Il Domenicale

Balconare immaginando che tutto vada bene

Imperterrita e preoccupante prosegue la recita dei cosiddetti fine settimana improntati al vediamoci, divertiamoci, abbracciamoci e beviamoci allegramente sopra. Ieri, ultimo fine settimana di un febbraio corto ma indigesto, il panorama, in rapida sintesi, ha offerto questo: piazze e vie alla moda affollate in città e paesotti con pretese turistiche; angoli insignificanti improvvisamente illuminati di interesse nei paesi e nei paesini della grande pianura; perfino i cortili meno nobili di cascine, cascinali e baite rispolverati per dare ospitalità alla voglia di libertà troppo a lungo repressa; adiacenze di stadi e palazzetti dello sport invasi da tifosi arrabbiati e affamati di tifo; improvvisati balconi-palcoscenici, ideale alternativa a teatri e cinema chiusi, sovraccarichi di comparse disposte a tutto pur di apparire e avere l’opportunità di recitare la loro personalissima commedia. A uno di questi recitanti impegnato sul balcone a declamare al vento l’unicità della sua bellezza, la nonna contadina ha mandato a dire “non è che sei brutto, è che i belli sono diversi”. Invece, per rallegrare le spoglie scene dei luoghi abilitati a ospitare recite e commedie (da un anno chiusi e inanimati), un bizzarro estensore di pensieri fulminanti, ieri ne ha prodotto uno per dire “aggiungiamo una ‘a’ al tetro, riaccendiamo il teatro”.

Altrove, lontani da piazze e vie ma dentro e anche fuori i miei e vostri fine settimana, circolano liberi e giocondi troppi sfaccendati che s’affaccendano in questioni che non conoscono, tanti uditori che odono solo quel che rende, parecchi sordi che si compiacciono di non sentire ma che comunque vogliono interloquire, un numero esagerato di ignoranti-parlanti che senza vergogna annunciano ai quattro venti l’invenzione dell’acqua calda. Un tale che nell’attuale governo è pure sottosegretario al Ministero dell’interno (pare che il capo del suo partito, l’abbia voluto proprio lì perché fosse chiaro a tutti che sui migranti il governo da lui sostenuto e votato, ovviamente turandosi il naso, sarebbe stato di destra), interrogato sulle priorità a cui intendeva far fronte, con la sfrontatezza del celodurista e con l’assoluta ignoranza del reale, ha spiegato che il suo primo impegno sarebbe stato “di dotare le forze dell’ordine di pistole a emissione di impulsi elettrici”, immagino buone assai per scoraggiare i delinquentucci, forse chissà anche per ridurre a miti consigli gli ospiti di piazze vie, ma soprattutto, ne sono certo, per tenere al largo gli invasori che barchette, barchini e barconi arrivano dal mare.  

 A proposito dei sottosegretari e della loro sfrontata denominazione a cui mi sono dedicato in una nota pubblicata alcuni giorni fa in questo sito, per completare la disanima e certo senza alcuna volontà di svillaneggiare qualcuno, vorrei aggiungere la definizione inventata da Altan, che al sottosegretario di turno, il quale ovviamente non assomiglia a nessuno dei nominati, fa dire: “Sono stato nominato sottosegretario con delega a scassare”. Ma, a scassare che cosa? Probabilmente il quadro di riferimento, oppure l’armonia, o forse l’equidistanza, quando non semplicemente i “cabbasisi” o “cabasisi” (se vi sfugge la definizione, cercatela tra i gialli di Camilleri: Montalbano ve la spiegherà). Lo ammetto, c’è poco di poetico in tutto questo. Però, comunque, in ogni caso e a scanso di qualsiasi malevola intenzione, in così intorpidito panorama io intravedo un “pensiero poetante che pensa l’impossibile e immagina l’inimmaginabile”. Come sia possibile non lo so. Resta il fatto che sulla base di tale annunciato è possibile vedere tutto e anche il suo esatto contrario, misurare i problemi e far finta che in realtà non esistono perché, per dirla con Einstein, “non puoi risolvere un problema con lo stesso tipo di pensiero che hai usato per crearlo”. Insomma: se mille persone vanno in piazza noncuranti di regole e norme inventate per fronteggiare il virus dilagante, mille persone sono un problema non di adesso, ma di prima, cioè di quando le piazze, per essere vere espressioni di comunità felice, dovevano semplicemente essere stracolme.

Tra le pagine patinate di un rotocalco, un intelligente commentatore di costumi ha scritto che “c’è nell’aria un virus banale ma iracondo, che si nasconde addirittura nell’asintomatico, vittima ignara d’essere vittima”. Questo virus che alimenta la pandemia, ha aggiunto, mette in secondo piano la consapevolezza “che l’arma dell’epidemia sta nel silenzio dei numeri, nella percentuale dei contagi, nella quiete insondabile di parametri che scelgono la via dell’esponenziale. Così, non riusciamo a convincerci che qui è l’opposto dei social, che a questo giro vale la regola che meno fa boom e più si condivide, che meno esplode e più dilaga”, soprattutto perché “la variante killer non è quella che uccide prima, ma quella che si irradia di più e intasa gli ospedali”. Tutta colpa di Belzebù? Forse sì o forse no, Però, siccome Belzebù significa tra l’altro signore delle mosche (e gli insetti, si sa, non fanno quasi mai rumore) è facile sia proprio così.

Fuori dal seminato, per spiegare perché siamo individui, cioè esseri unici e irripetibili, ognuno con la propria personalità particolare, un filosofo s’è divertito a ingarbugliare le carte spingendosi a ipotizzare la fine degli “individui” e la nascita dei “dividui”: i primi messi lì per testimoniare l’unicità e l’individualità dell’essere; i secondi per confutare quell’unicità e individualità. Questioni di “io”, che esiste come esiste Babbo Natale, problemi di prevalenza del “sé” autentico e indiviso fondato sulla convinzione che ciò che noi siamo sia indipendente da quello che ci accade. Ma è un’illusione. Così palesemente illusoria da indurre Eraclito – illo tempore – a tacciarla di superficialità, dicendo più meno che noi siamo quello che diventiamo, e che quello che diventiamo dipende dalle esperienze che facciamo e dal modo in cui reagiamo alle sfide della vita. Insomma, “siamo influenzati dalle persone che ci stanno intorno, dalla famiglia alla società di cui facciamo parte, e persino dai luoghi che ci circondano, che se dipingono una realtà già degradata, altro non possono offrire se non una comunità priva di qualsiasi fondamento”.

Ciò non impedisce a tanti di noi, occasionali fruitori di piazze o anche stabili occupanti di scranni altolocati, di occupare spazi, scranni, palcoscenici e, soprattutto adesso che tutto è vietato, comodi balconi improvvisati di comode abitazioni o palazzi, utili per far sapere al contado che non ne possiamo più di chiusure, di divieti e di regole che sulla base di colori predefiniti orientano lo scorrere del nostro tempo, che ne abbiamo piene le tasche di politicanti sbraitanti e inconcludenti, che non siamo disposti a concedere spazio ulteriore ai balconari, quella categoria che “osserva gli avvenimenti senza prendervi parte”, che “esamina una situazione” restando lì a “guardare, osservare con curiosità da un balcone, o da un qualsiasi altro luogo elevato” senza troppo preoccuparsi se ciò che vede è malconcio o deprimente.

A proposito di questo modo di stare al balcone, che gli spagnoli traducono con un eloquente balconear, leggo che altrove, per esempio in Mesico, significa “rendere in qualche modo pubbliche le faccende private di una persona” o anche, ma solo in Uruguay, “perdere del tempo”. Cammin facendo, il termine balconear è diventato anche un verbo consentendo a più di un giornalista di scrivere, per esempio commentando l’impegno di papa Francesco in difesa del creato e delle creature, che “possiamo balconare davanti alla realtà o impegnarci per cambiarla”. Ovviamente, meglio la seconda.

Nel gergo argentino, balconear significa letteralmente “starsene a guardare dal balcone” con atteggiamento di pura curiosità, come quello di uno spettatore che non prende parte a ciò che sta contemplando, in risposta all’attitudine di chi, pur avendo un’opinione precisa riguardo a ciò che non gli piace o gli sembra sbagliato, non si butta nella mischia. “In questo senso – così leggo nel dizionario dedicato alle parole pronunciate dal Papa e così riferisco -, balconare si iscrive nella logica dell’indifferenza, poiché è espressione di disinteresse di fronte al mondo. Ma non solo. Infatti esso rappresenta anche un giudizio spregiativo”. Così, dal balcone in cui s’è accomodato, lo spettatore “non soltanto contempla passivo ciò che avviene sulla pubblica piazza, nell’agorà del mondo, ma addirittura critica coloro che cercano di fare qualcosa per migliorare la situazione, per alleviare le sofferenze, per modificare la realtà”.

Sarebbe invece il caso di chiedersi: da dove dobbiamo cominciare a cambiare il mondo? Non so chi e quando, ma una volta qualcuno ha chiesto a Madre Teresa da dove bisognava iniziare per cambiare il corso della storia e fare in modo che gli ultimi diventassero i primi. “Da te e da me!” rispose lei. Aveva grinta quella donna; e non le serviva balconear per farsi intendere; e sapeva davvero da dove iniziare per cambiare il mondo.

Meditiamo gente, meditiamo!

LUCIANO COSTA

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