Nel mezzo del cammin di mia ventura tra i devastamenti procurati a Capitol Hill da una masnada di filibustieri urlanti, mi ritrovai pensoso alle pendici di Chigi Hill, ancora intatto sebbene assediato da contendenti in vena di conquiste assai poco amorose. Vidi allora vagare idee che ben poco possedevano di eccelso e propositi che, a dire il vero, sembravano soltanto spropositi. Pensai… E poi smisi di pensare. Era infatti pericoloso continuare a rincorrere pensieri quando ai pensati pensieri era assicurata soltanto dimenticanza. Un tale mi disse “è la crisi, bellezza”, ma forse voleva dire “è la democrazia, bellezza”. Poi, un po’ per celia e un po’ per seminare turbamento, un bizzarro amante di parole crociate, di fronte alla richiesta di definire “quelle che si danno sempre agli altri” scrisse “golpe” e non “colpe”.
Seguirono attimi di panico. Allora, uno qualsiasi, ridendo a crepapelle, spiegò ai presenti che trovandosi qui (in Italia) e non là (in America), qualsiasi riferimento a un ipotetico “golpe” a danno di qualcosa democraticamente eletto era frutto di fantasia, un semplice lapsus, più paesano che freudiano. Essendo, come detto, nel mezzo del cammin di mia ventura ed essendo ormai sera, non vidi il ramo che ostruiva la via e gli offrii la fronte. La botta mi risvegliò. Ero perfettamente integro. Quindi, avevo semplicemente sognato. Insomma, non ero né a Capitol Hill né a Chigi Hill, “golpe” era la storpiatura di “colpe”, nessuno si era fatto male, io stavo comodo sul divano e ogni altra intenzione era puramente casuale.
Non casuale, invece, era il vento di crisi che soffiava intorno a Chigi Hill. Diceva, quel vento, di contrasti sempre più accentuati tra patron Giuseppe e il discolo Matteo (un fiorentino che secondo Iena “non ha tutti i torti, solo qualcuno”, e uno di questi, chiamato supponente strafottenza, va sistematicamente di traverso a dritta e anche a manca), tra Matteo e Nicola (un pacioso romanaccio impastato di socialismo rampante, presidente di regione ma anche segretario del partito una volta emergente), tra Nicola e l’evanescente Vito (uno qualsiasi, che partito da Brescia quasi per caso con in tasca cinque stelle da commerciare si ritrovò nella bolgia politica romana e più non ritrovò la strada del ritorno a casa), tra Vito e quelli che a lui e ai suoi assegnavano il titolo di incompetenti, cioè neppure in grado di elencare l’abc della politica… E, per finire, il vento raccontava anche gli scontri (verbali e nulla più) tra la casta maggioritaria formata da Giuseppe, Matteo, Nicola, Vito e occasionali cugini e la cricca minoritaria composta da Giorgia (finalmente una donna arrembante, che a parte l’istigazione alla violenza sta comunque col perdente e rissoso Trump), Matteo (un villico pedemontano proveniente dalla Padania), Silvio (un ricco signore attempato che non smette di cercare gloria, piaceri e dispiaceri) e, perché no, altri occasionali cugini.
In quel gran bazar delle chiacchiere pre-crisi, dentro la crisi, quasi in crisi o nella finta-crisi mancava solo lui, Massimo D’Alema, ex e ancora ex di tanti incarichi e inciuci, oggi vecchio amplificatore di censure di cui volentieri faremmo a meno, “il peggiore direttore – almeno secondo Staino, caricaturista schierato ma adesso sentimentalmente deluso – dei comunisti in politica” per di più “sempre afflitto da megalomania patologica”. Nonostante ciò D’Alema si ostina a vantarsi di essere “il migliore”. Sarà, però e per fortuna, la folla, volentieri, dice che è uno di quelli che è meglio perdere che trovare. Fate voi…
Questo per dire che la crisi vagante si arricchisce di voci stantie, fuori dal coro sebbene in cerca di spazio e uditori. Intanto, nel gran marasma, il fiorentino è considerato l’agitatore, un cercatore di guai, il dissipatore di una coalizione coalizzata nel coalizzare qualcosa non coalizzabile, che tuttalpiù assomiglia a niente o nulla più. Conseguono riflessioni sul piatto che piange, sul bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno, sul senso del dissenso, sugli attori della commedia (buoni per tutte le stagioni, testimoni di un dramma che li sovrasta, inconsapevoli partecipanti a un viaggio senza destinazione, infervorati testimoni di un progetto di cui non capiscono il principio e neppure la fine, o qualunque altra cosa a scelta), sui calzini rammendati, sulla polenta condita, sui poveri sempre più poveri, sui ricchi sempre più ricchi, sulla propensione di questo o quel capo tribù a zizzagare e (on)divagare su e giù per gli irti colli, sui politici ignoranti… A proposito di quest’ultimi, un lettore dello scorso domenicale mi ha chiesto se per caso avessi provveduto a verificare quanti dei citati o non citati politici, quelli racchiusi in un generico “contendenti”, avevano letto leggono leggeranno i “Promessi Sposi” o anche solo il passo riportato. Gli ho risposto di non aver osato chiedere, soprattutto temendo di sentirmi rispondere donde venisse quel titolo e se fosse vera la pagina trascritta.
In attesa di sapere chi come dove quando perché firmerà la crisi o non crisi, oppure la semi-crisi del Governo, penso alla fatica consumata dai contendenti nel trovare strade e argomenti per districarsi nel gran mare delle bugie da loro medesimi inventate per giustificare le loro contorte azioni. Li immagino, questi contendenti, tornare a casa a qualche ora della notte e dover dire a chi li sta aspettando (mamme, papà, fidanzate, fidanzati, mogli, mariti, amanti, concubini e concubine), rubando le parole che Dante usò per confezionare il suo Paradiso… ahimè «come sa di sale / lo pane altrui, come duro cale / lo scender e ‘l salir per l’altrui scale».
Ho letto e trovato assai interessante che “da un lato, nel vuoto o nella debolezza del circuito istituzionale si aprono enormi spazi per la personalizzazione della politica che premia i detentori di risorse monetarie (i magnati), di visibilità (i divi, i giornalisti, gli sportivi), talvolta di expertise, ancorché non politica (gli scienziati, i professori)” mentre “dall’altro, a dare visibilità e fama provvedono i mass media, più quelli “vecchi” di quelli nuovi (la Rete, il Web)”. Però, “nulla di quello che consegue riesce a rendere i rapporti Parlamento/Governo migliori se con questo aggettivo ci si riferisce al rispetto reciproco fra le due istituzioni e i loro occupanti, alla funzionalità in termini di tempi relativamente certi per la discussione e la decisione (che potrebbe anche essere negativa), alla trasparenza per gli elettori, le associazioni, i mass media dei quali, però, è sempre più opportuno sapere e volere criticare l’incompetenza e la partigianeria”.
Se mi è permesso, insieme all’illustre pensatore che l’ha scritto “oserei dichiarare che c’è di peggio: lo spettacolo e la realtà dello spreco di risorse e di tempo (time is money) che inquina il futuro. Dai quali non se ne esce potenziando il solo Governo e neppure il solo Parlamento. Soprattutto perché non è sufficiente valorizzare il dissenso se non abbiamo di mira nuovi comportamenti. Serve una visione d’insieme e, finalmente, un’etica pubblica, incoraggiata e premiata da regole costituzionali. Niente di più niente di meno. Pensare e fare politica. Another time another place”, ovviamente se preferite sentirla dire in lingua diversa dalla mia.
Joan Baez, sublime interprete delle nobili ma inascoltate aspirazioni del grande popolo americano, cantante da ieri felice ottantenne, mentre si paragona all’ultima foglia rimasta sull’albero che resiste a tutte le intemperie e al passare del tempo, afferma di essere “giù all’angolo tra la rovina e la grazia” mentre si sta “stancando della razza umana”. Alessandro Bergonzoni, visionario di cieli e terre strampalate ma sincere, mi informa che “entrando nel panico, a destra troverai la paura, in fondo a sinistra me, che ti tendo la mano, chiunque tu sia”. Se così fosse, e non ho motivo di credere il contrario, allora si può immaginare di andare oltre la crisi. O no? LUCIANO COSTA