Comunicare e ascoltare il silenzio…

Il mondo, e il mondo della comunicazione ancora di più, non ha uno stile discreto: spara notizie, le spara grosse, difficilmente smonta i si dice e vanta le certezze, raramente si occupa di virtù, quasi sempre preferisce i vizi, che fanno audience e stuzzicano soste davanti al televisore in attesa di seguiti e parole utili a condire quei vizi e a renderli, magari, anche – absit iniuria verbis (“sia lungi dalla parola l’offesa” traduce il Treccani) – appetibili… “Viviamo oggi – leggo in un commento al messaggio che accompagna l’annuncio della Giornata mondiale delle comunicazioni sociali – in una società satura di suoni, voci, grida, immagini, clamori e fragori ed è difficile ascoltare il silenzio. Ne era ben consapevole Federico Fellini che nell’ultima scena del suo ultimo film, Le voci della luna, del 1990, mostrava il protagonista, Roberto Benigni, che di notte guarda la luna e si accosta ad un pozzo come se volesse udirne la voce e invita tutti ad un maggiore silenzio, condizione per ascoltare e comprendere qualcosa più di quel “guazzabuglio” che è il mondo e il cuore dell’uomo”.

Al posto del silenzio, da ascoltare e comprendere in tutte le sue sfumature, emerge così il vezzo di “origliare e spiare, strumentalizzando gli altri per un nostro interesse”, che fa a pezzi e straccia ogni “comunicazione buona e pienamente umana” a sua volta necessaria per ascoltare chi “abbiamo di fronte”, forse un qualsiasi altro, nulla più. Sono i rischi di un giornalismo da scrivania, che riporta il sentito dire e soffoca la ricchezza della realtà nella monotonia del comodo copia e incolla… Infatti, e benché dispiaccia, nei media interconnessi di oggi la distinzione tra fonte e destinatario è contaminata. Siamo dentro a flussi comunicativi che ci travolgono e ci superano. E i nuovi media sono fin troppo in ascolto dei loro utenti, restano in costante ricerca di una fidelizzazione, indagano e spiano… Per diletto, per incapacità di fare altro o perché quello, secondo loro, è ciò che chiede il pubblico.

“Come i farmaci – ha scritto un saggio commentatore di costumi televisivi – i media hanno una dimensione tossica e una curativa. I due aspetti non si possono separare, non possiamo sognare che i media diventino soltanto buoni. Ma come ogni farmaco devono dovesse essere usati con cautela, nelle giuste quantità e con le giuste avvertenze. Possiamo contenere la tossicità e potenziare la dimensione terapeutica. Accorciare le distanze è parte del rimedio; imparare ad ascoltare è il passo in avanti da compiere per non ridurci ad essere il prodotto di algoritmi di cui ignoriamo tutto, ma che tutto sanno di noi”. Però, per ascoltare bisogna stare fermi, zitti, concentrati. Una condizione contraddetta dall’Infosfera (nella filosofia dell’informazione si intende la globalità dello spazio dato alle notizie), che pretende continuamente la nostra attenzione. Ragion per cui, “chiusi come siamo nella bolla dei nostri like (piace) perdiamo di vista quanto l’ascolto consista nell’avere coscienza dell’altro, nel lasciarlo risuonare al nostro interno e trasformare il nostro modo di vedere le cose”.

Ma le cose, si sa, non esistono se non abbiamo parole per definirle. “Le parole – era scritto nel “Manuale delle giovani marmotte”. di cui si son perse le tracce – trasmettono in grande parte le nostre idee, i nostri pensieri; permettono la condivisione, ci rendono responsabili. Chi siamo dipende sì, in grandissima parte, dalle nostre azioni, ma anche dalle parole che scegliamo per accompagnarle, per presentarle e per presentarci”. Oggi, in un tempo in cui, tutt’al più, il manuale serve per ricostruire a casa quel che Ikea ha messo in scatola e venduto qual meraviglia a poco prezzo, invece, si abusa delle parole. Poco importa se sono a volte eccessive, violente, aggressive, così brave a umiliare, confinare, ferire o addirittura uccidere. Servono a chi servono, e spero siano ancora pochi, ma restano vuote, malvagie, false… Poi, succede che le parole facciano miracoli – curano, sanano, portano conforto, danno o ridanno la vita – e siano “come i fili i fili della rete dove il corpo, con i suoi sogni, desideri e tristezze, andrà a sdraiarsi”. Sogno oppur son desto? Davvero parole come umiltà, lentezza, solidarietà o vulnerabilità possono riappropriarsi del loro significato originario, fungendo da mano salda cui aggrapparsi per cercare di riprenderci, insieme, da questo profondo periodo di crisi?

Prudenza, amici! Ci vuole prudenza. E magari è il caso di procedere ubbidendo al detto “affrettati lentamente” (traduzione del famoso motto latino Festina lente, di origine greca, che Ottaviano Augusto non si stancava di ripetere ai suoi collaboratori) lasciando perdere qualsiasi riferimento all’audacia della velocità tanto cara al Vate (D’Annunzio, chi altro?) e ai suoi proseliti.  Meglio pensare con calma a quello che si sta per fare. Se interessa, e credo debba interessare, la prudenza, oggi così ignorata, era la prima delle antiche “virtù cardinali” e non significava paura, ma capacità di immaginare le conseguenze delle proprie azioni. Uno dei più acuti e ispirati moralisti moderni, Franz Kafka, disse una volta che “la guerra nasce da un’estrema mancanza di immaginazione, che acceca proprio in prossimità di pericoli e sciagure che stanno per diventare fatali”.

Non è dunque evidente che di prudenza e saggezza non si dovrebbe fare a meno quando si educano e si istruiscono bambini e ragazzi? “Una delle sciagure della cultura moderna – scrive l’esperto – è stata, con l’inizio del Romanticismo, la sostituzione della saggezza tradizionale, che prevedeva pazienza, autocontrollo e senso del limite, con il mito equivoco della genialità, che segue impetuosamente il puro istinto e non si fa scrupolo di niente”. Questo mito è diventato dal Novecento a oggi un banale e tossico mito di massa. Così, “seguendo ogni istinto senza scrupoli, facendo tutto in fretta senza darsi tempo per immaginare le conseguenze negative di azioni inconsulte, ci si crede geniali. Invece, la prima cosa che ogni insegnante non dovrebbe dimenticare è che insegna anzitutto con il suo modo di essere e che i suoi alunni lo giudicheranno più severamente e saggiamente di quanto sembri”. Quindi, aver avuto un buon insegnante è una cosa che non si dimentica per tutta la vita. Salvo imprevisti e fughe dove il nulla la fa da padrone, ovviamente.

Ricordo il direttore che a noi giovani cronisti diceva: “Scrivete solo dopo aver masticato i pensieri fino a farli diventare digeribili”. Ecco, c’è bisogno di tornare a quel modo di fare, perché non basta più raccontare il supposto o incorniciare l’opposto, ma è invece necessario dire rispettando e rispettando formare la notizia, e formando la notizia aver cura di spiegarla senza lasciare spazio ai si dice e ai fraintendimenti. Essere veritieri, questo il dilemma! E’ domenica di sole e di paura: il sole illumina; la paura di una guerra sull’uscio di casa – l’Ucraina e la Russia sono lì a due passi da noi – contorce le budella. E’ domenica e il mio amico pazzerello ma intelligente, tale Alessandro Bergonzoni, mi dice: “Mentre ti scrivo almeno due miliardi di persone stanno dormendo, sessanta milioni camminando, quindici milioni stanno scappando, quattro milioni ridendo, due miliardi mangiando, tre pregando, godendo o piangendo: dimmi tu dove vuoi che ci mettiamo per far parte di st’universo”. Gli ho risposto adesso che sto dove ancora è possibile pensare e dove pensando si cercano risposte al nulla dominante e perverso. Mi aspetto la chiamata che mi dica “è solo filosofia per utopici e illusi”. Sarà. Però Epicuro, bontà sua, lo prometteva a tutti dicendo che “non è mai troppo presto o troppo tardi per cominciare a filosofare”. Bonazzi, filosofo attuale, dice invece che Platone era di tutt’altro avviso. Per lui, infatti, “l’età giusta per iniziare con la filosofia era cinquant’anni, non uno di più, non uno di meno”. E non senza la dovuta preparazione, perché l’aspirante filosofo, prima di avventurarsi alla ricerca della sapienza, dovrebbe almeno aver studiato matematica, geometria, astronomia e musica concentrandosi però solo sull’armonia. Sospetto che il messaggio di Platone si riduca a questo: siamo esseri troppo complicati per poter essere controllati. Che sia questa la sapienza dei filosofi cinquantenni?

Vorrei crederlo, ma ecco che avanza il popolo dell’insulto e delle parolacce. Per aver cantato e detto che la vita è bella, mi sono sentito apostrofare qual bugiardo, perfido e vile cantore di balle e sogni… Un’amica letterata e intelligente mi ha girato un suo scritto dedicato all’uso e abuso delle parolacce: eloquente, istruttivo, attuale, ottimo per dirmi che le parolacce e gli insulti esistono nella misura in cui esiste il paesaggio di cui siamo, volenti o nolenti, parte integrante ed essenziale. Allora ho (ri)messo la mascherina, l’ultima della serie, quella identificata con la sigla “ffp2”, per provare a sparlare, urlare e profferire parolacce, però solo commestibili e purificate, senza doverne rendere conto a chicchessia. Mi son trovato di fronte alla fine del divieto di usare le mascherine all’aperto, quindi alla fine anche del piacere di nascondervi all’interno linguacce boccacce improperi grugniti parolacce e insulti… Per fortuna, il Carnevale alle porte, mi ha offerto subito un ottimo alibi per rimettere la mascherina ed e vitare così di travestirmi nuovamente da me stesso, arrabbiato meditabondo in cerca di vie di sfogo e di compensazione dal solito macchinoso tran tran quotidiano.

Umberto Eco, di nuovo lui, ripetendo quel che già spiegava nel 2004 e che è diventato via via materia cui attingere per sollevarsi dall’ignoranza, è tornato a dirmi che la tecnica dell’insulto continua a essere teletrasmessa, segno di fede inconcussa nei valori della democrazia. “Si era incominciato – diceva l’Eco con malignazza ma vera perversione – con Bossi, il cui celodurismo alludeva ovviamente a un celofloscismo altrui, (e l’appellativo di Berluskaz era inequivocabile), ma la cosa è dilagata. Allora, ai tempi buoni e vivi dell’Umberto, Stefano Bartezzaghi, un solerte inventore di stramberie cruciverbistiche, citava giochi d’insulto in circolazione, ma a livello tutto sommato bonario. “Per cui – scriveva il dotto bolognese -, onde contribuire anch’io all’addolcimento del politicamente scorretto italiano, dopo aver consultato una serie di dizionari anche dialettali, mi permetto di suggerire alcune espressioni tutto sommato bonaccione e gentili per insultare l’avversario, quali verbigrazia…”. Seguivano cento vocaboli e più, forse centocinquanta e ancor di più, che, lo so, vorreste io trascrivessi e metessi a vostra disposizione. Non lo faccio, per pigrizia e spazio, però vi dico che li trovate tutti elencati alle pagine 136 e 137 del saggio “reazionari e moderati”, ripubblicato adesso da “la Repubblica”. Vanno da pistola dell’ostrega e, passando per puzzone, coatto, brighella, tombino, polentone, quaquaraqua e fangottone arrivano a pappamolla, furfantello, scioccherello, stolto, sventato e, bontà tutta sua, birichino.

Anche questa è comunicazione. Però intelligente, salvo errori e omissioni.

LUCIANO COSTA

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