“La fatica di leggere, imposta dal tuo ultimo domenicale dedicato alla la prevalenza dell’imbecillità – scrive una lettrice di certo amica cioè disposta a essere complice – è stata compensata da un pensiero che avevo messo in disparte (sosteneva la necessità di andare oltre il visto e di passare all’osservato, l’obbligo di aggiungere alle parole – spesso volatili, prive di senso, profferite ma non pensate, buone per arricchire la teoria del niente e del pressappoco… – un certo non so ché di buonsenso) – e che invece, complice un domenicale intriso di righe arcigne-severe-urticanti-illuse sebben reali, di schiaffi ipotetici-sonori-pensati e non dati (l’uso del ceffone non è previsto dal galateo e non si educa usando manrovesci o imponendo altre punizioni corporal-spirituali), di rimandi scovati tra macerie di libri e fogli sparsi, di detti presi a prestito da letterati e filosofi forse saggi o forse solo di passaggio, di contraddetti inventati o fatti riemergere dal nulla in cui riposavano per cancellare quei “detti” e sostituirli con verbi e modi di dire banali seppure alla moda e poi di pensieri pensati e dotati di aculei sistemi di protezione, di canzoni intelligenti e mai sufficientemente messe in circolo e di poesie mai studiate e mandate a memoria, si ripresentava portando con sé qualche ragione da spendere”. Ho rincordo la vecchia amica per saperne di più. Mi ha detto “basta e avanza quel che ha scritto; semmai, insisti a dire-scrivere-spiegare che si vince l’imbecillità, e con essa il pressapochismo, il niente, il vuoto, il chiacchiericcio, lo schiamazzo, la violenza e anche l’arrogante principio che al potere conquistato con una manciata di voti estorti da un parco elettore pauroso e indeciso tutto deve essere concesso e perdonato, sempre e soltanto avendo cura di curare (scusate il bisticcio) il pensiero rinforzandolo ogni volta con letture intelligenti, con riflessioni puntigliose, con critiche sensate e con scelte coraggiose”.
Un rinforzo notevole al suddetto pensiero l’ho trovato nelle due parole – “Accoglienza e Solidarietà”, a dir poco fondamentali -, usate dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per disegnare un futuro degno d’essere condiviso da tutti. “L’Italia, la nostra Italia, e con essa il mondo intero – ha detto il Presidente – deve essere una comunità di persone certo una diversa dall’altra, ma tutte circondate da uguale dignità”. Grande il Presidente! Ahimè inascoltato! Infatti, appena dopo, ecco le scene di lor signori, signori di una politica che io e forse altri non comprendiamo, impegnati a dire che dare soldi a “dubbie e pretestuose Ong”, come ha fatto e sta facendo la Germania, però impegnate a salvare i disperati del mare, magari anche per conto di chi per non vedere e intervenire si volta dall’altra parte, è “un oltraggio, un’offesa, un invito a delinquere…”, tutta roba che esige scuse e immediate riparazioni…
Poco oltre questa valle inondata dalle lacrime di lor signori della politica dominante, ho visto l’esodo di oltre centomila persone – provenienti dalla Repubblica del Nagorno Karabakh dilaniata da lotte intestine fomentate da un pazzo-finto zar e da imbecilli predicatori di sventura – “costrette – ha scritto Domenico Quirico su “La Stampa” – a diventare nessuno anche da un Occidente che per non vedere si è girato dall’altra parte”. E non è la prima volta, ma solo l’esempio più recente, che in triste fila allinea siriani, sudanesi, tigrini, saharawini, migranti eccetera eccetera… fino ad abbracciare gli armeni del Nagorno Karabakh, vittime della pulizia etnica portata avanti dagli azeri sotto gli occhi di un Occidente (“parolaio e implacabile nel difendere i diritti”) però qui pronto a dissimulare l’esistenza di un popolo reso sovrano, un Occidente che ha agito e agisce come se questo popolo non esistesse, tal quale a un nulla sospeso, da “nessunizzare” piuttosto che da rendere orgoglioso del proprio esistere. Sono già oltre centomila i fuggiti in Armenia (altri ne seguiranno) “portandosi dietro un calvario di miseria disperazione tragici racconti di violenze stupri ladrocini umiliazioni… Così gli armeni del Nagorno – annota amaro Quirico – sono diventati l’assenza dei nostri sguardi, la pausa dei nostri impegnati discorsi da parte giusta del mondo, la omertà, questa sì davvero mafiosa, del nostro silenzio”. Ma chi se ne importa se in fondo basta voltarsi dall’altra parte per non vedere?
E le parole del Presidente – “Accoglienza e Solidarietà” – pronunciate per ribadire che siamo persone diverse una dall’altra ma tutte circondate da uguale dignità e pari diritti, avranno seguito o basterà voltarsi dall’altra parte per non sentirle? All’alba, leggendo quel che una certa onorevole Biancofiore, per un certo roseo periodo esuberante berlusconiana ma poi passata ad altra simpatia, annunciava come azione storica-unica-straordinaria e addirittura rivoluzionaria “per indurre il presidente del Senato Ignazio La Russa a concedere a cani e gatti l’ingresso al sacro palazzo”. Se vi sfugge, ricordo che si tratta della medesima senatrice che appena l’altro ieri aveva formulato una soluzione al problema dei migranti proponendo, udite-udite, di costruire un’isola artificiale, in acque internazionali, su cui traferire quelli senza diritto all’ingresso nell’UE e tenerli lì finché non si sarà stabilito se lasciarli entrare o ricacciarli indietro”. Insieme a Mattia Feltri, che di questo a disquisito in un suo “buongiorno” (“La Stampa, sabato 30 settembre) “non so se la nostra Biancofiore appartenga ai molti che proclamano di amare più gli animali degli esseri umani, di cui diffido, perché l’amore di un cagnolino è facile mentre l’amore di un essere umano è difficile. Infatti, direbbe Joseph Ratzinger, l’amore è una faccenda che interroga anche la ragione”. Però, sarebbe interessante sapere come si comporterebbe la senatrice “se ci fosse un eccesso di cani e gatti randagi: davvero li traferirebbe, ritenendoli ingombranti migranti, su un’isola artificiale costruita nel bel mezzo del Mediterraneo?”. Ai posteri l’ardua sentenzia.
Qualche giorno fa, passando davanti a una scuola ho sentito voci che innalzavano al cielo parole che dicevano: “Lo chiederemo agli alberi come restare immobili fra temporali e fulmini invincibili…”. Mi sembrarono testi di Gianni Rodari, invece erano di Simone Cristicchi: uno maestro ed educatore che con poesie e racconti ha aiutato a crescere generazioni altrimenti destinate a vivere di sogni e cartoni animati (cosa buona, per carità, ma da prendere a spizzichi); l’altro cantautore disturbante piuttosto che accomodante, che nel bel mezzo della pandemia ha preparato sette briciole di pane che cadendo sulla terra sono diventate parole importanti. Parole che dicono: attenzione, perché “se tutto rischia di finire in un istante, la salvezza è stare dentro il momento; lentezza, perché la felicità deriva da calma e distacco e se la trovi, quella gioia nessuno potrà portartela via; umiltà, perché è umiltà e ciò che serve per dare nuova speranza al mondo; cambiamento, perché anche se non è possibile trovare un senso a tutto, tutto ha un senso; memoria, perché è la completezza dei talenti avuti in dono; talento, perché se ben usato e distribuito diventa un bene di tutti e per tutti; noi, perché soltanto insieme trasformeremo la goccia d’acqua raccolta dal piccolo colibrì in pioggia capace di spegnere l’incendio che devasta la foresta e in capacità di accogliere e di esprimere solidarietà. Se non conoscete la canzone, ve la dono come augurio di buona domenica. Cantando delicatamente dice: “Lo chiederemo agli alberi / come restare immobili / fra temporali e fulmini / invincibili. / Risponderanno gli alberi / che le radici sono qui / e i loro rami danzano / all’unisono verso un cielo blu. / Se d’autunno le foglie cadono / e d’inverno i germogli gelano / come sempre, la primavera arriverà… / Se un dolore ti sembra inutile / e non riesci a fermar le lacrime / già domani un bacio di sole le asciugherà. / Lo chiederò alle allodole / come restare umile / se la ricchezza è vivere / con due briciole / forse poco più. / Rispondono le allodole: / Noi siamo nate libere / cantando in pace ed armonia / proprio questa melodia…”.
Hannah Arendt (ancora lei, suggeritrice di meditazioni intelligenti), mite e disturbante come solo le donne sanno esserlo, scrive che “anche nei tempi più bui, noi possiamo avere il diritto di raggiungere una qualche luce e che essa derivi meno dalle teorie o dai concetti e più da quella fiamma incerta, vacillante e spesso flebile che uomini e donne, nella loro vita e nella loro opera, riescono a far brillare, in qualsiasi circostanza, e a diffondere nello spazio e nel tempo a loro concesso su questa terra. Occhi così abituati al buio come sono i nostri – aggiunge -, faticheranno a distinguere se la loro luce fu quella di una candela o di un sole ardente”, ma immergendosi in essa vedranno cieli e terre nuove. Una fiammella l’ha accesa l’altro ieri il Tribunale di Catania che ha “liberato” quattro disperati venuti dal mare a cui il nuovo decreto governativo riservava la denominazione di “abusivi-irricevibili”, più o meno fuorilegge, tacciando la norma scritta e approvata dal Governo (quella dei cinquemila euro da versare come caparra allo Stato italiano in cambio di accesso al suo suolo e certezza di non essere trattenuti in centri dedicati) come illegittima e in contrasto con la normativa europea. Una norma, ha titolato “Il fatto quotidiano”, che lor signori della politica dominante a “hanno scritto con i piedi”, provvedendo però a scaricare le colpe dell’applicazione non confacente ai loro desideri sui giudici, ovviamente tendenti a fare politica avversa ai loro desiderata.
Ho resistito alla tentazione di tornare ad arzigogolare attorno all’imbecillità, ma ciò non significa che sia stato fatto un passo verso la sua eliminazione. Infatti, amici, l’imbecillità resta e dimostra ogni momento la sua attualità. Però, se qualche imbecille, o portatore di imbecillità, volesse rimediare al suo stato, consiglierei di chiedersi, come propone Bertolt Brecht nella seconda strofa della sua magnifica poesia (è intitolata “A coloro che verranno” ed è lezione e monito per chiunque creda che un mondo di uguali è ancora possibile), “Quali tempi sono questi, quando / discorrere d’alberi è quasi un delitto, / perché su troppe stragi comporta silenzio! / E l’uomo che ora traversa tranquillo la via / mai piú potranno raggiungerlo dunque gli amici / che sono nell’angoscia?”.
Non so per voi, ma per me significa che il silenzio su fatti certo non edificanti è una colpa grave. Comunque, buona domenica.
LUCIANO COSTA