Di corsa verso il baratro: ecco ciò che noi, stupidi umani, stiamo facendo. Non ci bastavano una-dieci-venti guerre (tante sono quelle conosciute in corso nel mondo) così, eccone una nuova, che però è vecchia incancrenita subdola stupida come stupide sono le dispute sulla prevalenza di questo o quel “dio” su luoghi e terre che sono e devono restare di tutti, che in un mattino ha oscurato i cieli e incendiato quella che per tanti ancora si chiama “TerraSanta”: palestinesi contro israeliani, i primi poveri (come solo i senza terra possono esserlo) e perciò bisognosi di aiuti umanitari continui e consistenti per poter sopravvivere; i secondi ricchi-evoluti, all’avanguardia nella tecnica e nella scienza, in possesso di strumenti militari – di difesa e di offesa – che pochi altri possono vantare, addestrati a parare i colpi e a restituirne in misura dieci volte superiore, costretti difendersi per sopravvivere. Come a dire, sebbene sembri assurdo e improponibile, la pulce contro il rinoceronte. Però, questa volta, la pulce ha sfoderato un potenziale di guerra di cui nessuno l’accreditava. Così, incominciando lei per prima l’offensiva, ha riversato su Israelenon qualche povera e maldestra schioppettata, ma cinquemila(avete letto bene: cinquemila o forse più) razzi armati, destinati a far male. “Ma come – ha tuonato stamani all’alba la Gina – come fanno questi poveri e malconci palestinesi a possedere razzi (cinquemila o forse più sparati in poche ore contro Israele) che costano un occhio della testa? Chi e perché li ha forniti? Chi li ha pagati? Chi li ha regalati?”. Alla Gina che mi interpellava brandendo la classica scopa, ho risposto “non lo so”. E in quel “non lo so” racchiudevo amarezza-stupore-delusione e timoriimposti dal dover prendere atto che di nuovo la “Ragione” veniva sconfitta dall’odio e che, di nuovo, la guerra bruciava tutti ipensieri di pace, concordia, unità e solidarietà faticosamente costruiti. Così, di nuovo, eccoci di corsa verso il baratro… Per andare incontro alla pace, invece, seppure a parole si vada di corsa, siamo perennemente in ritardo. “Paradossalmente – ha scritto un esperto di sociologia –, abbiamo strumenti tecnologici sempre più potenti, che accorciano esponenzialmente i tempi per risolvere i nostri problemi, eppure la sensazione è di ritrovarsi sempre a rincorrere, di essere inevitabilmente un passo indietro rispetto al programma che ci eravamo prefissati”, magari proprio quello che dice come la pace venga prima di ogni altra incombenza. Se sia colpa della “liquefazione del tempo”, di cui ha disquisito e su cui ha intrattenuto a lungo Zygmunt Bauman (un pensatore polacco capace di influenzare masse considerevoli di umani) non lo so. Però, dopo le parole pronunciate ieri dal Papa all’apertura del Sinodo, parole invocanti l’esigenza, per la Chiesae magari, aggiungo io, anche per il mondo intero, di rallentare un momento, di fare «una pausa» e mettersi «in ascolto» per «indurre chiunque, anche il più disperato, alla ricerca della felicità, che poi “è ciò che abbiamo in testa la maggior parte del tempo che ci è concesso di vivere”.
Fare una pausa: ma come si fa se appena ti fermi c’è subito uno che ti sorpassa, che ti irride, che gioisce del tuo momentaneo tentennamento, che per lui equivale a un lasciapassare verso affari nuovi e non sperati? Stephen Bertman, accreditato di sapere e buon senso, dice che la pausa è “antidoto alla tirannia dell’effimero, rimedio alla cultura della fretta che di fatto impedisce di osservare il mondo e perfino di guardare noi stessi”. Non so dove ho letto che “perdere tempo per stare con gli altri è il più grande guadagno che il tempo stesso ci può offrire”. Ma, sarà vero?
Secondo Jorge Luis Borges, scrittore oltre che fantastico sognatore di paesi abitati da gente disposta a condividere piuttosto che a dividere, “il mondo è ben più vasto, articolato e sorprendente di quanto siamo abituati a credere: basta sollevare appena il leggero strato di conoscenze umane che abbiamo steso a ricoprirlo per non essere abbagliati dalla sua magnificenza, per trovare grandezze, e miserie, insospettabili, tenerezze e ruvidità che risvegliano sogni, ambizioni, propositi, affetti e rimpianti… Tutti celati nelle pieghe di una realtà che l’uomo a volte tende a conoscere, e possedere, con violenza, divenendo incapace di soffermarsi a osservare… (Lui dice: gli animali «disegnati con un pennello finissimo di pelo di cammello», ma credo volesse comprendere panorami ben più vasti, popolati da persone sognanti felicità e, appunto per questo, anche loro disegnate “con un pennello finissimo di pelo di cammello”.
Ho letto e sentito quel che “procaci produttori di parole vacue e fuorvianti” hanno messo in vista e collocato a riparo della loro supremazia e sono arrivato a concludere che parlano senza pensare e senza pesare quel che il loro dire può provocare. Da qui, da questo modo di pensare, derivano quei cinquemila euro chiesti dal Governo come caparra per evitare di sostare nei centri di raccolta e bocciati per primo dal Tribunale di Catania… Follia o becero infischiarsi di chi fuggendo da fame violenze soprusi e guerre ha immaginato cieli e terre nuovi da condividere? L’ultimo folle Bergonzoni, filosofo a suo modo, dice: “Accendete un c’ero anche se ci siete ancora, e una candela sott’acqua per rendere illuminati gli affogati”. Magari domani ci provo. Che dite, sono pazzo o sono sul punto di esserlo?
In ogni caso, ciò che importa, adesso, è per me capire se l’affermazione «la luce di ciò che è pubblico oscura tutto il resto», che sovrintende o dovrebbe sovrintendere le azioni di chi politicamente sta in alto, sia applicabile dentro i Tribunali e capace di mettere a tacere politicanti rozzi, per di più ignoranti, che dicono senza sapere ciò che dicono e pensano senza aver pensato e fanno senza preoccuparsi che il loro fare faccia male e non bene… Certo, come dicono quelli del piano alto (di pertinenza del Governo in carica), i nostri sono tempi bui, truci e inaspettati, che dunque esigono schiaffi e non carezze. In verità, i tempi bui non solo non sono nuovi, ma, anzi, non sono nemmeno eccezionali nella storia. Ci sono stati, ci sono e ci saranno. Ma anche se fosse, anche se fossimo immersi nei tempi più bui, noi possiamo avere il diritto di raggiungere una qualche luce…. E che essa derivi meno dalle teorie o dai concetti e più da quella fiamma incerta, vacillante e spesso flebile che uomini e donne, nella loro vita e nella loro opera, riescono a far brillare, in qualsiasi circostanza, e a diffondere nello spazio e nel tempo a loro concesso su questa terra, poco importa se riesce a squarciare l’oscurità. Occhi così abituati al buio, come sono i nostri, faticheranno a distinguere se la loro luce fu quella di una candela o di un sole ardente, ma incominceranno a vedere…
Dal rovistio di appunti tagli e ritagli è uscito, intonso e sempre attuale, quello firmato, chissà quando e perché, da un prete di montagna (quel don Giovanni Antonioli tanto saggio da essere amato dagli umili e temuto dai potenti), che mette a confronto due piccole poesie, scritte alla distanza di cento anni: una dell’Ottocento, l’altra del Novecento. La prima è “L’infinito” di Giacomo Leopardi, poesia breve, ma piena di tanta ansia e di tanta melanconia, con cui il poeta ci presenta un colle solitario e una siepe che lo difende. Sedendo, dietro la siepe, egli pascola il suo sogno d’infinito e ciò che per molti è ostacolo a vedere, per lui diventa strumento di visione. La ricordate questa poesia? Se no, ve la ripropongo. Dice: Ma sedendo e mirando, interminati / spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi e profondissima quiete / io nel pensier mi fingo… / E il naufragar m’è dolce in questo mare. “I poeti, dicevano i nostri vecchi, sono le uniche sirene che non muoiono di sete. E infatti, se li chiudi in una prigione oscura, loro tengono il sole in tasca. Se li leghi mani e piedi, viene a liberarli il vento della fantasia. Se li costringi a guardare la terra, faranno nascere le stelle al posto delle margherite. E il Leopardi lo dimostra perché riesce a vedere l’infinito, in un angoletto di colle, dove le lucertole si nascondono”.
La seconda poesia è di Bertold Brecht (lo stesso che nel precedente domenicale, con una poesia scritta quando aveva raggiunto maturità e qualche notorietà, aveva spiegato l’essenza dell’essere, con ciò suscitando il rimprovero di chi, invece, nell’autore vedeva soltanto il vecchio e reazionario portatore di idee social–comuniste) e la troviamo nel lavoro teatrale (scritto quando aveva solo diciotto anni e pubblicato quando ne aveva ventitré) che ha per protagonista il poeta Baal, tanto ardito (o stupido) da cantare e perciò ammettere che “il luogo più caro della terra per lui / non è l’aiuola sulla tomba dei suoi / non il confessionale, non un letto di bagascia / e non un grembomorbido, bianco, caldo e grasso” ma, come “Orge mi disse: il luogo più diletto / per lui sopra la terra fu sempre il gabinetto”. Il confronto non ha bisogno di commenti, perché già mette in evidenza i contrasti. Da parte del vecchio poeta ogni pertugio apre orizzonti immensi, mentre nel poeta moderno c’è tanta paura dell’infinito che si piega più in basso possibile, per non incontrarlo. Il vecchio poeta sembra un usignolo, che continua a lanciarsi contro la piccola fessura che gli porta l’unico raggio di luce. Invece, il poeta moderno s’è informato delle stelle, del sole e di tutte le fonti luminose per essere in grado di spegnerle tutte, in modo che non disturbassero il suo sonno. Occorre molto coraggio per sopportare l’infinito e la stessa immensità dello spazio fa tremare molti scienziati. Forse per questo il poeta moderno si è scelto il luogo che ha l’orizzonte più chiuso e la méta determinata dalla forza di gravità che porta al basso”.
Chi sia l’usignolo e chi lo spegnitore e devastatore di stelle,decidetelo voi, magari dopo aver osservato il panorama che, comunque, non smette di essere popolato di imbecillità e anche di stupidità, che è poi il riflesso spiaccicato della prima. Per addentrarsi in riflessioni di sicuro urticanti, sarà opportuno ricordare che “la storia ha conosciuto molti periodi di tempi bui, in cui lo spazio pubblico si è oscurato e dove il mondo è divenuto così incerto da indurre le persone a chiedere alla politica la sola garanzia di poter mantenere i propri interessi vitali e la propria libertà privata”. Periodi in cui lo spazio pubblico – il mio il tuo il suo il nostro il vostro il loro, di tutti e per tutti – veniva (ma succede anche adesso, purtroppo) offuscato dal “chiacchiericcio”, disturbato da un uso strumentale della parola che dissimula la realtà rendendo impossibile abitare uno spazio che, al tempo stesso, separa e unisce gli uomini rendendo possibile il loro agire e vivere insieme.
Però, c’è ancora un miracolo che si ripete e si rinnova. E’ quello che anche nei periodi più oscuri (dei quali gli umani non si avvedono a causa dell’uso mellifluo e sviante delle parole, che non raccontano più il mondo ma lo occultano) regala scintille luminose che lasciano aperto uno spiraglio, una flebile luminosità che permette allo spazio pubblico di far luce sulle questioni umane, di dar nuovamente voce a quel mondo che è molto più della somma degli individui e singoli che lo abitano. Un mondo in cui noi si possa vivere insieme e in pace. E’ possibile? Io credo possibile. E voi?
LUCIANO COSTA