La giornata surreale che sette giorni fa mi suggeriva di mettere nel domenicale divagazioni amare-aspre-crudeli-dolorose-moleste-spiacevoli-tristi e funeste (si stava col fiato sospeso mentre, con la guerra sul collo a dettar legge e preoccupazioni, che diamine!) s’è trasformata in una settimana che più surreale non poteva essere… Erano surreali i ventisette capi di stato europei che riuniti la ventisettesima o decima volta (poco importa la quantità quando basterebbe la qualità) cercavano di stabilire, oltre i soliti inghippi, come prestare soccorso ai disperati del mare (emigranti in cerca di futuro e non invasori di altrui patria), dove metterli (accoglierli sarebbe stato un verbo più appropriato, ma ventisette traduzioni non l’hanno neppure contemplato), come immaginarli e classificarli (turisti, fuggiaschi, richiedenti asilo, lazzaroni in libera uscita o persone, cioè umanità dolente?), come stabilire il costo di recupero e sosta (mille o centomila euro a cranio: in libera contrattazione o sulla base di parametri stabiliti da questo o quel algoritmo?), come considerare i morti (vite umane disperse dalla furia del mare o vittime di politiche sociali insipienti e odiose?), come fronteggiare l’esodo e gli esodi che si rinnoveranno (pagando gli Stati che impediscono le partenze, mettendo montagne di filo spinato lungo le spiagge e gli eventuali porti d’imbarco, alzando muri spessi e invalicabili, puntando cannoni e mitragliatrici contro chiunque s’avventuri per mare e terra in cerca di speranza?). Erano ventisette, ognuno coi suoi crucci e le sue ragioni, ma nessuno disposto ad alzarsi dallo scranno per dire “finiamola…”. Sì, finiamola di mettere egoismi dove servono generosità, di giocare a rimpiattino coi morti e gli affamati, di scaricare a dritta e a manca responsabilità che sono di tutti, di ragionare con la testa voltata dall’altra parte invece che fissa al problema… Preoccupiamoci invece, subito e adesso, di mettere umanità al posto degli incivili interessi di bottega e di bilancio. Capitooooo!
Non hanno capito, ovviamente. Però torneranno a riunirsi e riprenderanno le trattative. Nel frattempo, ha sentenziato il portator scortese degli umori popolari, “che Dio ce la mandi buona!”. Ma quale Dio, vivaddio, se a ogni voltata di pagina ne emerge uno a piacimento, fatto a misura del proprio tornaconto? “Per me – mi ha ribadito ieri suor Elisabetta, vecchia ma non tanto da impedirle di passare ore felici inginocchiata davanti al Santissimo – il Dio di tutti, il Dio che di tutti conosce pensieri, gioie e dolori, il Dio di tutte le consolazioni, il Dio degli afflitti quanto dei goduriosi, dei fedeli e dei simil-fedeli, di quelli che sperano o che disperano è solo Lui: morto in croce perché quella era la sua missione… Quindi, è a questo Dio che dobbiamo rivolgere lo sguardo ed è a lui che dobbiamo innalzare la preghiera…”. Ma dai, suor Elisabetta, come si fa a pregare quando intorno si muore per la guerra, per la fame, per la sete, per la malattia, per la distrazione, per la velocità, per l’umore alterato dalle droghe, per vendicarsi di una parola maldetta, per dare una lezione all’amata, per non dover sopportare l’invadenza, per vendicare l’amor perduto o tradito… “Si fa così – mi spiega l’amica suora -: pregando Dio, amico, pregandolo senza stancarsi, senza pretendere risposte immediate…”. Ancora Dio, ma questo o quell’altro o l’altro ancora? E poi, chi confermerà l’utilità o l’inutilità della preghiera a lui indirizzata? Chi dirà se quella preghiera era appropriata o solo leziosa?
Mia madre e poi mia zia e chi con loro si preoccupava del mio buon esistere, mi dicevano che pregare faceva bene alla salute oltre che all’anima. In età ragionevole pretesi che mi spiegassero quando la preghiera era buona per la salute e quando per l’anima. Mi risposero che avrei capito da solo… Da solo ho capito (ma dubito sia questo il senso più autentico del pregare) che pregare non significa congiungere le mani e neppure inginocchiarsi o sgranare la corona o cospargersi il capo di cenere o intonare canti e litanie, ma stabilire un contatto diretto con il tuo Dio, chiunque esso sia. Però, è proprio questo libero rivolgersi al “supremo e degno di ogni orazione”, che mi preoccupa e mi fa dire: sarò ascoltato, e perché io sarò ascoltato e non quell’altro che merita almeno quanto me?
Guardo con passione e rispetto a chi prega (come vuole, quando vuole, a chi vuole sono affari suoi), a chi innalza orazioni e preghiere o che preghiere e orazioni le sotterra e le maledice… C’è chi prega e chi impreca, chi invoca e chi provoca, chi crede e chi nega… Poi, ecco il fedele e l’infedele, chi china il capo e chiede misericordia e chi strapazza Dio e chiunque pretenda di assomigliargli. Più in là, c’è chi se ne frega del cielo e di chi il cielo lo crede abitato da santi e profeti… C’è chi prega mattino e sera, prima e dopo i pasti, cinque volte al giorno, in piedi o in ginocchio oppure seduto. E c’è chi non prega affatto, perché nessuno glielo ha insegnato, perché lo ritiene inutile, una perdita di tempo, un modo per camuffare la realtà…
Una singolare quanto coraggiosa scrittrice (Erminia Ardissino, autrice di “Poesia in forma di preghiera…”) dice che “nella preghiera troviamo i valori supremi di ogni civiltà, il senso dei limiti, la precarietà dell’esistenza umana, la necessità di considerare i confini della libertà individuale, l’invito alla comprensione degli uni verso gli altri, il rispetto dell’altro…”. Aggiunge anche che “poiché pregare significa prestare attenzione all’alterità, comporta anche dimenticare il proprio ego e desiderare di ascoltare quello che gli altri hanno da dire, e, soprattutto, conoscersi”. Se ho ben capito la preghiera è dunque “un’altissima esperienza esistenziale, che esattamente al pari della poesia, sua gemella, mette in contatto con un luogo ulteriore…”, indefinito ma reale, tutto da esplorare, in cui tutto diventa possibile…
Se non ci credete, chiedetelo ad Alda Merini, poetessa di strada e di borgata. Vi risponderà che “in queste cadenze fragili / che sono i nostri giorni meravigliosi / fatti di pochissime cose, / di piccoli conventi di sospiro, / questi giorni meravigliosi / dove io nego la presenza anche di Dio / per non sentirmi obbligata ad amarlo. / In questi giorni io vedo il sole / ovunque / ma non posso vedere lui / che è l’unico candore della mia vita. / E poi dietro lui / c’è un altro uomo / più grande, / più severo, / più possente, / un uomo che mi indica / la guarigione dell’anima. / Ma non credo che la mia anima sia malata / se riesce ancora a piangere, / a sorridere, / a varcare le soglie di questa casa. / Gesù, / sei certamente un poderoso mantello, / sei una spiaggia illimitata, / sei un prato che non ha mai agonie, / sei un fiore che si risveglia ogni mattino, / sei un canto, / sei il mio stesso sguardo. / Molti mi guardano negli occhi / e rimangono estatici / perché capiscono che io ti ho visto, / che ti ho sentito, / o che perlomeno qualche volta / ti ho anche tradito”.
Non ho titolo per assegnare questo o quel valore alla preghiera, ma posso impunemente dire che la religione del nostro tempo (ovviamente per comodità), non assomiglia per niente al senso religioso, fatto di preghiere e di orazioni, che accompagna la storia dell’umanità. Come è scritto nel sonetto che Gioacchino Belli (Giuseppe Francesco Antonio Maria Gioachino Raimondo Belli, poeta italiano, autore di 2279 Sonetti romaneschi, composti in vernacolo romanesco, in cui è raccolta la voce del popolo romano del XIX secolo) ha tramandato ai posteri per dire di quale religione si nutrisse il suo tempo, l’impressione è che “…tutta quanta oramai la religione / consiste in musiche da chiesa, genuflessione, / segni di croce, nastrini sul vestito, / cappelli in mano, cenere sul capo, / pesci da taglio, mortaretti e feste, processione, / bussolotti della questua, Madonne a ogni cantone, /cene con gli occhi sull’orologio, ozio della festa, / suono di campane, sbaciucchiamenti, / percosse al petto, palme, reliquie, scapolari benedetti, / corone, acquasantiere e candele.., / E intanto il Vangelo, caro fratello, / in un profluvio di smorfie e begli inchini, / è un libro da vendere a peso…”.
Intanto… i ventisette pensano, gli emigranti emigrano, i disperati invocano aiuto, i barconi affondano, i salvataggi vengono criticati, i respingimenti sembrano la medicina, il tutti a casa propria l’imperativo dominante, la guerra un fatto occasionale, gli arricchimenti dovuti a vendite di bombe e fucili la parte più congeniale all’economia generale… E il mondo resta a guardare.
Ma dai, davvero è così? Amici, “che Dio ce la mandi buona!”.
LUCIANO COSTA