrandola noi cambiamo direzione, perché la guerra è uno sbandamento; non potremmo onorare i morti meglio che parlandogli: «Silvia, rimembri ancora…? », e non importa se Silvia è morta, la poesia è nata per parlare ai morti, è nata per essere un ponte dal di qua all’aldilà. Ho visto in un documentario una scimmia che teneva in braccio il suo scimmiotto morto da un giorno, continuando a soffiargli in faccia: quei soffi sono parole, e quelle parole sono poesia, una poesia pre-umana… ragion per cui, la notizia che la via più breve tra due piazze della città non è la più corta ma la più bella, perché apre lo spazio all’arte e dice “non esistiamo per leggere soltanto i conti della spesa, ma anche e soprattutto la poesia”.

Ovviamente, è questione di comunicazione sincera e coraggiosa piuttosto che sottomessa e prezzolata. “Comunicare – ha detto l’altro ieri papa Francesco a un gruppo di giovani francesi –  è la cosa più umana che esiste… Nella realtà odierna, iper-connessa e bombardata di notizie, inquinata da parole roboanti, da sogni di potere e di grandezza, la comunicazione è una grande missione…”. Però, “guai a ritenere che oggetto della comunicazione siano le proprie strategie o imprese individuali, guai a chiudersi nelle proprie solitudini, paure o ambizioni, a puntare tutto sul progresso tecnologico”. E’ e resta invece importante “comunicare e ascoltare con il cuore, e anche vedere con il cuore cose che gli altri non vedono, per condividerle e raccontarle, rovesciando la prospettiva e le categorie imposte da un mondo vieppiù distratto e attratto dall’effimero imperante… Per farlo servono “testimonianza, coraggio e sguardo largo”, tutte merci da usare per fare argine alla paura e per essere ponte su cui far transitare il coraggio senza sbandamenti e offuscamenti. Sì, serve coraggio per fare la Pace e mettere concordia dove regna discordia… E servono coscienza e intelligenza: la prima per dare dimensione al proprio impegno di uomini e donne che guardano al futuro con ragionevole speranza; la seconda per essere monito e contrapposizione all’imbecillità e alla stupidità diffuse e coltivate per giustificare orrende stragi, orribili guerre e cattive azioni pensate e attuate per offendere e calpestare la parte di umanità più debole e sfruttata.

Ieri un giovane intenzionato a imbarcarsi nell’avventura del giornalismo, commovente nel ritenermi all’altezza di dar consiglio, mi ha chiesto se in quel mondo da lui agognato è meglio stare in basso o in alto. Gli ho risposto che dal basso è sempre possibile salire in alto, mentre stando in alto può capitare di scivolare in basso, magari facendosi male… Ha sorriso, ma non mi è sembrato del tutto convinto. Avrei preferito sentirmi dire che lui a tutto pensava meno che a salire presto o subito in alto. Chissà, forse un giorno lo dirà a chi vorrà ancora mettersi al servizio di un’informazione degna d’essere ritenuta vera e responsabile. Ho mandato al giovane, in segno di apprezzamento per la scelta di fare giornalismo, la poesia di Kavafis, quella che dice “fermarmi qui! mirare anch’io questa natura un poco / del mare mattutino e del limpido cielo / smaglianti azzurri, e gialla riva: tutto/ s’abbella nella grande luce effusa”. Mi ha risposto con un languido e per me disperante “non capisco”. Spero rilegga e capisca. Nell’attesa, ai “miei domenicalisti” consiglio la “pazienza dell’arrostito”, l’unica che consente di mettere pace al posto della guerra, concordia invece di discordia, rispetto invece di odio, benevolenza al posto di aggressività, coscienza e intelligenza dove imbecillità e stupidità pretendono udienza.

LUCIANO COSTA

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