Il Domenicale

C’è chi si diverte e anche chi piange…

Proprio ieri, nel bel mezzo di pensieri ruotanti attorno al tempo che viviamo – infelice, felice, oscuro, chiaro, pandemico, vivo, vegeto, salutare, vacante, stanziale, resiliente o magari soltanto normale, normalissimo – mi ha spiazzato se non proprio sconvolto, la signorinella elegante e bella che interrogata mentre stava comodamente seduta all’aperto in attesa del suo aperitivo serale sul significato del termine “divertente” s’è lapidariamente limitata a rispondere che era “rimedio al deprimente dilagante” lasciando intendere che il suo divertirsi era direttamente legato alla possibilità di uscire da casa, di incontrare amici e magari, non si sa mai, abbracciare l’amore vestito da ragazzo disposto a sciogliersi al solo suo sguardo. Niente di nuovo, soprattutto considerando che la pubblicità (la tal cosa che arriva senza invito e senza chiedere permesso) è piena di gente che si diverte o finge di divertirsi. La differenza è minima: ci si diverte scoprendo che è divertente lasciare i mugugni fuori dalla porta e di sorrisi fare scorta, magari prenderne una sporta e regalarli a chi ha la luna storta; invece, si finge di divertirsi pur avendo di che intristirsi recitando a memoria ogni parte della storia anche la più insulsa e dalla realtà avulsa perché tutto sommato quel soldo guadagnato regala euforia e scaccia la pandemia.

La tiritera è forse divertente? Non lo so. Però divertente è una parola non solo molto frequentata, ma anche molto manipolata…  Significa rendere allegro il tempo che si ha a disposizione e cioè, per dirla col dizionario della lingua italiana, allietare, svagare rallegrare, distraendo da fatiche e preoccupazioni e donando il buon umore (immagino a chiunque si trovi nei paraggi). Unacosì ovattata e promettente atmosfera è il presupposto essenziale per divertire. Però, se si va oltre il dizionario e ci si immerge tra le parole importanti analizzate da Marco Balzano, si scopre che divertire deriva dal latino de-verto, dove il de sta per allontanamento e verto per girare. Dunque può significare: allontanarsi, volgersi altrove (con lo sguardo o i passi), ma anche convertire, cambiare (percorso, atteggiamento, stato sociale…). Per esempio, ovviamente se interessa, il termine divorzio, croce e delizia di tanti uomini e donne, ha la medesima derivazione. Ragion per cui, in ossequio all’infinita gamma di significati “è divertente colui che sa cambiare strada per imboccarne una nuova”. In verità, un politico che troppo spesso cambia strada, non è divertente. Come dicono gli esperti e gridano i suoi ex amici, egli è “un voltagabbana, un miserabile traditore, un venduto…”.

Secondo gli illuminati cultori del sapere, questa capacità di cambiare strada, di mutare gli equilibri e le proporzioni (il grande che diventa piccolo, ad esempio), sta però alla base dell’umorismo. Soprattutto perché, come ha sentenziato Schopenhauer nel suo divagare alla ricerca del meglio possibile, “a farci ridere è la discrepanza tra il concetto e la percezione effettiva delle cose”, fondamentale massima che tradotta, anche adesso che il filosofo è tra le nuvole da un pezzo, almeno a me dice che “quel tale è un genio della politica; peccato però che non ne imbrocchi una che è una”. Se avete altri modi utili a comprendere quel che il filosofo voleva dire, son qui per accogliere suggerimenti. Intanto, per dirla con Palazzeschi “il poeta si diverte, / pazzamente, / smisuratamente! / Non lo state a insolentire, / lasciatelo divertire / poveretto, / queste piccole corbellerie / sono il suo diletto”.

Questo vostro improvvisato, inutile e poveretto poeta, non si è invece per nulla divertito ascoltando quel “non luogo a procedere” con il quale il Giudice del Tribunale di Catania ha chiuso la vicenda consumatasi al largo di Ragusa quando il calendario segnava 25 luglio 2019. Se ho ben compreso, sulla base di questa sentenza non ci sono colpevoli. ma soltanto interpreti dell’allora concetto politico dominante. Insomma, quello ordito dall’allora Ministro dell’Interno (il leghista Matteo Salvini, per servirvi) fu semplicemente un atto politico, una sorta di difesa nei confronti di chi tentava illegalmente di invadere il suolo italico, qualcosa di assurdo reso concreto da chi delle leggi internazionali ne faceva un cartoccio pronto a finire in pattumiera. Così, non fu sequestro e nessuno abusò del suo ruolo. Semmai, fu un intoppo, un incidente di percorso ingigantito dai media e dalle opposizioni, un marchingegno giudiziario senza giudizio (nel senso di senza cervello) e senza motivazioni giuridiche, che tuttalpiù, dico io che sono uguale a nessuno, poteva includere una “riprovazione morale, ma non la condanna”.

Resta la storia. Che dice… Erano 131, centotrentuno disperati ammucchiati sull’imbarcazione della guardia costiera italiana che li aveva salvati dalle onde, centotrentuno persone che speravano giorni migliori, che sognavano un paese ospitale, che immaginavano manciate di vita e non badilate di paure. Erano già in acque chete, con tanto di etichetta di clandestini, però salvi perché la legge del mare, riconosciuta universalmente, stabilisce che chi è in difficoltà deve essere aiutato-soccorso-sottratto all’impeto delle onde, costi quel che costi; erano pronti ad entrare in quel limbo sconosciuto che si chiama attesa di sistemazione: dove non si sa, magari in nessun luogo conosciuto ma almeno reale. Poi arrivò l’ordine del ministro: quelli non devono sbarcare perché qui i clandestini, mentre ci sono io, non li vogliamo. Allora incominciarono giorni funesti per i clandestini stipati sulla nave e giorni irritanti per chi, in base alla legge del mare, invocava che fosse compiuto, o concluso se preferite, l’atto di salvataggio intrapreso e realizzato.

Dopo i giorni di segregazione coatta – “un sequestro in piena regola” secondo alcuni -, sulla base di compromessi arzigogolati e riempiti di boriosa rivendicazione del diritto di rifiutare i clandestini invasori del suolo italico, i centotrentuno furono sbarcati e poi collocati-smerciati-suddivisi in siti diversi. Quei giorni di attesa registrarono vivaci proteste – “sono persone, non rifiuti di cui sbarazzarsi; serve mettere in campo solidarietà e carità, serve bandire dal linguaggio civile parole che stabiliscono chiusure e divieti”, dissero in tanti – e videro accendersi fiaccolate invocanti pietà per quei miserabili clandestini, magari anche un posto che li accogliesse senza oneri per lo Stato, ovunque “ma non a casa del Papa, perché quella sarebbe una vera e propria provocazione”, disse uno dei duri che sotto la nave gridavano ai disperati “non c’è posto per voi”, proprio come duemila anni prima, quando per Maria e Giuseppe non c’era posto nelle locande di Betlemme. E i centotrentuno segregati-sequestrati-impediti-trattenuti e impossibilitati a mettere piede a terra? Clandestini erano e clandestini sono rimasti. E la fatica dei giudici inquirenti? Lavoro d’ufficio, oltretutto malfatto. E quelli che si spesero nel chiedere rispetto e solidarietà? Figli di un’utopia inapplicabile e fuori luogo. Fine della storia.

Ieri, leggendo un volumetto intitolato “Blessed are the refugees Beatitudes of immigrant children“, che raccoglie le vicende di bimbi in fuga dall’America Latina svelando le ipocrisie e mettendole in relazione col discorso della montagna (quello che racconta le Beatitudini), ho scoperto che Joe Biden, il presidente degli Stati Uniti d’America, quel discorso della montagna lo considera suo compagno di viaggio. E’ sua infatti la prefazione del volume. Poche righe essenziali per consentirgli di dire: “…ho scoperto di nuovo quanto sia importante il contatto personale così come l’impegno per costruire relazioni interpersonali, non solo per comprendere le persone ma anche per dare vita a politiche creative. Mentre altri hanno affermato che tutte le politiche sono locali, io sostengo da tempo il principio che tutte le politiche sono personali. Quanto più tu conosci qualcuno, tanto più grande diventa la possibilità di fidarsi. E con la fiducia noi posiamo raggiungere una comprensione maggiore, una cooperazione migliore e risultati più ampi nel campo della pace. Continuiamo a vivere in un mondo con un numero di rifugiati e profughi sempre più grande dal tempo della Seconda guerra mondiale. Siamo sfidati da questo fatto come Paesi, come politici chiamati a prendere decisioni, e cosa, più importante, come esseri umani. Abbiamo bisogno di voci che ci ricordano la nostra comune umanità – e gli obblighi che ne derivano, gli uni rispetto agli altri. Qualche volta questo può diventare disagevole perché spesso noi non siamo all’altezza”.

Consiglio la lettura a tutti quelli che non sapendo che pesci pigliare considerano la questione migranti che vengono dal mare qualcosa di cui disfarsi invece che qualcosa con cui misurarsi.

LUCIANO COSTA

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