Ci sono le guerre – grandi piccole orrende becere stupide inutili fredde calde… comunque e sempre offesa alla Ragione, vilipendio dell’Essere, cantico lancinante e doloroso all’umana insipienza – e ci siamo noi, poveri cristi ostinatamente convinti che sarebbe meglio vivere in pace, ma incapaci di mettere quella pace agognata al di sopra di ogni altra evenienza. Quindi, non sono le aspirazioni al ben essere comune che prevalgono, ma la rassegnazione al peggio – male che investe forse chiunque. forse qualcuno, forse chi non concede spazio al sogno di giorni migliori -, che avanza e schiaccia pensieri e aspirazioni, che diventa mal essere, oltre il quale c’è spazio soltanto per la disperazione. E dentro questo gran guazzabuglio fatto di niente o poco più, regna l’indifferenza. Qualche giorno fa nel mezzo della festa che celebrava uno degli aspetti più nobili dell’esistenza – la solidarietà, che se sovrastata dal cappello alpino è certamente quanto di meglio si possa immaginare – un uomo carico di anni e certo anche di voglia di partecipare, improvvisamente s’è accasciato seminando intorno dolore e paura. Era uno sconosciuto, ma quella sera era uno di noi. Così la festa, per un attimo. ha spento i riflettori e ha fatto tacere la musica… Ma solo per un attimo, il tempo necessario per consegnare l’uomo alle cure, poi tutto è ricominciato dal punto in cui l’imprevisto aveva imposto attimi di dolorosa riflessione, con semplice indifferenza, perché la regola è continuare, costo quel che costi. Continuare, continuare… a sfogliare i giorni senza pace, a contare i morti causati da bombe, da incidenti, da violenza, da incuria, da solitudine, da disperazione, da rabbia, da solitudine, da abbandono, da assenza di cuori-mani-braccia distese per rendere meno grama l’esistenza del vicino, magari occasionalmente il più prossimo alla nostra esistenza…
Indifferenza, comportamento che altro non concede se non altra indifferenza… Ragion per cui, o si è sapienti, o si è stolti. E tutto il resto? Tutto il resto è indifferente. Emanuele Severino, grande filosofo degno di tale grandezza perché conscio delle fragilità comuni al vivere quotidiano, mi spiegò un giorno, con rara pazienza e sublime comprensione per la mia evidente ignoranza, che non il semplice essere ma l’essente era ciò che serviva per mettere al posto dell’indifferenza il preoccuparsi per chi camminava sulla medesima via, sognava un comune destino, immaginava giorni migliori… Allora non capivo la differenza tra essere ed essente, però mi affascinava l’idea di mettermi in ricerca per ovviare a tanta ignoranza. Provai e riprovai a cercare, ma ritrovandomi sempre al punto di partenza, chiesi al filosofo amico semmai esistesse una regola cui appellarsi per ovviare a tale insipienza. Emanuele mi disse di cercare risposte dove il senno adagiava il suo capo e non dove gli umori improvvisi ottenevano udienza e applausi.
Indifferenza, male ineluttabile… Tu magari non la cerchi e ne stai lontano, “ma lei – dice il saggio – s’impadronisce di te proprio anche quando credi di essere pronto a interessarti di qualcosa o qualcuno che bussa alla tua porta”. Allora l’indifferenza si manifesta per quello che è: figlio dell’accidia, che tra tutti i vizi capitali è il più perverso, il più subdolo e misterioso, che passa sotto silenzio forse a causa del suo nome che a molti risulta poco comprensibile. Leggo nel prontuario in uso ai meno sapienti, che nel catalogo dei vizi il termine accidia viene spesso sostituito da un altro di uso molto più comune: la pigrizia. In realtà, solo quando una persona se ne sta inoperosa, indolente, apatica, noi diciamo che è pigra. “Ma, come insegna la saggezza degli antichi padri del deserto, spesso la radice di questa pigrizia è l’accidia, che letteralmente significa mancanza di cura”. Dice Francesco, papa scomodo e perciò necessario a sollecitare impegni capaci di restituire valore alla Speranza di giorni migliori, che “si tratta di una tentazione molto pericolosa, con cui non bisogna scherzare. Chi ne cade vittima è come fosse schiacciato da un desiderio di morte: prova disgusto per tutto; il rapporto con Dio gli diventa noioso; e anche gli atti più santi, quelli che in passato gli avevano scaldato il cuore, gli appaiono ora del tutto inutili. Una persona comincia a rimpiangere il tempo che scorre, e la gioventù che è irreparabilmente alle spalle”.
L’accidia, ma chiamatela pure indifferenza se volete, come il “demone del mezzogiorno, che ci coglie nel mezzo delle giornate, quando la fatica è al suo apice e le ore che ci stanno davanti ci appaiono monotone, impossibili da vivere…”. Così
“l’occhio dell’accidioso è continuamente fisso alle finestre, e nella sua mente fantastica sui visitatori… E quando legge, sbadiglia spesso ed è facilmente vinto dal sonno, si stropiccia gli occhi, si sfrega le mani e, ritirando gli occhi dal libro, fissa il muro; poi di nuovo rivolgendoli al libro, legge ancora un poco e infine, chinata la testa, vi pone sotto il libro, si addormenta di un sonno leggero, finché la fame non lo risveglia e lo spinge a occuparsi dei suoi bisogni…”.
Per un saggio, uno dei pochi che resistono in questo accavallarsi di “ia” e “ai” (intelligenza artificiale o artificiale intelligenza) per cambiare servirebbe la pazienza della fede. Che però non so dove abiti. Ma se voi invece lo sapete, per favore comunicatemelo. Ditemi cioè che “è quella fede che rimane nel cuore, come rimane la brace sotto la cenere, che sempre rimane…”.
Tutto il resto, se non colorato di buono e bello, è noia.
Qui mi fermo e respiro l’aria di Ferragosto, che spero salutare, priva di noia indifferenza accidia e di qualunque altra malattia.
LUCIANO COSTA