Il Domenicale

Bellezza, parole, silenzio e poesia…

Si vive, si muore, si piange e si ride come in qualunque altro giorno. Però oggi, benché sia vigilia, è già Ferragosto, festa pagana che esalta lo spirito vacanziero e spensierato degli umani, se non proprio di tutti di sicuro di tanti. Quindi, buon Ferragosto. Se siete al mare, godetevi il sapore di sale, la frescura portata dall’onda, l’affollamento sproporzionato di ogni lembo di spieggia, la corsa all’aperitivo serale, le cantate alla luna, la compagnia di (eventuali) moscerini e zanzare, il vociare dei vicini d’avventura, l’insorgenza di amori improvvisi e l’immancabile grido di chi è sempre convinto che “si stava meglio quando si stava peggio”; se siete in montagna respirate quell’aria fine, camminate con saggia lentezza, pedalate con gioia, mangiate e bevete il giusto, apprezzate gli spazi attrezzati senza però disdegnare tutto ciò che il bosco mette a disposizione, cercate incontri amichevoli con animali pacifici e tralasciate invece di andare a importunare lupi e orsi che sebbene siano di moda è bene lasciarli dove stanno; se siete altrove – al lago, in collina, dove il fiume è ancora capace di portare acqua, nella pianura che genuinamente spande odori e invita a ripensare le dolci atmosfere favorite dall’aia affollata e delle tavolate allestite sotto gli antichi portici delle cascine, in città e paesi che pur restando città e paesi per un giorno mostrano tutto il bello che possiedono (ovviamente se qualcuno lo cerca) – date a questo altrove la patente di luogo amato e agognato e troverete degna ricompensa. Da sognatore incallito, come quello che da san Lorenzo in poi alza lo sguardo per vedere il cielo colorarsi d’infinito, per dirla col saggio e folle Bergonzoni, “sto uscendo di testa per incontrare una stella cadente… Vediamoci lì”.

Tutto semplice, normale, scritto, disegnato, organizzato e condito da apparenti apparenze, o tutto sbagliato, rovesciato, ammalato, disturbato, infestato da parole che dicono come sia facile trasformare il bello in brutto e il piacere in dispiacere? Mi avvalgo della facoltà di non rispondere. Dico però che sognare si può, anche se temo che il tempo dei sogni sia scaduto da un pezzo. Adesso si contano i numeri (che appaiono e scompaiono sotto forma di voti), non le idee (che non ci sono e che se ci sono non hanno spazio in cui mettere radici), neppure le grida di coloro che invocano chiarezza e verità. Dice Natalia Aspesi che politicamente “ci aspetta un nubifragio che pagheremo tutti”, perché “la democrazia non ha (ancora) saputo fare di meglio”. Tradotto a uso e consumo dei giorni che stiamo vivendo e che continueremo a vivere, vuol dire che sarà un rincorrersi continuo e disordinato di destra, sinistra, centro e mille altri luoghi, ognuno vantato come il migliore e dunque massimamente degno d’essere visitato, condiviso e, ovviamente, votato…

Ieri sera, nella solita piazza d’estate impegnata a disquisire su tutto e sul contrario di tutto (tema dominante era il potere e chi lo cercava e lo sognava) uno sconosciuto turista, forse preoccupato dal persistere di discorsi per di più evasivi e banali, ha alzato la voce per dire “ma voi lo sapete dove nasce il potere?”. Seguì un silenzio assordante. Nessuno sapeva e, soprattutto, nessuno voleva spendere parole per dare risposte approssimative. Poi, all’improvviso, dal fondo piazza, un giovanotto raccomandò ai perditempo di andare a leggere Elias Canetti e qualche suo emulo, tutti pensatori, filosofi e sognatori, però capaci di identificare il potere e i cercatori di potere, per i quali quel sottile ma nefando modo d’intendere il vivere quotidiano “nasce in conseguenza del desiderio di mantenersi puri e di mantenere incontaminata la società dalla paura del contatto” che immancabilmente spinge a escludere l’altro, perché “gli altri sono come parassiti che rischiano di contaminare e corrompere la comunità sana…”.

Così, dunque, funziona la logica del potere? Parrebbe proprio di sì. Con diverse approssimazioni, in quest’atmosfera elettorale intrisa di promesse, voglio, credo, in cui si presume addirittura possibile che appena vinta la battaglia si faccia piazza pulita di qualunque cosa non allineata al volere dei potenti, la ricerca del potere e non la rincorsa al bene comune ha il sopravvento. Come scrive il filosofo Bonazzi, prevale la divisione tra “noi” e “loro”, senza che mai si capisca chi sarebbero i “noi” e chi i “loro”.

Poi, fuori dalla piazza estiva e vacanziera, ecco la fotografia drammatica di un bimbo che soffre. E’ stata scattata altrove, lontano da qui, dove il ferragosto non esiste e dove invece esiste la vacanza, nel senso di assoluta mancanza, di ciò che sarebbe necessario per vivere. “Viene da pensare, allora – ha scritto Isabella Piro – che questa foto ci turba perché riguarda tutti: la situazione descritta dalla fotografia chiama infatti ciascuno di noi alla responsabilità e all’azione…” Finché ci sarà anche solo una persona che muore di fame, saremo tutti responsabili di quello che qui o altrove papa Francesco e mille altri umani a cui lo star bene da soli suona come offesa, definiscono “un vero scandalo, un crimine che viola i diritti umani fondamentali, un’ingiustizia» che tutti hanno il dovere di estirpare attraverso azioni concrete, buone pratiche, e politiche locali e internazionali coraggiose”. A seguire, nel buio della notte, la pretesa di qualcuno di mettere la grande bellezza al centro dell’interesse comune. Ma davvero si sconfigge la paura, si rende dolce il potere, si allontanano i venti di guerra, si vince la pandemia facendo spazio alla bellezza?

Cinquantasette anni fa, rivolgendosi agli artisti, un papa che sognava e annunciava l’avvento di un nuovo umanesimo (si chiamava Paolo VI ed era figlio della terra bresciana) disse: “Questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che infonde gioia al cuore degli uomini, è quel frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione…”. Aveva ragione o era soltanto il tentativo di proporre a un mondo distratto un modello virtuoso a cui riferirsi? “L’uomo non è qualcosa di “bell’e fatto”: il “bell’e fatto” è incompatibile con l’amore e con la libertà” sosteneva l’abate Varillon. Però, secondo il poeta Baudelaire, “l’irregolarità, ossia l’imprevisto, la sorpresa, lo stupore sono una parte essenziale e la caratteristica della bellezza”.

E tutto ciò che incombe e offusca, come le guerre ad esempio? Teilhard de Chardin, durante la prima guerra mondiale, benché immerso nella tragedia, riuscì a scrivere alla cugina di avere “prima di tutto fiducia nella lenta opera di Dio. Noi siamo naturalmente impazienti di arrivare subito, in ogni nostra impresa, alla conclusione. Vorremmo bruciare le tappe. Siamo insofferenti di essere in cammino verso qualcosa di sconosciuto, di nuovo… Tuttavia non c’è progresso che si raggiunga senza passare per momenti di instabilità e di precarietà…”. Andando oltre l’instabilità e la precarietà, allora s’incontra la bellezza… E’ un auspicioo ma anche una segreta aspirazione.

Nel frattempo, restiamo sommersi dalle parole, sebbene le parole non valgono più nulla. Promesse, commenti, opinioni, accuse e sogni si rincorrono. E vanno a colorare una campagna elettoirale indigesta e mal sopportata in cui si dice una cosa e il suo contrario: tanto nessuno si ricorderà domani quello che è stato detto ieri. E’ l’opposto della bellezza di cui si argomentava qualche riga appena sopra. Un opposto in cui “tutti parlano, gridano, esagerano per richiamare l’attenzione”, dove volano “parole in libertà che non impegnano nessuno”, dove la parola data non tiene più insieme le persone e le cose che si dicono non implicano il rispetto della verità. Che cosa sono, per esempio, le fake news se non la traduzione digitale dell’uso cinico e strumentale delle parole? Se si lancia sui social una notizia falsa, caricandola di emotività e provocazione, il suo impatto comunicativo sarà comunque superiore alla rettifica che seguirà. Perché non provarci? Servirebbe come antidoto il saper dialogare. Ma essendo il dialogo un’arte rara, si moltiplicano i litigi che alimentano l’estenuante conflittualità tra chi si dovrebbe occupare del bene comune. “Viviamo in mezzo a un vero e proprio inquinamento comunicativo – ha scritto l’altro ieri Mauro Magatti -. Così, non sapendo più a chi credere, c’è chi cede alla tentazione di rintanarsi in nicchie chiuse dove si ascoltano solo quelli che la pensano allo stesso modo, mentre altri si fanno ammaliare da slogan che semplificano troppo o da parole cariche di odio e di violenza…”.

Dice il vocabolario che logos (parola) viene dal verbo greco legein – che significa raccogliere, rilegare. In italiano questa radice la ritroviamo in legare, rilegare, ma anche in religione. “E’ infatti attraverso la parola che – sostiene l’esperto – diventa possibile ricostruire un senso, stabilire e mantenere delle relazioni, decidere di percorrere una strada insieme agli altri, ricomporre una divergenza. Senza la parola diviene impossibile allearsi, promettere e persino intendersi”. Ma il vero problema è che la parola, per non essere vuota e così annichilire la realtà, esige disciplina, che nel tempo è diventata una virtù sconosciuta. Per riscoprire il valore della parola converrà allora cercare attimi di silenzio. Forse non sarà necessario istituire, alla maniera norvegese, un vagone del treno riservato alla “silent zone”, a una zona silenziosa… Però non sarebbe disdicevole chiedere, se non proprio il silenzio assoluto almeno l’abbassamento dei toni. Il che consentirebbe di incominciare ad ascoltare il silenzio.

Così, volentieri, ritorno al discorso sulla bellezza, sulla poesia necessaria a rendere migliore il vissuto quotidiano, fino ad accorgermi che silenzio e poesia sono parenti stretti. Forse perché è Ferragosto, o forse perché, al di là dell’ovvietà contenuta nella festa, ho (abbiamo) davvero bisogno di bellezza fatta di poesia e di silenzio…

Comunque e ovunque voi siate, buon Ferragosto.

LUCIANO COSTA

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