La storia non è bella, anzi, è bruttissima. Racconta di certi “signori” che non si sopportano, che si tirano sassi e si scambiano parolacce, insomma, due che si fanno la guerra, e si sa quanto la guerra costi e preoccupi. In simili casi, la soluzione sarebbe quella di vederli andare per strade diverse. Invece, stanno lì e continuano, continuano, continuano… come se fossero abitanti del paese di Bengodi mentre sono soltanto stupidi residenti di un luogo che vive all’incontrario, dove chi dice pace intende guerra, chi grida libertà intende arbitrio e chi dice democrazia intende dittatura… Tale storia, purtroppo, si ripete anche dove “Dio” non è più considerato l’Eterno, il Giusto, l’Amore, ma solo un simboloda esibire a seconda delle convenienze; si ripete dove la religione è trasformata in “fanatismo” e i “fedeli” in ambasciatori e portatori di morte; va in scena quando la misericordia, che è una virtù a cui nessuna religione e nessun credente (Vangelo, Corano e Torah ne parlano volentieri) deve rinunciare se davvero vuole conoscere la felicità e coglierne i frutti. Ho (ri)letto in una preghiera, non importa se cristiana, musulmana, o ebrea, che “la misericordia di Dio trasforma il cuore dell’uomo e gli fa sperimentare un amore fedele e così lo rende a sua volta capace di misericordia”. Oltre le righe ho visto i disperati che non sanno più dove andare, che vagano da un campo profughi all’altro, che vendono l’anima per ottenere un posto sul gommone direttoovunque vi sia un barlume di speranza da raccattare. Ho anche pensato che di fronte a certe malvagità è semplicistico (ri)dire che è “roba loro”, che è impossibile, o anche solo pilatesco, (ri)dire “non mi interessa”.
Oggi, di fronte ad anniversari che sarebbe meglio cancellare piuttosto che annotare (due anni fa: la Russia invade-assale-offende-impone… la sua tracotante forza militare e fa guerra all’Ucraina che non accetta di esserle sottomessa; un anno fa: a Cutro, in Italia, un barcone “dimenticato o non visto o lasciato in balia delle onde” si schianta e deposita sulla spiaggia un carico di morti e feriti; chissà quando: quella Nazione contro popoli disperati, quell’altra contro una sua dirimpettaia colpevole di farle ombra, quell’altra ancora contro chi nel suo ventre si ribella alle ingiustizie, al sopruso, alla cancellazione di ogni diritto, alla negazione della libertà e della democrazia, che sogna cieli e terre semplicemente nuovi…), oggi, dicevo, cerco alternative credibili… Ma quanta fatica per trovarle! Per esempio, al fine di stabilire che “guerra” significa “conflitto tra stati diversi”, mi ci è voluto un po’ di tempo. Però alla fine, quei ragazzi con cui stavo disquisendo, ce l’hanno fatta. Prima avevano parlato di battaglia, conflitto, scontro; uno aveva ipotizzato addirittura partita di calcio, che disputata tra due squadre di provenienza diversa può configurarsi alla stregua di una “guerra”; un altro ha proposto come termine di paragone e, quindi, di definizione, l’impressione diffusa che vuole marito e moglie eternamente in conflitto – alias “guerra” – tra loro. Può starci che un gruppo di ragazzi si perda tra le pieghe della semantica; niente giustifica, invece, il pressapochismo con cui si avvicinano alla definizione di un termine che contenendo di per sé tutto l’obbrobrio possibile e immaginabile dell’esistenza, meriterebbe ben più grande attenzione e conoscenza.
E’ anche vero che su “guerre” combattute o soltanto ipotizzate, storici famosi e comici burloni si sono sbizzarriti producendo titoli e definizioni che la modernità e l’accorciamento dei termini prodotto dalla scrittura computerizzata non hanno cancellato. Famose sono le “guerre puniche” (Cartagine e Roma per vent’anni – dal 264 al 234 a.C. –, in tre riprese, se le danno di santa ragione), fumose quelle tra “ateniesi contro troiani” (che attualmente sono in replica, con Bruxelles al posto di Troia, quindi traducibili in “ateniesi contro europei”), formose quelle del “pane” (nella Milano dei ”Promessi sposi”, ma anche altrove), golosa quella delle “brioches” (sceneggiata a Parigi), odorosa quella delle “due rose” (combattuta tra i Lancaster e gli York: gli uni con la rosa bianca e gli altri con la rosa rossa tra i denti), sfarzose e ipotetiche quelle “stellari”. Invece, è semplicemente deliziosa (e istruttiva) quella dei “bottoni”. Per due motivi: perché è frutto di fantasia straordinaria e perché non genera né mostri né morti, ma solo ragazzini che, privati dei bottoni (bottino di guerra), sono costretti a ritirarsi badando soprattutto a non restare in mutande. Louis Pergaud scrisse e pubblicò la storia nel 1912 ottenendo un discreto successo, che aumentò a dismisura quando le pagine diventarono cinema ma che divenne preoccupante quando qualcuno, in pieno regime, sostituì i ragazzini con le grandi potenze e i bottoni con le nazioni via via occupate. A quel punto, purtroppo, la raffigurazione non era più un gioco. Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia. Non è però cambiata la sostanza delle “guerre”, che restano inutili, stupide, assurde, ignobili, indegne, ridicole, soprattutto incomprensibili.
Tanto incomprensibili da rendere impossibile ogni spiegazione, anche minima, richiesta da ragazzini tutti giochi e disegni, sottoposti loro malgrado al tam-tam di radio e televisione, ai soliti grandi. Chi, infatti, è in grado di spiegare perché in un Paese chiamato Ucraina si spari-bombardi, insomma s’uccida gente che vorrebbe soltanto vivere in pace, perché in Africa neri sgozzano bianchi e bianchi affamano negri, perché in quell’altro Paese neanche la sabbia può stare in pace, perché in una Terra chiamata Santa ci sono più armi che giocattoli? E anche: perché tra il Nord e il Sud della nostra bella Italia i numeri (degli occupati e dei disoccupati, del malessere e del benessere, della buona e della cattiva sanità, dei poveri e dei ricchi, dei malfattori e dei benefattori, degli emigranti e degli immigranti, dei ladri e degli onesti, dei benefici e dei malefici, dei mafiosi e dei non mafiosi) sono sempre diversi, diversificati e in costante disaccordo?
Leggendo certi dati riassuntivi di quel che siamo, siamo stati e stiamo diventando prevale l’impressione di essere immersi in un mare di guai o, se preferite, dentro in una “guerra dei numeri”: non combattuta, non definita, non dichiarata, ma reale. Tale da sollecitare, come è capitato ai ragazzi di cui sopra, una nuova versione. Quella che, per esempio, potrebbe spiegare l’inutilità di uno scontro tra poveri quali siamo e il vantaggio derivante dal trasformare l’attuale stato di guerra in un buon compromesso. Ma è proprio questa la fotografia della nostra società o è solo la fotografia di un mondo di ragazzi, che non aiutato a pensare e a ragionare, neppure sa come definire quel che gli sta intorno, per esempio la guerra?
“Io ho l’impressione – mi ha detto l’altro ieri un operaio, soprannominato Ruspa per il suo carattere di spazzatore globale – che qualcuno, di qui e di là dal tavolo ciurla nel manico, spala acqua per far sembrare tutto oro quel che luccica. Se è così, dove sono finite la serietà e la solidarietà?”. Probabilmente, gli ho risposto, non ci sono più. Oppure, ho aggiunto, siamo diventati così superbi da non vedere nemmeno la polvere sollevata dal nostro ricco e lungo mantello. “In effetti – aggiunse il Ruspa – se qui tutti vogliono avere ragione, chi se ne frega della polverelasciata in scia: l’unica ragione che vale e che deve essere accettata, è la loro. E così non si va da nessuna parte”.
Però, da qualche parte ho sentito dire che l’umiltà, quella che servirebbe per vedere la polvere lasciata dal proprio mantello e per far spazio alle ragioni degli altri, è morta e sotterrata, sebbene resti “una virtù discreta” che, come sottolinea un certo Nicolàs Gomeza Davila (a me sconosciuto ma sicuramente di quelli che invece dovrei e dovremmo conoscere) “anche quando non salva dall’inferno, almeno ci salva dal ridicolo”. Ahimè, pochi (o addirittura nessuno) sanno che “l’umiltà è una virtù nascosta, mai appariscente, che non ama farsi avanti e che in ogni occasione di visibilità rimane un passo indietro… Men che meno sa che l’umiltà è l’opposto di superbia (il peggiore dei vizi) e anche della prevaricazione, della violenza e, pensateci bene (che magari tocca da vicino la mia e la vostra esistenza) anche di quel che si chiama senso del ridicolo. Certo, come è scritto nel libro dei savi, “per quanto tutto il mondo sia cosparso di sciocchi, non v’è alcuno che crede di esserlo, e nemmeno lo sospetti”. Vale per allora, ma anche per adesso.
Scrive Sergio Valzania che “quando vediamo alla televisione le immagini in bianco e nero, leggermente accelerate, dei grandi dittatori del Novecento, le personalità che hanno precipitato l’umanità in una tragedia dalla quale avevamo coltivato la speranza di essere usciti definitivamente, ci stupiamo della credibilità che tali figure hanno avuto, del fatto che quasi nessuno abbia colto il lato ridicolo del loro modo di muoversi e gesticolare.Oggi, mentre le guerre in corso si estendono ogni giorno – aggiunge -, i responsabili politici del mondo non sembrano attenti all’immagine di sé che danno, alla mancanza di umiltà e disponibilità che manifestano, in definitiva al rischio di cadere in un tragico ridicolo che corrono”. E domani, che altro accadrà? Forse “la pace”, forse “una pace giusta”, forse niente di tutto questo, e così sia…
Resto ignorante: qualcuno potrebbe spiegarmi o anche solo aiutarmi a capire che cosa si intende per “pace giusta”? Forse che Pace non vuol più dire rispetto, ma solo accettazione di un rispetto imposto…
LUCIANO COSTA