La politica vive di idee. Vero. Peccato però che tali idee, magari anche di qualche valore, vengano spesso accartocciate e buttate come carta straccia. Esempio lampante di tale scempio (o magari di santa giustizia finalmente applicata, secondo molti) è Matteo Renzi, comunque e sempre al centro delle contese sebbene il suo sia ormai il destino dell’ex. Salito al “tempio della politica” quasi dal nulla, facendo suo l’antico adagio che il premio lo dà a chi osa, sconvolse prima il partito in cui aveva trovato collocazione (un “PD” in mal arnese e bisognoso di cure urgenti) e poi l’intero apparato (un sistema appiccicato al solito tran tran e chiuso a qualsiasi insolito punto innovativo). Il fiorentino, salace e bischero la sua parte, dopo aver conquistato la segretaria del partito, fece il pieno di voti (così tanti da far dire anche agli scettici che il PD era ritornato a splendere) e con quello il diritto di essere Premier di un’Italia che chiedeva riscatto, riforme e certezze. Proponendo riforme e immaginando ogni giorno di vivere in un Paese capace di vincere qualsiasi sfida, Renzi stupì, sconvolse, intricò, appianò, confortò, mortificò, rinnegò (anche vecchi compagni di ventura), peccò… E i suoi furono, a turno e in rapida successione, peccati d’immodestia, di superbia, di vanità… Così, esagerò nell’arte dell’apparire, suscitando intorno a lui quel venticello capace di trasformare idee e parole importanti in strali e antipatie diffuse. Così, finì nella polvere sollevata da chi gli era stato e ancora gli stava intorno
E’ estate, tempo di divagazioni e di fughe dal reale. Ovviamente, neppure so che cosa faccia il citato Matteo, nel suo tempo libero; so per certo che esercitando il mestiere di politico gli interessa mettere puntini sulle “i” di una proposta di legge (la cosiddetta Zan) forse lodevole o forse soltanto divisiva e virgole dove le parole rischiano di diventare un inno al nulla dominante. Non sono fanatico del bischero fiorentino, proprio no, però ho un debole per chi, come lui, sfida l’impossibile (quello che oggi si chiama allineamento tacito alla logica del consenso, o al voto, se preferite) lanciandosi lancia in resta contro i mulini a vento, gli stessi a cui dedicava attenzioni il prode don Chisciotte. Per questo trovo nel suo modo di essere controcorrente (da poco diventato anche titolo di un suo libro che, guarda caso, sarà domani sera al centro della proposta culturale di “Castenedolo incontra”, associazione che nel nome di Aldo Moro e Mino Martinazzoli tiene vivo il confronto politico) l’invito a scrollarsi dell’apatia dello star bene da soli (potrebbe farlo e i mezzi derivanti da conferenze all’estero e da consulenze artistico-televisive glielo consentirebbero) assumendosi l’onere di mettere in chiaro fatti e misfatti di una stagione politica difficile e controversa.
Non è il caso di divagare e neppure di fuggire. Invece, è tempo di leggere, ascoltare e riflettere. “La politica non esclude il conflitto acceso, anzi, la sua pratica è un modo per canalizzare il carattere acefalo della violenza in quello culturalmente simbolizzato dal conflitto tra le idee” ha scritto ieri Massimo Recalcati. Ha ragione. Infatti, soprattutto negli ultimi anni “il linguaggio della politica, grazie all’affermazione del populismo prima leghista e poi grillino, ha conosciuto una regressione preoccupante alla dimensione dell’insulto, del dileggio, della diffamazione”. Così l’insulto, grazie anche a stampa e media compiacenti, “ha preso il posto del ragionamento e la squalifica morale dell’avversario quello del confronto tra idee divergenti…”.
Ma qualcuno sa esattamente che cosa sia e che cosa si intenda per populismo? “Buono per convogliare consensi dalla protesta popolare, il populismo – ha scritto uno storico a commento delle idee sostenute illo tempore da don Sturzo – si rivela, specie nei momenti di difficoltà, inadeguato e forse nemmeno interessato a superare i conflitti e i problemi che l’hanno prodotto e lo alimentano”. Esso infatti “vuol dire omologazione, massificazione e, a uso di alcuni politici, significa assecondare le passioni più basse in nome del consenso”. Fra l’assolutismo dell’individuo al centro delle politiche liberiste e la mistica dell’egualitarismo delle dottrine marxiste, replicato in qualche modo dall’uno vale uno di marca populista, solo la dottrina sociale della Chiesa indica, secondo il sociologo Stefano Zamagni “una nuova possibilità: l’alleanza fra un nuovo ambientalismo meno ideologico e la visione cattolica”. Nella Fratelli tutti, enciclica francescana scritta da un papa che non a caso ha scelto di chiamarsi Francesco, per la prima volta un intero capitolo è dedicato alla buona politica”, quella che, tra l’altro, spiega come “nei populismi non esiste il popolo, ma esistono solo il leader e la massa”. Esattamente il contrario di quel “popolo e libertà” che il Savonarola, religioso-politico-predicatore di sventure, aveva messo come motto al suo fare e disfare. “Popolo e libertà” che don Sturzo, ancora lui, nel 1936 nell’esperimento politico antifascista fatto a Londra spiegava così: “Popolo significa non solo la classe lavoratrice ma l’intera cittadinanza, perché tutti devono godere della libertà e partecipare al governo; Popolo significa anche democrazia, ma la democrazia senza libertà significherebbe tirannia, proprio come la libertà senza democrazia diventerebbe libertà soltanto per alcune classi privilegiate, mai dell’intero popolo”.
Di tutt’altro tenore è il populismo, in tutte le sue salse e possibili declinazioni. Esso, ha scritto Flavio Felice, di certo esperto di tale scienza, “si pone come un superamento della democrazia rappresentativa, perché mira a sovvertire le basi della rappresentanza, sostituendola con il principio di identità: il leader parla come il popolo, mangia come il popolo, presenta i vizi stessi del popolo e, in nome di tale identità, pretende di governarlo come il pastore governa il suo gregge; la concezione dello stesso popolo, inteso come comunità organica coesa (gregge) confina ogni opposizione politica dietro la categoria discriminante di non-popolo. Il limite e il controllo che il populismo esercita sono di ordine giuridico, istituzionale e culturale, andando ben oltre la distinzione dei poteri di matrice classico-liberale e fornendo la possibilità di coniugare libertà e uguaglianza, ricorrendo alla nozione di fraternità, in virtù della quale siamo tutti uguali, ma non identici, come i figli di uno stesso padre”.
Di nuovo: non so cosa pensi il fiorentino di tutto questo, Però Vittorio Lingiardi, psicanalista, in “Arcipelago N”, che traduco in arcipelago nessuno, rilegge il mito di Narciso e dice che siamo tutti diventati, quindi anche il bischero fiorentino, come lui. Narciso, bello e unico, che per sublimazione di sé medesimo finì per affogare in un riflesso d’acqua, c’è ancora e va predicando in giro, pur sapendo che non serve ormai a niente, il mito dell’io. Narciso non sa o finge di non sapere che oggi va di moda l’io e nessun altro, che il futuro è fatto di chi dice sono vasto, contengo moltitudini. Mauro Bonazzi, filosofo tascabile, ha scritto l’altro ieri che “viviamo in un mondo ossessionato dal successo, rigurgitante di manuali pratici che insegnano a essere felici, come se la felicità, l’appagamento, l’auto-realizzazione siano qualcosa che possiamo conquistare se solo lo vogliamo. Suggerendo di conseguenza che chi sta male, sotto sotto lo ha voluto”.
Nei giorni precedenti questo domenicale ho scritto di Cuba e anche di rivoluzione e di fallimento della rivoluzione. Ieri ho trovato, ben incastonato dentro un rosso cangiante, quel che a proposito di rivoluzione diceva Mao e cioè che “la rivoluzione non è un pranzo di gala, non è un’opera letteraria, un disegno, un ricamo, non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità e delicatezza, o con dolcezza e magnanimità. La rivoluzione è un atto di violenza con il quale una classe ne rovescia un’altra”. Cuba non lo sapeva, ma divenne ugualmente terreno di prova di un massimalismo sfrenato e senza futuro.
Ci fosse ancora quel che non a caso si chiamava anche Schizogene, che tradotto significa generatore di divisioni, scriverebbe adesso, dedicandolo al Matteo fiorentino, un epitaffio illuminante. Tal quale a questo che vado a riassumere: “Qui giace ma ancor si compiace / Fiorentino / che avendo allevato la fronda / destinata a condurlo all’oblio, / di nulla poteva compiacersi, ma di tutto dolersi”.
LUCIANO COSTA