Di loro, gli anziani che sono il sale della terra e i pilastri su cui poggia la civiltà, adesso si parla per dire che devono essere i primi destinatari dei vaccini antivirus e delle buone intenzioni dello Stato. Ieri, uno di quei politici che faticosamente cercano di farsi notare senza averne merito (un bla-bla piuttosto che uno sgobbone), ha detto che “è urgente rimettere l’anzianità al centro degli interessi e di ridare agli anziani il valore che hanno faticosamente conquistato”. Uno che agli anziani-pensionati ha dedicato il suo tempo e anche porzioni importanti di vita, con evidente impazienza, gli si è avvicinato suggerendogli di smetterla di dare aria alla bocca perché “non basta più dire senza di voi ci sentiremmo orfani e poveri di saggezza e neppure aggiungere che gli anziani sono sempre benvenuti e attesi”. Quel che serve, invece, ha aggiunto il vecchio con tessera sindacale certificata “è non mettere confini tra noi e loro, tra il loro e il nostro mondo, tra le pretese del nostro produrre tanto e il loro diritto a produrre il necessario o anche solo il possibile”.
Non so voi, ma io resto basito-contrito-spaesato-ingarbugliato-arrabbiato e stordito ogni volta, e non è roba di adesso, che sento enunciare dallo Stato provvedimenti di aiuto e sostegno per tutti o quasi tutti meno che per gli anziani, oppure pensionasti, magari vecchi assai poco in salute, spesso dimenticati dal loro stesso parentado, ospiti fissi di strutture di assistenza che tutto danno e tutto tolgono. In tredici mesi di limbo virale – “un’agonia pandemica senza limiti, raccontata e messa in vista più per far sapere di esserci stati immersi che per dare fiato e speranza agli ultimi”, ha scritto un’amica con alle spalle quasi sessant’anni di onorevole servizio medico in case di riposo – la conta degli anziani andati avanti è stata inarrestabile.
Un anno fa, di fronte alle cifre che dicevano come le Case di Riposo erano diventate, causa virus, vere e proprie anticamera dell’eterno riposo, posi a me stesso e a chi aveva ventura di leggermi, una domanda: che società è quella che permette questo modo di gestire la vecchiaia e, soprattutto, a chi giova cancellare (volevo dire sotterrare, ma visto i tempi che corrono forse è meglio sorvolare) i valori che gli anziani dentro o fuori le Case di Riposo, portano con sé? La risposta fu univoca: non giova a nessuno, soprattutto perché, come è scritto e da anni si va dicendo in giro, gli anziani sono una risorsa, i nonni una benedizione e i vecchi, che se non ci fossero bisognerebbe inventarli, autentici custodi della memoria. Nonostante questo c’è, si vede e si misura, un’emergenza anziani che lascia esterrefatti, basiti, increduli. Le statistiche dicono infatti che dall’inizio dell’epidemia, di persone comprese tra i sessanta e i novanta anni e più, ne sono morte migliaia. Di queste, quelle morte nelle Case di Riposo compongono un “totale” talmente assurdo da far dire all’ultima suora rimasta coraggiosamente in servizio tra i vecchi che “mai avrei immaginato di dover chiudere cancelli e porte alla speranza”.
Ora, la domanda che politici e amministratori pongono al cosiddetto “sistema assistenziale per anziani”, è quella che dipingendo la disfatta di ogni forma di “protezione assistita”, mette in discussione qualsiasi forma di struttura pensata per supplire il disimpegno progressivo ed evidente della società produttiva e tecnologica rispetto alla “sua” componente più vecchia. La risposta, se ci sarà, non servirà a dare un nuovo volto all’esistenza dei classificati in terza o quarta età, ma almeno consentirà di immaginare che la storia non abbia un deprecabile replay. Forse, ma solo forse, favorirà riflessioni coraggiose sul come si è giunti a una realtà che volendo acquietare d’un solo colpo esigenze e coscienze – le prime dettate dal progresso, dal lavoro, dal benessere da conquistare difendere e aumentare, dal soldo da guadagnare per vivere, possibilmente alla grande, e con qualche margine da far fruttare al mercato della ricchezza e del superfluo; le seconde, pretese da quell’umanesimo che ancora alberga nei cuori e si rifiuta di vedere gli affetti più vicini e cari svanire in un reticolato di protezioni, di assistenze, di cure certo necessarie ma, ahimè, spesso palliative, cioè buone se buone e inutili se inutili con la prospettiva di considerarle comunque ultima ratio e non un mezzo per ricominciare a vivere –, di fatto ha imposto la logica del distacco per consentire, appunto, di mettere d’accordo esigenze e coscienze.
“Quando era difficile vivere e facilissimo morire – ha scritto un eminente storico e sociologo – il ricovero inventato da suore, preti e anime generose fu la risposta al disinteresse della società dominante, impegnata ad accumulare piuttosto che ad accettare che i lavoratori avessero diritti e meritassero paghe dignitose”. In quelle strutture il vecchio, indipendentemente dalla sua capacità contributiva, veniva accettato, sfamato e curato. Poi, l’affievolirsi del ruolo caritativo di congregazioni religiose, parrocchie e enti benefici e il progressivo affermarsi di conquiste sociali, paghe sicure e previdenza sociale assicurata, introdusse la logica della retta, cioè del necessario per consentire alle strutture di sopravvivere.
Ci furono allora sindacalisti e politici che posero con forza la questione del “diritto all’assistenza garantita” per anziani non autosufficienti, malati o anche solo soli e abbandonati. La risposta dello Stato si tradusse nella creazione di strutture pubbliche (poche per la verità), nella compartecipazione alla gestione di quelle private attraverso convenzioni fondate sul do ut des, il dare per avere, classico dei contratti di comodato. Quel modo di procedere, insieme all’illusione che, sempre e comunque, dove non arrivavano i soliti generosi supportati dai Comuni ci avrebbe pensato lo Stato, favorì la creazione di nuove strutture e la modifica dei presupposti esistenziali di quelle in servizio. In più, la corsa al progresso, fatta con tanto ardore e poche regole sociali, costrinse gli abitanti del pianeta vecchiaia a fare i conti con l’inutilità loro imposta da un sistema che di fatto decretava la loro incapacità al lavoro, alla produzione, alla gestione delle risorse, alla conduzione della casa come luogo di vita e di speranza per sé e per il compagno o la compagna… Tutt’al più, quella “terza età”, che già incominciava a diventare “quarta”, piena com’era di nonne e nonni costretti a reiventarsi, poteva fare da stampella a figli con prole bisognosa di custodia e attenzioni, ma entrambi troppo impegnati nel lavoro e quindi non in grado di farcela da soli.
Allora qualcuno propose di tenere i nonni-vecchi-anziani-acciaccati eppur vivi, a casa, magari potendo contare sull’aiuto esterno dello Stato… Adesso, in tempo di pandemia e di vaccini anti-pandemia da distribuire e iniettare, di fronte all’imperativo “prima gli anziani” qualcuno ha creduto logico mettere lì un “prima chi produce” che tradisce e consuma ogni riferimento all’umanesimo…
Sentito il rimprovero rivolto da Mario Draghi a chi nel proprio ambito – comune, regione, frazione, associazione – ha messo dopo l’età e prima la capacità di produrre (è accaduto, per esempio, in Toscana piuttosto che altrove, dove i vaccini sono stati distribuiti secondo classificazioni utilitaristiche e di categoria e non in base al diritto di età) mi è capitato di leggere quel che Antonio Polito aveva appena scritto, e cioè che “l’Italia che salta la fila non è solo un fenomeno di costume, del tipo lei non sa chi sono io, sebbene alcuni beneficiari non sfigurerebbero affatto in quel film grottesco”. Secondo il politologo questa “è anche l’autobiografia di una nazione, perché rivela una struttura profonda della nostra società, in cui le persone contano di più e hanno più diritti in quanto membri di una categoria o di una corporazione, di un gruppo o un’associazione, di un ordine o un albo, che come cittadini”. In cronaca ho anche letto che “ballerine, modelle, professori d’orchestra, insegnanti di discipline sportive, istruttori di scuola guida, cuochi e camerieri” erano tra i 57 mila aspiranti alla vaccinazione inseriti nel portale della Regione Toscana, che vanta il primato italiano di immunizzati tra gli under 59 e la maglia nera tra gli over 80”. Però, “è che tutto sembra nei limiti della legalità. Non siamo in somma di fronte a singoli furbetti, ma a un sistema di antica origine, che seleziona per arti e mestieri, secondo il criterio medievale delle utilità…”.
Ieri, dalle righe scritte da un filosofo eccellente, ho appreso che “i greci antichi avevano racchiuso il senso ultimo dell’esistenza umana in una formula di due parole soltanto: pathos mathos”. Ho così imparato che “nel dolore (pathos) s’impara (mathos), che forse non si conosce, ma si capisce. Cioè si comprende qualcosa che forse non si può neppure spiegare, ma che è così”. E questa, secondo il filosofo, “è la saggezza, è la sapienza. Perché questa è la vita: un impasto di dolore e gioia, non quel parco divertimenti che la nostra epoca di progresso e pubblicità cerca pateticamente di raccontare. Ecco perché i greci antichi provavano tanto rispetto per la saggezza. Ed ecco perché invidiavano chi non aveva dovuto farne esperienza, chi aveva potuto permettersi il lusso di una vita superficiale…”.
Oggi spero che gli anziani tornino al centro dell’attenzione; domani manderò a dire ai potenti che reggono le italiche sorti che se non s’appoggiano alla pianta più vecchia rischiano di non restare neppure in piedi… Nel frattempo, non mi resta, o meglio non ci resta, che sorridere, sorridere, sorridere sempre anche quando sembra impossibile che il cielo conceda tale privilegio. Perché è proprio in questo sorridere che s’annida e fiorisce la speranza che anticipa la beatitudine…
LUCIANO COSTA