C’è di meglio o anche di peggio, ma la “rivolta-degli-intellettuali-contro-pedane-e-tavolini-di-bar-e-ristoranti-per-strada-a-roma”, frase scritta proprio come la vedete, con i trattini tra una parola e l’altra, immagino per far sapere che non si tratta di qualcosa buttato lì, ma di un vero e proprio editto, è di quelle che prima fanno ridere e subito dopo piangere: ridere, perché nella grande monnezza che distingue la capitale, quel dolersi per pedane e tavolini che in tempo di pandemia allungano lo spazio di bar e ristoranti è un’allegra battuta, degna del miglior Totò, forse gettata nella mischia per rinverdire i fasti di un intellettualismo che non c’è più e non una presa di posizione contro l’usurpazione di luoghi che invece dovrebbero semplicemente essere mirati e rimirati; piangere, perché oltre ogni ragionevole dubbio c’è ben altro di cui preoccuparsi.
E non basta che gli intellettuali firmatari della petizione (così tanti da smentire chiunque stia pensando o abbia pensato che la categoria sia in via di estinzione) sostengano che queste concessioni ai ristoratori si sono trasformate in un vero e proprio “tavolino selvaggio” per bollare di tradimento del paesaggio qualunque installazione occasionale destinata a far accomodare i turisti in cerca di ristoro. “La città va difesa dal degrado”, hanno scritto gli intellettuali firmatari. Giusto. Ma ai bottegai destinati alla bancarotta per mancanza di spazi adatti all’accoglienza, chi spiegherà che solo la bellezza di un marciapiede o di una piazzetta vuoti è il rimedio ai mali imposti dal cursus pandemico?
E’ vero che di questi tempi gli intellettuali sono andati fuori moda, ma l’impressione dominante è che si tratti di un offuscamento momentaneo, di un casuale momento di rilassamento dell’interesse, niente di più. Quindi, presto si ripresenteranno per dire a chicchessia che loro e solo loro possiedono le chiavi che aprono al sapere, che offrono spazi alla ragione, che regalano briciole di pensiero utili a riempire il vuoto che domina la scena. Intellettuali: vil razza dannata o soltanto stuolo di disegnatori-cantori-menestrelli-urlatori-suggeritori e bisbigliatori d’annata?
Non lo so e magari non lo voglio sapere sembrandomi assai più utile non far leva su coloro che “sin traggono nell’ombra lasciando la scena” poiché, almeno a dar credito a Benedetto Croce, aspirano a “intendere senza partecipare”. Intellettuali. Chi siete? Norberto Bobbio li divide in due categorie: gli “ideologi” e gli “esperti”. I primi “elaborano principi in base ai quali un’azione si dice razionale in quanto conforme a certi valori proposti come fini da perseguire”; i secondi, “suggerendo le conoscenze più adatte per raggiungere un determinato fine, fanno sì che l’azione che vi si conforma possa dirsi razionale secondo lo scopo”.
Sabino Cassese, professore alla Luiss e già ministro oltre che giudice costituzionale (in “Intellettuali”, edito da Il Mulino), con nitida visione e intelligente classificazione, mette in fila altri tipi di intellettuali: l’intellettuale universale, l’esperto e uomo di scienza, l’intellettuale impegnato o militante, l’artista-figura di riferimento intellettuale, il consigliere del principe, il philosophe (filosofo) settecentesco, l’apostolo, il profeta, il guru, l’intellettuale engagé (impegnato) e quello au-dessus de la melée (al di sopra della mischia), inserendoli nel novero dei maitre à penser (maestri del pensiero), quei “profeti in cattedra” che almeno secondo Max Weber erano semplicemente e spesso solo “pseudo-apostoli delle varie fedi di moda”. La morale della favola cercatela nella conclusione a cui giunge l’illustre professore quando consiglia agli intellettuali “di mandare a memoria quella poesia di Jacques Prévert”, proprio quella che tra l’altro dice “non bisogna lasciar giocare gli intellettuali con i fiammiferi”, soprattutto perché “se lo si lascia solo / il mondo mentale / mente / monumentalmente”.
Se sia tutto oro quel che il traduttore ha offerto non lo so. “Secondo il senso comune – ha scritto l’altro ieri Gustavo Zagrebelsky a proposito della nuova traduzione de “I fratelli Karamazov”, capolavoro indiscusso di Fedor Dostoevskij – chi traduce tradisce, cioè travisa”, dato che “il suo lavoro sarebbe necessariamente, non per incuria, lavoro sporco, contraffazione. Ma è una banalità. Il traduttore è uno che si immerge nel testo e ne emerge, portando con sé ciò che ha visto per mostrarlo al lettore che non può fare da solo analoga immersione. Poiché la vista non è uguale in tutti i vedenti non è detto, anzi è escluso, che il veduto da uno coincida con quello di un altro. Insomma, le traduzioni nuove sono sempre possibili e desiderate, perché sempre nuovi sono gli sguardi. Il traduttore, per quanto voglia spersonalizzarsi, per rendere accessibile un testo immette sempre qualcosa di sé”. Anna Aslanyan (vedi “I funamboli della parola) dice che “la comunicazione umana, anche fra persone che parlano la stessa lingua, comporta invariabilmente che tutti comprendano e siano compresi in misura molto inferiore a ciò che spiegano”. Potrebbe voler dire che “a qualcuno le abilità linguistiche tornano utili”? Forse sì, o forse no: dipende dai punti di vista.
Non dipende dai punti di vista ma dalla realtà contata e ricontata dagli appositi uffici, la crisi dei giornali e delle idee che li dovrebbero sorreggere. Secondo Quino (pseudonimo di Joaquin Salvador Lavado Tejon, fumettista argentino famoso per aver inventato la figura di Mafalda, ragazzina sveglia e spavalda, morto nel 2020 ma ancora vivo nei suoi gustosi fumetti), “i giornali inventano la metà di quello che scrivono… se poi ci aggiungi che non scrivono la metà di quello che succede, ne consegue che i giornali non esistono”. Non conosco altri pensieri-pensati di Quino, ma è indubbio che questo contiene qualche scomoda verità. Per verificarne la fondatezza basterebbe prendere qui e là, a casaccio se non in modo ordinato. E il risultato apparirebbe evidente: titoloni per scemenze sesquipedali; titoletti per qualunque cosa che non sia di facile e gradito acquisto-consumo; silenzio assoluto (o voluta dimenticanza) per qual che potrebbe turbare la quiete del lettore. Così, i giornali non godono più della credibilità e della diffusione di cui disponevano fino all’altro ieri.
Dicono infatti le statistiche che quasi tutti i quotidiani, negli ultimi anni, hanno dimezzato le vendite. Dal 2008 al 2018, per esempio, le vendite complessive annuali sono scese da 1,8 miliardi di copie a 836 milioni di copie, con un calo del 53%, che corrisponde a circa 90 milioni di copie perse in un anno. Si dirà, a compensazione e giustificazione, che sono però aumentate le occasioni di in formazione “volante, immediata, onnicomprensiva e ridotta allo stretto necessario”, che secondo i nuovi maestri della comunicazione “basta e avanza”. E la trasmissione del sapere? Riguarda gli intellettuali, sempre che esistano e che vogliano rispondere al compito che si sono accollati. Il già citato Max Weber asserisce che gli intellettuali devono essere specialisti del sapere e, quindi, capaci di aiutare i propri interlocutori a rendersi conto di fatti imbarazzanti, a comprendere la realtà senza secondi fini e senza cedere alla tentazione di trasformarsi in profeti o demagoghi, o diventare capi politici… “Soprattutto perché – così leggo e così trascrivo – l’epoca della gloria e dell’influenza politica degli intellettuali come gruppo responsabile della cultura e delle norme etiche di una nazione è finita e appare improbabile che possa ritornare”.
Infatti, adesso, va di moda il polpettone, delizioso intruglio di sapori e sapere che secondo Pellegrino Artusi (intelligente intellettuale della padella e della forchetta offerto ai contemporanei in veste di detective dall’estro giallo-letterario di Marco Malvaldi) può far molto con poca spesa. Forse per amicale stima o forse per prendersi gioco della mia incapacità di prendere per serio quel che in un giallo (genere letterario assai di moda) proprio non sembra mai serio, l’intelligente profe che traducendo illumina e illuminando traduce l’incomprensibile, mi ha regalato il delizioso e misterioso libro intitolato “Odore di chiuso” (edito da Sellerio) che mischiando carte e titoli nobiliari, cortigiane, cortigiani, baroni e aspiranti nobili (tutti vivi, meno uno) accasati nella tenuta di Roccapendente per far passare il tempo e usare la caccia come espediente, promuove l’Artusi al ruolo di investigatore, per altro con risultati davvero eccellenti.
Considero Pellegrino Artusi un intellettuale, che della cucina e del cucinare ne ha fatto arte. Questa convinzione mi ha spinto, cercando libri non banali da regalare a una nipote non banale e soprattutto curiosa e capace di trasformare la curiosità in pietanze sopraffine, alla scoperta di tre volumi da lui scritti per spiegare la scienza in cucina e l’arte del mangiar bene. Mai incontro fu più felice. Non tanto per le ricette proposte, per il modo di presentarle, spiegarle, commentarle, renderle possibili, bensì per le pagine che egli mette a premessa per raccontare la sua straordinaria avventura di inventore di metodi e trucchi per trasformare un qualsiasi tocco di carne – rossa bianca rosata, a piacimento – in un’opera degna d’essere prima guardata e subito dopo mangiata, gustata, assaporata. Per la cronaca, Pellegrino era un qualsiasi pellegrino nativo di Forlinpopoli e poi migrato in cerca di gloria in una Firenze che allora proponeva bellezze e arte senza ahimè mettervi in parte occasioni per mangiare non a casaccio, ma bene e con soddisfazione. Non aveva il pallino del cuoco, però gli piaceva addomesticare a suo uso e consumo ricette rubate alle nonne o modi di far da magiare imparati di straforo da questo o quel cuoco sopraffino. Furbo e previdente, di ogni pasticcio preparato e cucinato da altri conservava traccia sotto forma di scritti in cui alle specificazioni delle dosi necessarie per fare questo o quello, aggiungeva quel tanto di poetica letteraria che bellamente trasformava il normale in qualcosa di eccelso. Però, quando decise che tanto ricercare e provare poteva essere pubblicato per essere compagno di viaggio di giovani che si apprestavano a fare famiglia, Pellegrino s’accorse che di editori disposti a prendere per serio quel che per loro e tanti altri era soltanto un passatempo di gola ce n’erano assai pochi, praticamente nessuno a portata di mano, decise di fare da solo, di pubblicare cioè a sue spese quel che aveva scritto e meditato.
Che Pellegrino Artusi fosse un vero intellettuale, di quelli che pensando alimentano e alimentando concorrono a dissolvere i dubbi, io non dubito. E voi?
LUCIANO COSTA