Ogni volta che capita di essere chiamati a votare per rinnovare il Parlamento e così, magari, dare concretezza alla democrazia e un volto a chi questa democrazia dovrà affermarla e tradurla in azioni degne d’essere ricordate (l’appuntamento questa volta è tra due settimane, domenica 25 settembre, quando io e spero anche voi e tutti quelli che in testa mantengono un briciolo di sano cervello e nel cuore la giusta passione per il bene comune, andremo ai seggi e nell’urna deporremo, in maniera direttamente proporzionale ai personali umori, speranze-rabbie-certezze-dubbi-sogni-incanti-disincanti-idee-rifiuti-disponibilità e impegni, eventuali ma sempre auspicati), ogni volta ella riappare silente ed eloquente: è “la pazienza dell’arrostito”, che pur essendo il titolo di un libro viaggia alla ricerca di tante ovvietà e di qualche mistero accumulando pensieri senza però consentire ad almeno uno di calarsi completamente nel vissuto quotidiano, sbattendoti le pagine in faccia come se ciascuna fosse un gesto di offesa e non di liberazione. Così, “ancora una volta, e come fosse per la prima volta…” nel bel mezzo di una campagna elettorale banale e banalmente presentata come avvento di chissà quali novità, dalle mie parti è andata in onda la “perenne irrequietezza”, quella con cui Guido Ceronetti, nel citato libro, analizza la pazienza dichiarando di ritenerla sodale agli inquisitori che “ci arrostiscono con tacita misteriosa lentezza”, riconoscendole anche il merito d’essere interprete della “bizzarria del tempo”, ma anche colei che di fronte a formule, colori e promesse strampalate rendono uomini e donne increduli e dubitanti.
Però, ancora ieri, gli attori della nuova commedia elettorale (candidati diversamente collocati in liste di difficilissima comprensione, quindi incerti e tal quali a color che son sospesi), stavano tutti comodamente appollaiati su sedie scintillanti, vago stile rococò, ognuno con un carico di speranze e, almeno ai miei occhi, assai scarsa consapevolezza dei dispiaceri che il fato avrebbe loro riservato. Erano lì, appollaiati su un piedistallo di cristallo (come la fatal diva cantata da Fred Buscaglione) e aspettavano, con indefinita impazienza, che anche gli ultimi attimi di incertezza lasciassero il posto alla certezza di un voto che mettesse fine all’avventura o ne facesse incominciare una tutta nuova.
Credo siate d’accordo sul fatto che di elezioni, di alleanze pattuite-raggiunte-ingoiate o sposate, magari per convenienza, è stato detto tutto e ancor più. Se così è, adesso serve solo pazienza, una virtù che si conquista se l’animo è sereno, il cuore puro, la mente aperta e le mani pronte a stringere altre mani, che è un bel gesto, però anche lui non privo di incognite e patimenti. Sant’Agostino d’Ippona disse e scrisse che “solo Dio è paziente senza patire”. Voleva dire che noi mortali possiamo esserlo, ma soffrendo perché, ogni volta, per esercitare pazienza dovremo sacrificare l’io a favore di un bene coniugabile soltanto al plurale. Che questo esercizio sia un’autentica utopia lo dicono, tra mille altri, quel modo tutto politico e politicante di aggredire chi non la pensa come si vorrebbe la pensasse, quella pretesa di essere creduti sebbene palesemente in vena di sputarle grosse e senza senno, quel buttare tutto in promesse impossibili da mantenere e anche solo da sostenere, quella pretesa di essere ascoltati pur sapendo che al massimo dalla bocca usciranno solo banalità degne di affacciarsi a una delle tante finestre aperte sul nulla, le stesse, però non banali, di cui Emil Cioran scrisse e dipinse l’esistenza tra il 1943 e il 1945 e che adesso tornano in libreria col titolo “Finestra sul nulla”: eloquente insieme di aforismi fulminanti e anche disperanti.
Ieri però un politicante di grido ha chiesto di capire la fatica del candidato… Personalmente credo non vi sia niente da capire o, meglio, per dirla col Mauro Bonazzi, che “l’unica cosa da capire è che non c’è niente da capire, perché la realtà, priva di ordine e senso, è solo perdita…”. E’ anche, se posso azzardare, il limite della filosofia, che non arrossisce anche se afferma che “nessuno trova nelle idee quello che ha perduto nella vita”. Cercando idee sono ritornato al “sessantotto” della mia generazione di villici abitanti un paese della Bassa, più che di aule occupate, di slogan gridati al cielo, di cortei incazzati e di giovani donne felici di affermare “io sono mia” e guai a chi lo mette in dubbio, si alimentava di pane e salame condiviso, ma anche di parole (libertà, democrazia, pace, diritti, onestà, parità, giustizia e lavoro” erano le più gettonate) messe in circolo da chi nel gruppo aveva più dimestichezza con i libri e i giornali. Ho anche ricordato che un giorno, senza preavviso, uno venuto da fuori per condividere pane e salame e, soprattutto, per parlare delle “speranze dei giovani”, disse che a quel “sessantotto turbolento” mancava quel “discernimento” che da solo sarebbe stato in grado di trasformare la rabbia in azioni virtuose, cioè capaci di prendere il “gramo” e di trasformarlo in “qualcosa di buono”. Finita la lezione, l’esperto venuto dalla città, se ne andò per la sua strada e a noi restò il tempo di ragionare ad alta voce su quel che era stato detto e, soprattutto, su quella parola – “discernimento” – che suonava nuova e strana, almeno all’orecchio di molti.
Eravamo una squadra che lesinava sulle dispute intellettuali ma che facilmente si appassionava nella ricerca di significati da dare a parole, cose e quesiti appena ascoltati. Così, quella sera, la parola “discernimento” si trovò al centro dell’attenzione. Stabilito, grazie al dizionario in uso, che quella parole sanciva “la facoltà di formulare un giudizio o di scegliere un determinato comportamento, in conformità con le esigenze della situazione” e anche che era “la capacità di valutare e distinguere, di scegliere separando” restava il compito di collocarla intelligentemente dentro il vissuto quotidiano. Ognuno disse la sua e poi, insieme, decidemmo che il miglior uso del discernimento derivava dalla capacità di ridurre e dividere il tutto in piccole parti così da valutare in maniera completa e con grande cognizione quel che era meglio fare.
Il primo risultato di quella riflessione sul discernimento fu il declassamento del presepio, pensato nuovissimo e rivoluzionario (con il Bimbo che nasceva sotto una cupola di vetro posta al centro di un campo in cui si faceva la guerra – allora quella del Vietnam, che oggi sarebbe quella subita dall’Ucraina, non più parte di una “guerra mondiale a pezzetti”, ma di una “vera e propria guerra mondiale”) a presepio in cui alla parte nobile e tradizionale si sarebbe aggiunta qualche idea nuova e rivoluzionaria. Ovviamente, la storia non finì tra muschio e statuine. Più in là nel tempo, ci punse vaghezza di fare teatro, però nella maniera più consona a far recitare agricoli, manovali e rari studenti, vale a dire in lingua madre (il dialetto) e su concetti di facilissima digestione. Un tentativo mal riuscito fu la traduzione dialettale di “Aspettando Godot”, commedia bella e divertente ma impossibile da rappresentare se non fosse stata preceduta da lunghe spiegazioni sull’essere dei personaggi sognanti, che se ne stavano attorcigliati all’albero aspettando qualcuno che nessuno conosceva e la cui venuta era soltanto un’ipotesi.
Ma proprio facendo memoria di quegli anni, appena ieri, cioè dopo una notevole infarinata di parole e commenti fatti a proposito del nuovo che (forse) verrà, dopo aver letto quello che i sondaggi dicono essere ormai il partito preferito dagli italiani (il trenta per cento ha dichiarato di volerlo votare e di sentirsi degnamente rappresentato dalla sua capa), ho sentito l’urgenza di riscoprire il valore del “discernimento”, quello che serve “per riconoscere le tensioni e giudicare l’operato di qualcuno in situazione di crisi”, per far “discernere gli atti di amicizia dagli atti di interesse, e i sapori di frutta in un vino – o gli strumenti in un brano orchestrato”, così da riscoprire “una virtù di grande nobiltà…”.
Purtroppo, il “discernimento”, nell’era dell’accelerazione che ci contraddistingue, un’era in cui passato e futuro sono assoggettati alla tirannia del momento, “l’autentico discernimento – almeno secondo Papa Francesco, il che è tutt’altro che di poco conto – richiede di educarsi alla pazienza…”. Però, “occorre scegliere” (il discernimento è precisamente arte della scelta) ed è necessario individuare un soggetto del discernimento (è la persona e la sua libertà). In caso contrario “non si ha altro punto di riferimento se non le proprie opinioni”. E il risultato sarà inevitabilmente un comportamento autodistruttivo. A chiunque sia chiamato a votare converrà intendere che “discernere il tempo significa aprire un futuro, non condannarsi al passato” e che “apprendere l’arte del discernimento è imparare a sperare e ad avere fiducia…”.
Certo, oggi come ieri, la storiella raccontata suo tempo da don Giovanni, quella che diceva che “fare il politico è diventato un mestiere, uno di quelli che montano di più” è più che mai attuale. Per dimostrarlo basta sentire i discorsi di certi politici quando affermano, con una sicurezza degna di miglior causa, che il loro partito “ha le mani pulite” e che loro sono “giusti in tutto, caritatevoli fino all’impossibile, perfetti nelle attività…”. Per spiegare l’arcano don Giovanni traduceva il comizio del sindaco che aveva appena vinto le elezioni in questo modo: “Noi siamo gli unici innocenti, anche se abbiamo un peccato, il peccato originale, che però è l’unico peccato che non fa colpa”. Così ieri, e così oggi. Il tempo passa, ma non può venir meno la capacità di vedere e di ascoltare non per il gusto di perdere tempo, ma per capire e discernere ciò che davvero conta. Serve pazienza, tanta pazienza. Infatti, accettato che “la pazienza era considerata una virtù che dava tempo al tempo” e che oggi la stessa “sembra diventata l’inutile virtù di chi ha tempo da perdere”, senza l’uso della pazienza a quale inferno destineremmo la politica gridata e i politici-politicanti che della verità fanno volentieri stracci?
Converrà ricominciare da dove il tempo era dei saggi e mai dei villani. Ma, che cosa aveva di così straordinario quel tempo fatto di “valori vissuti e distribuiti”, intrisi di discernimento, ricchi di voglia di fare e di sperare cieli e terre degni d’essere abitati e condivisi? Forse la consapevolezza di essere tutti viandanti diretti alla stessa fonte, forse l’umiltà di appartenere a un’unica grande famiglia, forse la gentilezza che non concedeva spazi alle offese, o forse l’incoscienza, che consentiva di discernere e così guardare al futuro avendo certezza di consegnarlo a figli e nipoti migliore del passato.
C’è poco da stare allegri, lo so. Discernimento è infatti parola di non facile uso, quasi una virtù di cui vantarsi senza però esibirla. Invece, è proprio di “discernimento” che abbiamo bisogno se vogliamo andare a votare sapendo di contribuire al bene comune e non al bene di qualche avventuriero nostalgico… Secondo Hans Urs von Balthasar, che leggo faticando e soffrendo, “il nostro occhio è ridotto solo alla funzione quantitativa, allo sbriciolamento operato dalla divisione: siamo diventati analisti del mondo e anche dell’anima e non siamo più in grado di cogliere la totalità”. Come immaginare allora il futuro? E come costruirlo? Riscoprendo le categorie filosofiche della prudenza e della saggezza, mamme riconosciute del discernimento, “cercando e ricercando, in qualunque circostanza, ciò che è meglio e che dipende da noi”. E votare per il bene comune dipende solo da noi.
LUCIANO COSTA