Fatti, riflessioni, persone, tanto di bello/buono e anche gramo/cattivo di sette giorni passati tra ondate di caldo, ricerca di frescura, maledetta pandemia e benedetta speranza di uscirne senza pagare altro fio al perverso virus. Provo a riassumerli questi giorni anticamera del mio e (spero) anche vostro Domenicale. Vado a ritroso, come i gamberi, e mi imbatto non in un articolo di fondo e neppure in un saggio, bensì in una vignetta satirica, firmata ieri da Bucchi su Repubblica, per dire che “la politica oggi è un cristallo in un negozio di elefanti”, un’iperbole che è, allo stesso tempo, perfetta sintesi di ciò che sta avvenendo a Roma e tragica ammissione di un fare rumoroso ma vacuo, vuoto, senza acume e perciò privato di quel minimo buonsenso che se usato farebbe la differenza.
Poi, ecco quattro righe disordinate, ma sempre godibili (del mio sodale sognatore Bergonzoni) scritte per lasciare al suo destino il senso del blu, spiegare come l’uomo prima di essere persona fosse una possibilità e chiudere definendo beati coloro che non coloro perché già variopinti, quindi disponibili a non sottilizzare sul colore dell’altrui pelle. Appena dopo, leggo un corsivo scritto in punta di penna per mettere in evidenza la stupidità di quel cretino (uno dei tanti che pur non leggendo e neppure pensando si crede autorizzato a emettere sentenze e giudizi privi di capo e anche di coda) che uscito indenne da un vortice ne cerca subito un altro in cui tuffarsi e così continuare a dolersi.
Ancora prima, la storiella, vera, della ragazza (Malika, incompresa, messa alla porta da genitori a loro volta arrabbiati e incapaci di essere quel che dovevano essere, diventata icona a cui destinare pensieri che la sollevassero dallo smarrimento causato dalla sua scelta di dichiararsi diversa) che si è ritrovata al centro di una gara di generosità che le ha messo in tasca un bel mucchio di euro, utili a risollevarla dalla improvvisa assenza di un punto di riferimento, forse anche per pianificare intelligentemente il suo per molti versi precario futuro, ma invece usati per dotarsi di una super automobile, di un cane di lusso e di molte altre costose raffinatezze.
Più in là, anche la recensione di un libro dedicato a monsignor Helder Camara, vescovo brasiliano, voce dei disperati, amico dei poveri ma considerato dai potenti un “nemico da emarginare, vigilare e perseguitare”, scritto dal bresciano Anselmo Palini “per impedire che gli anni, ormai cinquanta dalla sua morte, cancellino ricordi e memoria”. Tra le righe, anche quelle dedicate all’intelligenza artificiale, un piccolo grande e misterioso mostro che tutto sa, tutto sfida e che tutto risolve sostituendosi, senza neppure averne licenza, all’essere e al divenire degli umani.
A far da spalla, in un contesto di voci diverse, ho allora risentito esplodere la solita domanda – “Chi siamo noi?” – alla quale non seguiva risposta ma soltanto la constatazione che “oggi in Occidente e non solo sembra dominante l’idea che noi esistiamo e possiamo esistere perché non siamo gli altri”, perché“l’identità può esprimersi nella rigida chiusura verso lo straniero, o nella sua sottomissione, come pure nell’apertura e nell’accoglienza. Nello smarrimento mi ha soccorso il ricordo di Edgar Morin (pseudonimo di Edgar Nahoun, filosofo e sociologo francese con chiara discendenza ebrea), pronto a celebrare proprio oggi i suoi cent’anni mettendo di nuovo in bella vista quel “c’è meno disordine nella natura che nell’umanità” che mi indusse, tanto tempo fa, a considerare il filosofo non un astratto vocalist a cui tendere orecchio in caso di necessità ma un solido cantore di umanesimo a cui appoggiarsi per ritrovare briciole di equilibrio, sempre utili per impreziosire pensieri e azioni. Celebrando il compleanno del filosofo il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato, a nome di papa Francesco, ha scritto per dire che Morin “è stato ed è tuttora un testimone privilegiato dei profondi e rapidi cambiamenti che il nostro mondo e le nostre società hanno subito e stanno ancora subendo…coscienza di un destino comune, promotore di un processo di civilizzazione volto a mettere al centro l’uomo e non il potere del denaro”. Morin, profeta inascoltato, testimone scomodo di un tempo dedito alla globalizzazione ma assai meno a renderla fruibile a tutti. “Ciò che manca – scrisse allora il filosofo – perché si compia una comunità umana è la la coscienza che siamo figli e cittadini della Terra-Patria, che però non riusciamo ancora a riconoscerla come casa comune dell’umanità”. Rispondendo alle domande di Mauro Ceruti, Edgar ha raccontato “i suoi cent’anni da eterno curioso” raccomandando di “mai anestetizzare l’incertezza” fidando piuttosto nello “stupore che disintossica la mente”. Definendosi, sapientemente e allegramente, “un essere umano”, prevenendo così auguri e felicitazioni, ha scritto in un tweet “evitate di essere centenari, passate direttamente a 101 anni”. A proposito di discriminazione ed emarginazione (ovviamente neppur immaginando che altrove esistesse quella Malika di cui sopra) ha detto al suo intervistatore che “quando sono in gioco la verità dei fatti e l’onore, bisogna saper accettare la solitudine e la devianza; oggi più che mai, poiché si diffonde al parossismo l’attitudine a degradare l’altro nella maniera più vile mentre dovremmo invece cercare un vaccino contro la rabbia specificamente umana…”. Quanto alla storia accumulata e messa nella personale bisaccia, un solenne ammonimento: “Dobbiamo attenderci l’inatteso, anche se non possiamo prevederlo; infatti, ogni vita è una navigazione in un oceano di incertezza, con alcune isole di certezza; ed è imprevedibile tutto ciò che ci attende: amori, dolori, malattie, scelte, morte; e guai cedere alla tentazione di anestetizzare l’incertezza e l’imprevedibilità”, perché tutt’al più “siamo homo sapiens/demens” perché la “ragione fredda del calcolo è inumana, non può prevedere la complessità delle nostre vite, fatte di felicità e infelicità, di sogno e desiderio…” tenendo comunque in debito conto che “la ragione deve vegliare sulla passione, sebbene la passione sia il combustibile della ragione”. Questione di buona coscienza personale e collettiva? Forse. Ma purtroppo “questa coscienza non si sta diffondendo fra i cittadini, e non è presente nella maggior parte dei politici, degli economisti, dei tecnocrati… Però, ci sono coscienze (buone) e movimenti (buoni) dispersi, ma non ci sono forze coerenti dotate di una cultura adeguata…”. Infine, la ricetta del buon invecchiare. Semplicemente questa: “Mantenere in sé la curiosità dell’infanzia, le aspirazioni dell’adolescenza, la responsabilità dell’adulto e nell’invecchiare cercare di trarre l’esperienza delle età precedenti, restando capaci di stupirci e di interrogarci su ciò che sembra normale ed evidente, per disintossicare la mente e sviluppare spirito critico”. Ecco, dovremmo urgentemente mettere il pensiero di Edgar Morin al centro dell’attenzione. Così, tanto per obbligare i politici a essere seriamente preoccupati del bene comune, i sognatori a mettere i colori al loro naturale posto, i saggi a collocare i cretini dove meritano di stare (nel loro nulla piuttosto che nel nostro poco), Malika tra coloro che cercano redenzione e rispetto senza però pretendere di essere comunque perdonati ed esaltati, monsignor Helder Camara nella beatitudine dei poveri ai quali è garantita la felicità eterna, l’intelligenza artificiale non sul pennone ma a far da fondamenta all’umanità che cerca buon futuro e l’interrogativo riferito “a chi siamo noi?” tra le priorità necessarie per continuare a sperare. Bernanrd-Henry Lévy, altro celebre e purtroppo inascoltato pensatore, a proposito di nuova barbarie digitale ha scritto che “si è creato un parlottio globale in cui nulla autorizza e gerarchizzare o a distinguere tra intelligenza e delirio, tra informazione e fake news, tra ricerca della verità e passione dell’ignoranza”. A commento dello scritto ho letto che “sta trionfando non l’ignoranza ma addirittura la passione per l’ignoranza, la superiorità di chi si vanta di non sapere e quindi di avere ragione…”. Ammettendo di essere “disubbidiente verso la scemenza presuntuosa del momento” (credo, ma non ne sono certo, si riferisca allo strabordante sciupio di parole sulla diversità di genere da tradurre in legge) ed evocando lo sperpero di minacce riservate ai dissidenti, Natalia Aspesi, spiritosamente dice che augurare il peggio “è diventato un modo spiritoso di dire ciao, alla maniera degli studiosi di genere che specificano non binary le persone che non sanno bene chi sono, se femmine o maschi o tutti e due o altro”. Sarà il caso di riflettere e meditare sull’essere e il divenire, magari immaginando che un mondo nuovo e migliore è pur sempre possibile. Certo, almeno secondo il citato mio sodale sognatore, “c’è anche chi chiede a Dio di non soffrire pur sapendo che Dio soffre, c’è gente che detta legge pur sapendo che nessuno la scrive, ci sono ragazzi che si lasciano e altri che si lasciano andare, giornalisti che fanno di necessità tv…”. Tornasse sul palcoscenico il buon Totò direbbe «siamo uomini o caporali”, magari aggiungendo adesso un “siamo ancora uomini o siamo diventati solo e irrimediabilmente cyberoggetti, cybernauti, cybertutto o peggio?”. LUCIANO COSTA |