Non mi interessano le corse in avanti e indietro per dire e disdire prima che altri dicano e disdicano chi e come potrebbe essere il nuovo Presidente della Repubblica. Nella migliore delle ipotesi sono esercizi di cattivo gusto, messi in mostra stando sospesi su un filo, che è la posizione più precaria che si possa immaginare anche solo per raccontare facezie o inventare candidature. Al contrario mi interessa che attorno al futuro Capo dello Stato nessuno s’inventi la commedia delle parti: io dico un nome e tu lo contesti; poi passa quell’altro e propone un altro nome e un nome ancora diverso; quindi ecco i saputelli, che di idee sostanziose sono scarsi, ma che di parole sono sovrabbondanti. Uno di questi saputelli, capo di partito, ha annunciato che chiamerà uno a uno i suoi pari grado e li inviterà a sedere attorno a un tavolo per discutere e trovare accordi sul nome da proporre per l’elezione a Capo dello Stato; un altro non meno saputello ha detto che sul nome devono convergere tutti, soprattutto la destra che è l’ago della bilancia di un tutto indefinito, ma secondo lui reale; un terzo saputello, che molti ritengono sapientone, ha preannunciato tempi brevi, una elezione già alla prima chiamata.
Questo girotondo di saputelli e sapientoni non aiuta certo a districare la matassa e neppure a dare un volto alla persona che sarà il Presidente della Repubblica. Anzi, deprime e lascia intendere che a lor signori (saputelli e sapientoni) preme soltanto che il candidato sia “proprio quello che piace a loro” e chi se ne frega se non ha i requisiti auspicati-attesi-richiesti ed esigiti dal buon senso politico e popolare. Il primo di questi requisiti vuole un Capo dello Stato super partes (posto cioè al di sopra delle parti, flessibile e capace di adattarsi alle vicende del Paese, i cui poteri si espandono e si restringono in relazioni a dinamiche nazionali”); il secondo che sia monocratico (chiamato a svolgere funzioni imparziali di collegamento tra gli organi istituzionali dello Stato, di iniziativa e di impulso del sistema costituzionale, di garanzia e controllo, di decisione sui conflitti tra Governo e Parlamento e di rappresentanza dello Stato a livello internazionale”); il terzo lo vuole sempre neutrale (non essendo espressione di alcuna forza politica, si pone come garante dell’unità del sistema costituzionale nel suo complesso). Sia chiaro, non sono requisiti inventati lì per lì dall’estensore del domenicale, ma vergati a chiare lettere dai costituzionalisti chiamati a spiegare il senso di ciò che era stato scritto nell’articolo 83 della Costituzione e via spiegato e determinato negli articoli successivi.
In caso di dimenticanza, ecco un ripasso su quel che è scritto. Dice l’articolo 83: “Il Presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento in seduta comune dei suoi membri. All’elezione partecipano tre delegati per ogni Regione eletti dal Consiglio regionale in modo che sia assicurata la rappresentanza delle minoranze. La Valle d’Aosta ha un solo delegato. L’elezione del Presidente della Repubblica ha luogo per scrutinio segreto a maggioranza di due terzi dell’assemblea. Dopo il terzo scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta”. Per i costituzionalisti “l’articolo prescrive che il Presidente debba essere eletto a scrutinio segreto e con una maggioranza di 2/3: un quorum così alto ha la funzione di spingere il collegio elettorale a indirizzare il proprio consenso verso una personalità in grado di rappresentare l’unità nazionale e di svolgere le sue funzioni in una posizione al di sopra delle parti”. Però, “dopo il terzo scrutinio diventa sufficiente la maggioranza assoluta, perché vi è l’esigenza di nominare il Presidente attraverso una mediazione fra i partiti”. La storia insegna che “questo sistema non è stato in grado di impedire che un Presidente fosse nominato con i voti dei soli partiti di maggioranza, ma in grado, questo sì, di scoraggiare l’elezione di un leader di spicco sebbene espressione di una forza politica determinata e magari antagonista.
Tutto chiaro? Per niente. Però, se è ammesso che i comuni cittadini siano perplessi e vedano ombre piuttosto che limpidi paesaggi, tale presupposto non è concesso a chi siede in Parlamento e che, di conseguenza, dovrebbe almeno conoscere di che pasta è fatta la norma che sorregge il suo scranno. L’impressione è che, invece, l’ignoranza regni sovrana. Non dovrebbe essere così, ma questo è quel che passa oggi la politica. Proprio lì, specchio fedele della gran baraonda di un mondo in cui tutto ha il suo dritto e il suo rovescio, le opinioni variano secondo la moda del giorno e le passioni di ognuno. “E il male – aggiunge il saggio – si fa credere persino quando è incredibile”.
Servirebbero invece buone scelte e anche ottime elezioni, perché si vive per lo più di esse. Però, dice sempre il saggio, “le buone scelte e le buone elezioni comportano cultura e retto giudizio, ché non bastano l’ingegno e l’applicazione”. Infatti “non c’è perfezione dove non vi sia elezione. E due sono i vantaggi: poter scegliere e scegliere meglio”. Ma, ahimè, “molte persone dall’ingegno fecondo e sottile e dal giudizio tagliente, anche colte e studiose, al momento di scegliere si perdono: sposano sempre il peggior partito, come volessero ostentare l’errore…”. Questione di fiducia? Forse sì, o forse no, almeno se si considera la fiducia solo un dato apparente, addirittura marginale. Leggo che “chi sa tutto non ha bisogno di fidarsi” mentre “chi non sa niente non può fidarsi”. Ma siccome “noi oscilliamo tra conoscenza e ignoranza, tra presenza e assenza, noi abbiamo necessità di chiedere fiducia” E sono proprio i nostri limiti, “che rendendoci eternamente parziali, ci spingono a un’ininterrotta ricerca di fiducia”. I saputelli e i sapientoni, invece, non cercano fiducia, semplicemente la chiedono e la esigono, perché “di loro è la ragione” mentre “di altri è il torto”. Invece avere fiducia, spiega sempre il saggio “significa concedere la propria fiducia a qualcuno: dargliela, dunque, non averla”. Poi succede che intraprendenza e furbizia “ti fanno convinto che puoi bastare a te stesso, facendo a meno dell’altro…”, come il Mazzarò della novella del Verga, che diventato grande proprietario terriero, in punto di morte s’accorge di non poter portare con sé tutta la sua roba…
Ho divagato (ma non troppo) per cercare di sottrarre l’elezione del Presidente della Repubblica dai giochi di parte. Fatica sprecata? Probabilmente sì. Infatti, lor signori marciano compatti verso tavoli a cui pochi o nessuno intende sedere, proponendo accordi che nessuno vuole sottoscrivere. Intanto, mancano solo venti giorni alla “resa dei conti”. Tanti o pochi dicono che non c’è tempo per ulteriori divagazioni. E’ anche vero, per dirla ancora col saggio, che “la solerzia mette in pratica all’istante ciò che l’intelligenza pensa a lungo”. Ma la fretta è una mania da stupidi, i quali “non vedendo l’ostacolo, agiscono senza riflettere”. Al contrario “i saggi sogliono indugiare anche troppo, ché dall’attenzione nasce la riflessione…”. Però, sebbene “augusta impresa è il saper correre piano”, sarà il caso di smetterla di giocare a rimpiattino e di mettere in chiaro quel che si vuole. Un Presidente di tutti gli italiani o solo di qualcuno?
Tullio De Mauro, illustre linguista, ha scritto che “il linguaggio non vive solo di parole. In quanto vive di parole, vive anche della preliminare selezione delle cose che con esse si vogliono dire, della scelta dei destinatari che possono intenderle, dei rapporti che chi le usa voglia stabilire con questi e voglia che questi stabiliscano con le cose che si dicono e con chi le dice. Parlare, insomma, è più che mettere insieme parole. E’ costruire e proporre (e, prima o poi, è capire) testi adeguati al contenuto che si vuole e si deve trasmettere a determinati interlocutori in vista di certe finalità”. E se lor signori provassero a mettere ordine in ciò che pensano e dicono? Insomma, meglio “prima dare un ordine alle cose che si vogliono dire, poi il resto”. Karl Kraus, mitico cantore del disincanto, diceva che “buttare tra i piedi del lettore parole di colore oscuro” serve a sollevare nebbia e dubbio. Magari anche a dimostrare che essendo “facile parlare difficile”, parlare difficile diventa il modo per non dire niente, neppure quale Presidente della Repubblica si vuole eleggere. Non riuscendo ad adeguarmi ai saputelli e ai sapientoni, ho l’impressione di essere un… diverso. Però, come ha scritto saggiamente Sandro Penna, poeta sconosciuto ma bravo, “felice chi è diverso / essendo egli diverso, / ma guai a chi è diverso / essendo egli comune”. Lo confesso: mi sento politicamente diverso. Quindi, spero ancora nel “bis” di Mattarella. Così, per non correre il rischio di finire a schifio.
LUCIANO COSTA