Cittadino esemplare è colui che…

Nel giorno sabatino precedente quello domenicale, due notizie, una bella e una brutta, hanno avuto padronanza assoluta. La bella diceva: il Cavaliere, signore di Arcore e primo corista dei forzisti italici si è ritirato dalla corsa al Colle. La brutta sottolineava: lo stesso signore di una riga fa si è ritirato dalla corsa al Colle. Ma dai, due notizie uguali per dire che una è buona e una è cattiva? Vero. Ma nella prima, quella bella, c’è il respiro di sollievo tirato da coloro che nel Presidente della Repubblica vedono l’essenza del cittadino esemplare “d’ogni altro ricchissimo (di virtù, immagino) che si sapesse in Italia”, almeno così diceva il Boccaccio, e per tale sua condizione soggetto a particolari doveri e titolare di determinati diritti. Nella seconda, quella brutta, c’è invece il rammarico di non poter assistere, magari soltanto per una volta, alla sconfitta sul campo dell’autoproclamatosi candidato al Colle col titolo (segreto) di invictus, invincibile.

Lo confesso: nonostante il mestiere lo imponesse, non ho mai cercato risposte appropriate alla smisurata voglia di potere politico incarnata dal Cavaliere di Arcore, soprattutto perché non le consideravo possibili e neppure plausibili. Insomma, per dirla alla maniera del vecchio Paol Cuntra, non era di quelli con cui avrei volentieri bevuto un calice e mangiato pane e salame. Di lui conoscevo le premesse che lo dicevano “venditore di mattoni e di sogni immobiliari”, scoprivo i tentacoli amicali che lo legavano ai potenti politici milanesi di allora, misuravo il fiuto ribaldo con cui s’avvicinava, primo della serie, all’etere televisivo bel e pronto per diventare libero e, soprattutto, suo. Tanto suo che ancor prima di leggi e leggine fatte per stabilire il divario tra il permesso e il vietato, lui già aveva provveduto a far man bassa di frequenze uguali disseminate sulle province italiane, unico mezzo per diffondere i suoi segnali televisivi su scala nazionale, osservando il divieto di andare in diretta, divieto per altro aggirato attuando una diretta indiretta, cioè ritardata di qualche minuto rispetto al reale avvicendarsi di fatti e notizie. “E’ astuto quel milanse”, si diceva a Brescia, dove pur io respiravo aria televisiva, seppur minimale e sempre avventurosa se non proprio precaria. Per il cosiddetto ex mattonaro agivano in loco e fuori loco tanti emissari, tutti autorizzati a comprare, soldi alla mano, frequenze e contatti, utili a costruire quella rete che in una notte oscura e tormentata (quella in cui l’allora Capo del Governo, detto Bettino Ago della Bilancia, firmò il decreto impedendo che i ripetitori già attivi fossero spenti poiché privi di permessi e giustificazioni legislative e spingendo così alcuni ministri, tra questi il bresciano Mino Martinazzoli, a uscire, sbattendo la porta, da quel Governo “malconcio e succube”) divenne l’alter ego dell’esistente, quello targato Mamma Rai, grazie alla subitanea assegnazione, a lui piuttosto che ad altri, non di una, ma di tre frequenze agibili e fruibili immediatamente su scala nazionale. Tutto il resto – scalata alla politica, discesa in campo, salita del predellino, discesa a Roma con seguito e pecunia in abbondanza, vittoria elettorale, conquista del Governo, uscita dal Governo per mano di un popolo ulivista guidato dal prode Mortadella da Bologna e tanto altro, compresi ribaltamenti, chiamate in giudizio, esibizioni, sfoggio di bellone e di politicanti in cerca di protezione, rivendicazioni di primato e di fondazione dell’Italia fatta a sua immagine e somiglianza, pretesa recente, recentissima,  di salire al Colle più importante – è storia di adesso e perciò, si spera, anche conosciuta.

Adesso conta soltanto il “nuovo che verrà”. Nell’attesa, penso che siamo, più o meno, tutti cittadini, altrettanto più o meno esemplari. Tra di noi vi è poi uno più in alto di noi: il Presidente della Repubblica, riconosciuto a ragione Primo cittadino d’Italia. Primo cittadino è anche il sindaco di una città o di un paese qualsiasi, ovviamente se almeno non sia di quelli che per contrapposizione polemica si definisce cittadino del mondo, con ciò rifiutando, perché troppo angusta, l’appartenenza a una determinata nazione. In questo caso, sentendosi costui membro di una comunità molto più ampia o addirittura divina, si definirà cittadino del cielo riconoscendo nel cielo la propria patria e rifiutando, di contro, d’appartenere alla normalità quotidiana in cui si svolge l’umana avventura. In altri remoti tempi, uno così era al massimo considerato intermedio fra i nobili e il popolo, uno che tutti “sapevan che era cittadino e non signore”.

Facendo ieri gomitolo di notizie riguardanti l’elezione del nuovo Capo dello Stato, della sua fisionomia, della sua storia, dei suoi meriti, della sua necessaria superiore forza morale e politica, mi sono trovato a meditare sul significato di cittadino e sul perché un cittadino qualunque, sebbene non qualunque e neppure lontanamente somigliante a quel “bimbominkia” (si noti la “k”, residuo d’un tempo andato in cui quella lettera, che l’alfabeto nostro non contempla se non in casi estremi, era diventata metodo per definire e dileggiare chi non stava dalla parte sinistra del corso della storia) di cui l’allora giovane aspirante segretario di un futuro partito abitato da democristi-comunisti-cattocomunisti-socialisti-mentalisti-laburisti e liberisti dimentichi di vecchie e professate ideologie (oggi invecchiato segretario di un vetusto e stantio Pd), fece uso per giustificare, guarda il caso, una storpiatura lessicale arditamente messa in circolo.

Meditavo, senza però trovare sbocchi accettabili.

Poi, m’è capitato di leggere la stagionata ma sempre attuale Natalia Aspesi, che impegnata a rispondere a una lettera firmata da settantacinque donne arrabbiate e disgustate per la protervia del cavaliere che voleva imporsi al Colle, scriveva di sperare “si trattasse soltanto di un’allucinazione” resa ancora più cogente “dall’indignazione per un simile lutto…” causato, se i numeri gli avessero dato ragione, “non pensando al Paese e alla gente, non alla dignità dell’Italia, non alle reazione dell’Europa e del mondo”, che quel personaggio l’hanno sempre considerato “un’anomalia, uno scherzo, un politico arrogante che è certo di poter comprare tutti con la sua oltraggiosa e ambigua ricchezza (si dice che disponga di un patrimonio di svariati miliardi di dollari sonanti/ndr). E lo sta facendo – aggiungeva la Aspesi – senza che qualcuno lo trovi disdicevole”. Almeno fino a ieri, data storica della sua rinuncia alla corsa al Colle, nel frattempo diventato troppo faticoso da scalare.

Letta la Aspesi, avrei voluto sorridere se non proprio ridere, ma temendo che il come si ride potesse essere il modo per dirmi e dirci chi realmente sono e siamo ho sorvolato, vilmente preferendo quel “parlo bene alle spalle, in modo che non si sappia” tanto caro ai pettegolai mediatici. Però, ugualmente mi sento “neutro”, immerso in un Desiderio di Neutro, che per Roland Barthes (saggista, critico letterario, linguista e semiologo francese, fra i maggiori esponenti della nuova critica francese di orientamento strutturalista) significa “farla finita con l’esitazione tra saggio e romanzo, con l’accumulo di frammenti e così tentare una nuova scrittura, una nuova vita”. Ma, come dice il filosofo Bonazzi “se neutro, per Shakespeare, è il tacere e per Kierkegaard il semplice, in Roland Barthes il medesimo è un’attività ardente, scottante, poiché si configura come una via terza tra due poli, una nuova scrittura, una salvezza”. D’altronde, di questo parlavano anche Leonardo e Omero nel tentativo di “fare chiarezza nelle nostre oscurità”.

Quindi, amici, è ancora lunga la strada da percorrere prima di capire cosa si nasconde davvero dentro noi stessi, prima di scoprire fin dove arriva l’ambizione di qualcuno a cui più il danaro che l’intelletto ha fatto da supporto, prima di vedere la luce in fondo al tunnel, prima anche di essere di nuovo abbagliati da chi, astutamente, porta doni, ovviamente di peso, dimenticando il vecchio ma sempre saggio adagio che ammonendo dice “timeo Danaos et dona ferentes” (temo i Greci anche quando portano doni). E allora, buoni e cattivi lettori di un Domenicale strampalato, ditemi: voi in quali ruoli vi ritenete primattori?

Fuori dal gioco e in maniera molto personale ritengo primattore di vaglia un certo Domenico Carrara, poeta avellinese con una laurea in tasca, trasferitosi a Berzo Inferiore, provincia di Brescia, per fare il bidello pur sognando di fare l’insegnante, morto a soli 34 anni durante una passeggiata sulle montagne di Valcamonica, che non ho conosciuto e del quale neppure mai mi capitò di leggere quel che invece scriveva e rendeva pubblico. Peccato, davvero. Però, ieri, ho supplito alla mancanza godendo una sua lirica senza apparente titolo, ma adatta ai titoli che adesso si van sparando attorno alla salita del Colle. Dice: “Vorrei avere gli occhi / di tutti gli schiacciati, / dei cacciati dagli altri, / dei mai adeguati, / dei fraintesi e degli offesi, / dei privati di riposo / dei morti d’indifferenza / o d’arroganza o fretta. / Vorrei avere quegli occhi / sbarrati e un po’ randagi, / farne quasi una bandiera, / la speranza di un riscatto; / non in un mondo a venire / ma nei giorni che cammino, / quelli che scappano di mano, / quelli che appena sfioriamo”.

Poi, l’incauto-azzardato-improvvido-inaspettato incontro con i “quattro volti di Socrate”, astuto finissimo, satiro inquietante e salutare che “risveglia nella mente, in modo ironico e scherzoso, le domande più scomode e innovative”. Così, ecco apparire il Buffone, che recita Aristofane, il Cittadino esemplare, che è sì caro a Senofonte, il Maestro per eccellenza, che è l’alter ego del filosofo Platone, il Proteiforme, che secondo innumerevoli altre interpretazioni lo rende più che antitetico solo complementare. In ogni caso, quattro volti non fanno un volto definito, semmai lo suddividono così che ogni altro umano possa rispecchiarsi in esso. E poi, diceva l’esperto, “la riduzione a quattro volti ha solo valore simbolico: quattro come i quattro punti cardinali, i primi tre come propri delle tre maggiori fonti dirette e il quarto per tutte le altre fonti e interpretazioni possibili. Il risultato – aggiungeva il critico – “non è la sospensione del giudizio, ma l’invito a lasciarsi provocare per migliorare noi stessi”.

Considero il vecchio-vecchissimo Socrate un Innovatore. Ieri ho provato a chiedergli, via etere, se e come vi sia qualcuno che gli assomiglia. Ovviamente, non mi ha risposto. Allora la stessa domanda l’ho posta a me stesso ottenendo, non ci crederete, questa risposta: nessuno, tanto meno quel Cavaliere vetusto che ieri ha fatto un passo indietro, ma che per trenta più trenta e altri trenta giorni è andato predicando che semmai non ce l’avesse fatta a salire il Colle, più di uno sarebbe stato costretto a cantare quel “giro, giro tondo, casca il mondo, casca la terra, tutti giù per terra”.

Qualche anno fa, commentando quindici sogni “d’ansia e paura” disegnati e spiegati da Fausto Fasser (bresciano non medico, non leguleio, ma progettista, costruttore, quindi ingegnere, andato avanti anzitempo), Cesare Trebeschi (non giornalista, non politico, ma impolitico coraggioso al servizio della città dell’uomo, formatore, quindi maestro di vita, anche lui andato appena un anno e mezzo fa felicemente ad occupare il posto riservatogli dal suo buon Dio) scrisse di considerarli degna parte di quel “I’ve a dream”, ho un sogno, con cui Martin Luther King aveva illuminato l’America, di ritenerli impregnati dal “sapore di un avverarsi che accredita i sogni anche più strani con tacito ma imperioso invito a discernerne il significato e a leggervi i cartelli segnaletici delle strade… strade da seguire o da evitare”, anche capaci di dare “cittadinanza non soltanto a quel sogno, ma al sognare in sé, al sognare che cambiare si può”. Pero, si chiedeva Cesare, questo “è soltanto il sommesso canto della carta nell’incontro con la matita, o la penna che titola e numera i sogni vuol dire qualcosa?”. Vale a dire: sono davvero sogni o trascrizioni di incubi?

Umberto Eco, cittadino che in questi giorni, sempre se avesse avuto ventura di resistere, avrebbe compiuto cent’anni, ha lasciato scritto: “Non ci interessano i fatti, ma le parole”. E le parole che pronuncerà il nuovo Presidente della Repubblica, credetemi, sono quelle che attendo e che mi interessano.

LUCIANO COSTA

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