Il Domenicale

Aldo Moro e la sua carità politica

Chissà se qualcuno ricorda quel che è successo 44 anni fa. Era il 9 maggio 1978. In Via Caetani a Roma, abbandonato nel baule di una Renault rossa, veniva ritrovato il corpo martoriato di un uomo. Era quello di Aldo Moro, il politico democristiano che le Brigate Rosse avevano sequestrato, dopo aver massacrato la scorta, il 16 marzo, cinquantatré giorni prima. Per la storia, sembra accaduto appena ieri; per una società che considera il passato più o meno una formalità, invece, quel sequestro appartiene alla preistoria. Infatti, i giovani non sanno quello che i vecchi hanno già dimenticato, che è una frase abusata ma sempre attuale. Se di questo ci si nutre, come è allora possibile, oggi, parlare di pace, di giustizia, di fraternità tra popoli diversi se noi, noi genitori, insegnanti, maestri o, comunque, noi uomini di una generazione che ha vissuto quei tempi e che, dunque, dovrebbe assumersi l’onore e l’onere di esserne testimone credibile… non siamo stati in grado di spiegare le ragioni del rifiuto assegnato a quelle nefande logiche brigatiste (rosse e nere, senza alcuna distinzione) e siamo, oggi, non ancora disposti a mettere in campo un impegno serio e costante, finalizzato a far aprire gli occhi di figli e nipoti sul pericolo racchiuso in qualsiasi forma di estremismo, di violenza, di sopraffazione, di razzismo, di negazione degli altrui diritti, di rifiuto dell’Altro, chiunque esso sia e ovunque esso abiti?

Aldo Moro, per molti di noi, non è stato un semplice politico e tantomeno un semplice popolare-democristiano. Egli è stato, invece e soprattutto, simbolo ed alfiere di un modo nuovo di intendere la politica. Non più contrapposizione tra blocchi ideologici; piuttosto incontro di culture e di uomini obbligati dalle necessità e dalle rispettive provenienze ad essere diversi, ma forse anche già coscienti della missione loro affidata dalla storia: costruire una società finalmente nuova e giusta nella quale diritti e doveri di ciascuno fossero evidenti e consolidati, costruire un futuro degno d’essere vissuto da chiunque…

Aldo Moro credeva la politica il mezzo essenziale ed insostituibile per garantire ai cittadini, chiunque essi fossero e quale fosse la loro provenienza, democrazia e partecipazione effettiva alla gestione della res pubblica, della cosa pubblica, vale a dire quell’insieme di Istituzioni, che vanno dal Comune allo Stato, alle quali è assegnato il compito di garantire sviluppo, giustizia, lavoro, libertà…. Aldo Moro, di fronte al pericolo del disimpegno dalla politica, un male che già affiorava in quegli anni, ammoniva: “Ricordatevi, se noi non ci occupiamo di politica, la politica si occuperà comunque di noi”. E ancora: “Guai stare comodamente alla finestra osservando la storia che scorre; meglio essere nella storia piuttosto che subirla. Guai ai politicanti interessati: dietro parole e promesse nascondono sempre il loro tornaconto”.

Se il sacrificio di Aldo Moro – assassinato da brigatisti che ritenevano pericolose, ovviamente per la loro rivoluzione, le sue idee di democrazia, libertà e giustizia – se il suo sacrificio ha tuttora valore di testimonianza, allora i vecchi dovrebbero avere il coraggio di raccontare alle nuove generazioni quel che sanno e quel che hanno appreso dalla storia; e i giovani, da parte loro, dovrebbero avere la forza di capire. E per capire, a volte, basta leggere quel che uomini coraggiosi hanno scritto, spesso con la vita, altre con la parola e la penna.

Ricordo Aldo Moro come illuminato statista, generoso servitore del Paese, coraggioso interprete del nuovo che avanzava, nemico di ogni estremismo e per questo rapito e ucciso da estremisti barbari e privi di qualunque ragione,  un professore prestato alla politica o, forse, il politico che non disdegnava di mettersi a confronto con gli allievi vestendo i panni del professore  capace di “difendere le proprie ragioni senza calpestare quelle degli altri, anche se diverse e contrastanti con le loro”. Ricordo l’Aldo Moro, statista di grandi visioni contrassegnate da umanesimo planetario che parla con calma, che sceglie le parole una per una, che usa termini semplicissimi per rendere comprensibili concetti molto complicati… Ricordo lo statista ucciso 44 anni fa dalle brigate rosse alla maniera di Fortebraccio (ovvero quel Mario Melloni, firma sferzante, temuta e arguta, che sulla prima pagina dell’allora quotidiano comunista sferzava e ammoniva senza alcun timore riverenziale persone e costumi) che di lui diceva “non è un uomo tetro ma serio, non è assorto è attento, non è scontroso ma riservato”.

Giorgio Balzoni, autore del libro intitolato “Aldo Moro – Il Professore”, mette a conclusione della sua fatica letteraria un’amara considerazione. “Aldo Moro – scrive – ha fatto troppo per questo Paese perché il desiderio di vivere in pace con se stessi comporti la rinuncia alla sua figura, ai suoi insegnamenti. Dobbiamo avere il coraggio di riconoscere che è morto per noi perché ha scelto di non abbandonare il suo impegno quando avrebbe potuto farlo. E’ un debito che dobbiamo pagare”.

E anche questo anniversario della sua tragica morte, il quarantaquattresimo, “dovrebbe essere l’occasione per restituirci il Moro politico”. Certo, per molti distratti o comunque incapaci di accettarlo nella sua completezza e nella sua complessità, Moro era e resta “l’invisibile”. Personalmente, uscii da quella metafora quando Frano Salvi, che di Moro era amico fraterno e sincero collaboratore, me lo dipinse come il più visibile e costante dei politici. “Lui c’è sempre – mi disse – anche quando sembra in tutt’altre faccende affaccendato”. Salvi era un taciturno, ma quando gli si chiedevano notizie del “Capo” riempiva l’aere con parole forse ricercate, ma precise. Diceva: “Vede il futuro e lo disegna secondo realtà; peccato che la metà di coloro che ascoltano le sue riflessioni, rifletta all’incontrario, notando l’ombra e mai il dito che la proietta”.

Ricordare offre adesso l’opportunità di andare oltre il solito, quello seminato “a politica”, per approdare in quel prato pieno di studenti che dal Professore attendevano lumi e sapere da utilizzare nella loro rincorsa al futuro, gli stessi che la mattina in cui Moro venne rapito, davanti a Montecitorio lo aspettavano per assistere alla storica seduta che avrebbe dato il via libera al governo delle larghe intese. Invece, accadde l’incontrario. Seguirono cinquantacinque giorni di prigionia in cui si mescolarono speranze e atroci delusioni, attese di un ritorno che nessuno è riuscito a spiegare perché fosse ritenuto impossibile, voci gridate per confondere e preghiere sussurrate (come quella innalzata al cielo dal suo amico Papa Paolo VI) per invocare il suo ritorno. Proprio ciò che non avvenne. “Moro se ne andò – scrive Giorgio Balzoni – dopo che il Paese, o meglio la sua classe dirigente, ha deciso di rimanere sorda alle sue parole, al suo disegno di Stato, al suo percorso di crescita delle istituzioni attraverso la trasformazione sia della Dc sia del Pci, che solo lui ha realizzato come se fosse un vero Presidente della Repubblica. Moro se ne andò lasciando a ciascuno questo monito severo e ancora attuale: “Il Paese non si salverà, il mondo non si salverà, se la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se in Italia e nel mondo non nascerà un nuovo senso del dovere, se qui e altrove non torneremo a praticare una vera carità politica”.

In verità, non la vedo in giro questa “carità politica” esercitata e proposta da Aldo Moro. Non vedo cioè tradursi la politica in aiuto al fratello, come “forma più alta di carità”, quale concreta attuazione del bene per tutti e di tutti. Però, si sa, soprattutto in un adesso in cui politici e politicanti di ogni risma e censo sono assai più preoccupati di conservare lo status raggiunto che di promuovere azioni capaci di rendere migliore la società e il mondo, parlare della politica come della forma più alta di carità sembra molto meno pregnante che in passato. Infatti, l’espressione si è logorata con l’uso, oltre che a motivo della crisi della politica e di tutto ciò che, più generalmente, riguarda la dimensione sociale e collettiva.

Si dovrebbe tornare a considerare “questa carità il cuore dello spirito della politica”, che è sempre e comunque “un amore preferenziale per gli ultimi”. San Tommaso d’Aquino, per definire la realtà dell’amore, usò due parole, exstasim facere, che tradotte significano “uscire da sé”, compiere ininterrottamente “un processo che dall’io si apra agli altri”. Significa, se ho ben compreso il messaggio, che la politica, soprattutto adesso, deve “ritrovare il suo perché nella polis, nell’insieme” così da “articolare le proprie dinamiche verso il servizio all’altro e del più bisognoso”. Alcide De Gasperi, uomo mite e buono che alla politica diede i suoi anni e il suo pensiero, a chi gli chiedeva se e come la politica poteva costruire nuovi orizzonti, spiegò che per partecipare il bene prodotto dall’esercizio della politica era necessario porre “un’attenzione particolare, addirittura prioritaria, alle fasce più deboli”. Secondo questa visione carità e politica sono intimamente congiunte. Però, ha spiegato l’altro ieri monsignor Edgar Penna in un incontro dedicato all’enciclica “Fratelli tutti”, che è un grande inno di lode al creato e a chi lo abita, “la carità politica, che in negativo si traduce nella lotta all’ingiustizia e alla disuguaglianza e, in positivo, nell’edificazione di una società più giusta e inclusiva a partire dai diritti dei più poveri, appare come la categoria chiave dell’agire politico non solo cristiano, ma più semplicemente umano”.

Eppure, politici e politicanti si muovono e agiscono senza accorgersi di almeno due minacce che riguardano il governo del popolo. La prima è rappresentata dall’arretramento della democrazia, la quale, come scrive papa Francesco “richiede la partecipazione e il coinvolgimento di tutti e dunque domanda fatica e pazienza…” La seconda minaccia è invece rappresentata dallo “scetticismo per la democrazia”, essenzialmente “provocato dalla distanza delle istituzioni dal rale vissuto, dal timore della perdita di identità, dalla burocrazia”. Il rimedio a siffatto modo di intendere la politica “non sta nella ricerca ossessiva di popolarità, nella sete di visibilità, nella proclamazione di promesse impossibili o nell’adesione ad astratte colonizzazioni ideologiche, ma nella buona politica…, in quanto responsabilità somma del cittadino, in quanto arte del bene comune”. Contrario alla buona politica è quella politica che “parteggia per il presente a discapito del futuro; che anziché mostrarsi lungimirante, mira all’utile e all’immediato”; che agisce “in dispregio della prudenza, virtù che non esprime la cautela nell’agire, ma la disposizione a prevedere un agire conforme alla finalità da raggiungere e al metodo migliore da perseguire”.

Infatti, la buona politica “supera ogni visione di corto respiro… Aldo Moro, anche adesso, dice che la politica o è buona o non è politica, perché il suo senso è il servizio e mai il servirsi o l’essere serviti. Chiudendo la lezione sulla “carità politica” monsignor Parra ha posto a politici e politicanti, ma anche a chiunque si senta parte di una società che vive di politica, domande che inquietano: quanto amore ho messo nel mio lavoro? in che cosa ho fatto progredire il popolo? che impronta ho lasciato nella vita della società? quali legami reali ho costruito? quali forze positive ho liberato? quanta pace sociale ho seminato? che cosa ho prodotto nel posto che mi è stato affidato?

A queste domande Aldo Moro ha risposto donando la vita senza nulla chiedere come ricompensa. Perché questa è la buona politica e niente altro che questa è la carità politica necessaria a fare nuova la società e a renderla ovunque pacifica…

LUCIANO COSTA

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