Non v’è motivo per rallegrarsi se la parola “rispetto” diventa simbolo di un anno semplicemente funesto. Infatti, quella parolina dovrebbe avere sempre e comunque il primo posto nelle umane vicende. Invece… Invece basta sollevare il comodo e spesso cappotto confezionato per proteggere da tutto ciò che ruota intorno per vedere l’orrendo sfregio che ogni momento sfregia deturpa storpia capovolge imbruttisce e annulla il valore della parola “rispetto”. Ciò che più offende e offusca, questa parola, è l’insieme di comportamenti e fatti talmente parte del quotidiano da rendere impossibile accorgersi che sono il contrario della parola “rispetto”. Guardo intorno e vedo guerre di qui e di là, violenze sopra e sotto ogni latitudine, ruberie ai quattro venti, inganni in quantità, bombe come se fossero bon-bon della festa, invasioni di terre e campi col preciso scopo di zittire e annullare ogni possibile o anche solo immaginabile ostacolo–dissenso opensiero non allineato, uomini e donne sputati e mortificati perché… diversi ingombranti ignoranti pezzenti stranieri affamati ammalati poveri perché… pericolosi e funesti, quindi da mandare via – magari in Albania – con foglio di via e obbligata via. Ma che mondo è questo che non si degna d’aver rispetto nemmeno del rispetto dovuto a chi sulle spalle non porta scialle, borsa, fiori ofieno ma solo miserie e disperazione che, ahimè, sono invisibili agli occhi?
Una volta, chissà quando (fate liberamente due conti e collocate il pensiero dove i ricordi dicono e raccontano di come eravamo) per spiegare cosa significasse la parola “rispetto”, a mamme zie nonne prevosti suore devoti devote e infervorati di buoni e onesti propositi bastava ricordare quel che da millenni stava scritto nel Vangelo (gran libro, mai sufficientemente letto e compreso), semplicemente quel rigo che dicendo “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te” indicava la via da percorrere.Oppure, bastava rimettere in primo piano quell’altra massima, scritta da pensatori fini in tempi in cui il pensiero contava più della spada, che dicendo “la mia libertà finisce dove comincia la tua” metteva chiunque fosse di fronte nella condizione di sentirsi rispettato. Altri tempi, altri mondi… No, no! Sono gli stessi mondi e gli stessi tempi, però con protagonisti e attori diversi, che hanno smarrito il buon senso e trovato invece superbia e arroganza da mettere liberamente e impunemente in circolo… Ieri, per aver chiesto ad alcuni perditempo indaffarati a quagliare guerra e pace in un solo gomitolo informe di non mettere sullo stesso piano aggressori e aggrediti, briganti e viandanti, lupi e agnelli, terroristi e terrorizzati, ricchi e poveri, migranti disperati e turisti allegri mi sono guadagnato (meglio: riguadagnato) il titolo di “benemerito illuso”, più o meno assimilabile a quel modo di dire che a “benemerito” facilmente aggrega la qualifica di “imbecille”.L’altro ieri invece, in omaggio al “rispetto” appena proclamato parola dell’anno, nell’aula del Senato (massima assise della democrazia, mica un semplice sottoscala) un presidente luciferino e un senatore viperino si sono scambiate carezze verbali degne di un’antologia pensata per dare sostanza al contrario di “rispetto”.(Detto tra noi, ho patteggiato per il viperino, che il luciferino mi era nuovamente e gravemente indigesto).
Per distogliermi da pensieri men che gentili, ho cercato nel gran baule delle cose inutilizzate qualcosa che mi risollevasse dalla paura di essere l’illuso disposto ancora a credere che avere rispetto per chi ha rispetto di chi non conosce rispetto, per chi il rispetto non sa cosa sia, per i tanti (troppi) che del rispetto se ne fregano, di chi il rispetto lo vuole per sé e non per gli altri, che crede ancora e nonostante tutto nel valore di avere rispetto… altro non dimostrasse se non insufficienza di intelletto (almeno secondo la moderna concezione). Il caso ha voluto mi imbattessi in un foglio mal accartocciato, quindi propenso a lasciarsi ulteriormente indagare, su cui brillava il testo di una canzoncina per bimbi, bambi, bambinoni e, magari, per adulti con evidente nostalgia di quei tempi andati, la quale allegramente mi diceva:
Questo è il ballo del rispetto, / chi lo balla scoprirà / se si guarda un poco attorno / lo si imparerà. / Dai la mano al tuo vicino / epoi fagli un bell’inchino. / Ora unisci l’altra mano / e un bel ponte nascerà. / Ci muoviamo tutti insieme, / ora andiamo su e giù. / Questo è il ballo del rispetto, / balla anche tu. / Ci mettiamo tutti in fila / e facciamo un bel trenino. / Poi passiamo sotto il ponte, /che gli amici han fatto già. / Ci muoviamo tutti insieme, / ora andiam di qua e di là. / Questo è il ballo del rispetto. / Balla anche tu. / Questo è il ballo del rispetto…”
Bella la canzoncina e bella la morale, almeno se in giro c’è qualcuno disposto a prenderla sul serio e non sul vago. Così, pur convinto che nella canzoncina la parola “rispetto” fosse chiara e degna d’essere sposata “vitanaturaldurante”, ovvero “finchemortenonsepari”, ho cercato altro cui affidare la mia speranza di veder trionfare la parola “rispetto”. Ho riletto allora quel che avevo solo leggiucchiato, di certo opera di un intelligente pensatore. Diceva: “Rispetto, una parola che esprime attenzione, gusto dell’incontro, stima; parola intelligente, che anche quando introduce un attacco verbale, non alza i toni del discorso, anzi sembra voler prendere le distanze da quanto sarà detto subito dopo; rispetto, parola che l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani ha eletto “parola” del 2024. Una decisione che sembra un auspicio, che porta con sé il desiderio di costruire, di usare il dizionario non per demolire chi abbiamo di fronte ma per provare a capirne le ricchezze, le potenzialità. Perché se è vero che le parole possono essere pietre, è altrettanto giusto sottolineare come siano in grado di diventare il cemento necessario a edificare case solide e confortevoli, la colla capace di tenere insieme una relazione a rischio di rottura. Ragion per cui il termine rispetto, continuazione del latino respectus – come spiega la Treccani – va oggi rivalutato e usato in tutte le sue sfumature, proprio perché la mancanza di rispetto è alla base della violenza esercitata quotidianamente, specie nei confronti delle donne, delle minoranze, delle istituzioni, della natura e del mondo nel suo generale insieme. E la conferma, nel caso servisse, arriva proprio dai termini che rimandano al significato opposto, tutti concetti orientati a distruggere le relazioni, a demolire gli altri: indifferenza (che spesso fa più male dell’odio), noncuranza, sufficienza fino ad arrivare all’insolenza, al disprezzo, allo spregio. E pare di sentirli certi dibattiti dove per festeggiare una vittoria si dice “li abbiamo asfaltati” o quelle interviste sportive con l’allenatore che rivendica “la cattiveria” come ingrediente indispensabile per scalare la classifica”. Aggiungeva che “rispettare è tutt’altro. Infatti, esso affonda le sue radici in respicere che, letteralmente significa guardare di nuovo, guardare indietro, cioè richiama il dovere di non cedere alla smania del giudizio immediato figlio dell’emotività, che non tiene conto delle storie delle persone, delle loro battaglie interiori. Occorre, invece, allenarsi alla bellezza del prendersi cura, del fare attenzione, del preoccuparsi per la vita altrui, così che la comunità possa crescere in armonia facendo assaporare in chi ne fa parte il gusto dell’appartenenza alla medesima famiglia umana. Il rispetto, dunque, come rivendicazione dell’importanza delle relazioni autentiche, oltre la superficialità, soprattutto libera dalla schiavitù della banalità, dell’approccio interpersonale mediato unicamente dai social, che possono essere un bene a patto che non si deleghi loro la semina dei rapporti umani”. A parte, leggo anche quel che non a caso dice l’Oxford dictionary, e cioè che “l’esistenza non è soltanto quello che si pubblica sullo smartphone, ma la quotidianità vissuta nella relazione concreta, condivisa, in cui si ragiona e si respira insieme. Perché è appunto insieme che si immagina una società diversa, la si sogna sapendo che se è una comunità intera a progettare il futuro, sarà più facile vederlo realizzato. Oltre la Manica lo spiegano così: “Immaginare di realizzare qualcosa che si desidera, nella convinzione che così facendo si aumenteranno le probabilità che ciò accada”. Un certo don Milani la (ri)dice invece in questo modo: “Il primo passoconsiste nel purificare il dizionario, nel disarmare i discorsi, nel rifiutare la dittatura della cultura che premia chi sa tante parole rispetto a chi ne conosce poche. Una di queste parole, fondamentale, da respirare tutti insieme e da vivere più che da ripetere è, semplicemente, rispetto”.
Ora, temendo d’avervi impensierito e magari intristito, vi propongo come rimedio fiabe e storielle incantevoli in cui lupi travestiti da agnelli o da capretti ma mai il contrario, improvvisamente, per chissà quale benigno intervento del cielo, si trasformano in miti e mansueti abitanti della terra. La canadese Sid Sharp, autrice che bene sa maneggiare l’umorismo, racconta di una pecora audace, decisa a superare le proprie paure con uno stratagemma interessante sebbene costellato di qualche punto debole. Durante I’incursione nel bosco in cerca di frutti, Greg la pecora i lupi li incontra davvero e grazie al suo travestimento passa per uno di loro… Però, una domanda: per quanto tempo si può fingere di essere qualcun altro? E quanto sono efficaci le maschere sotto cui vogliamo nasconderci? Orso, per esempio, non ha di questi dubbi. Per lui, infatti, un pandolce di Natale è quel che ci vuole per risollevare il morale di chi si sente un po’ nervoso in una giornata fredda e nevosa. Il suo pandolce Orso lo ha fatto a regola d’arte arricchendolo con uvetta e pinoli e visto che cerbiatto è proprio giù di corda gliene offre metà. Ma quando coniglio investe con la sua slitta il povero cerbiatto questo che fa? Si arrabbia? No, divide a metà il suo pandolce. È felice Coniglio anche se improvvisamente gli arriva una palla di neve sul muso. Civetta è responsabile sebbene non l’abbia fatto apposta. Coniglio che fa? Si arrabbia? No, divide la sua fetta di pandolce con civetta. Insomma, di zampa in zampa, di becco in becco la catena della generosità, come in ogni buona famiglia, si allunga e il dolce si dimezza continuamente. Una bella gara di amicizia che si concluderà in mezzo al bosco con una sorpresona che stupirà tutti quanti… una festa fatta in onore della parola “rispetto”.
Meditiamo gente, meditiamo! E siccome questo è l’ultimo Domenicale dell’anno 2024, consideratelo il mio augurio e il mio auspicio per un tempo in cui la parola “rispetto” non sia semplicemente la parola di un anno, ma quella di ogni anno.
LUCIANO COSTA