Dopo anni di ostinato scrivere e raccontare non so ancora chi sono: scribacchino, cronista, imbratta fogli, notista, sognatore, affabulatore, scrittore… arlecchino, gioppino, pulcinella o balanzone? Un caro amico lettore (merce rara e quindi da considerare cara-carissima), letto l’ultimo domenicale e vistol’ultimo libro da me messo in circolo, forse credendo di fare un complimento, mi ha salutato dicendo “e così vorresti fare lo scrittore…”, che certamente era una frase di circostanza, però incline a diventare giudizio se pronunciata con accompagnamento di tonalità varianti tra l’esclamativo e il dubitativo o ad assumere valore di condanna se rivestita di quell’ironia che esclude ancor prima di valutare. Gli ho risposto che in verità avrei voluto fare il “poeta muto”, simile a quello che tutt’al più poteva vantarsi di essere “spettatore muto” di fatti e accadimenti così alti-grandi e nobili, ma forse anche meschini-ignobili-bassi e vili che per essere commentati e offerti al pubblico avevano bisogno non di piccoli aspiranti scrittori, ma di eccelsi-eccellentissimi e paludatissimi scrittori…
Insomma, roba fuori dalla mia portata, però… Però, che male c’ènel credere, come insegnava Yves Klein (artista francese, precursore della Body Art e forse legato al Nuovo Realismo), che “il vero pittore del futuro sarà un poeta muto che non scriverà niente ma racconterà, senza dettagli e in silenzio, un immenso quadro senza limiti…”. Qui ci vorrebbe un punto di domanda, che io evito ritenendo la frase di per sé esaustiva e risolutiva, ma chenella sua esigente grammatica invita ad allargare il campo della riflessione sul mestiere dello scrittore. “Se vuoi intendere ciò che sottende quest’arte sublime ma sublimemente e addirittura sistematicamente offesa – mi ha consigliato ieri un dotto professore – leggi Charles Bukowski, scrittore statunitense di origine tedesca, che per rispondere alla domanda che supponeva la voglia di diventare scrittore, compose una poetica, che anche adesso sembra essere fuori dal tempo sebbene sia nel tempo e adatta al tempo in essere e divenire…”.
Ho cercato la poesia, l’ho letta e riletta, l’ho ritenuta lezione a cui dedicare attenzione e studio. Infatti, dice…
E così vorresti fare lo scrittore?
Se non ti esplode dentro
a dispetto di tutto,
non farlo
a meno che non ti venga dritto
dal cuore e dalla mente e dalla bocca
e dalle viscere,
non farlo.
Se devi startene seduto per ore
a fissare lo schermo del computer
o curvo sulla macchina da scrivere
alla ricerca delle parole,
non farlo.
Se lo fai solo per soldi o per fama,
non farlo,
se lo fai perché vuoi
delle donne nel letto,
non farlo.
Se devi startene lì a
scrivere e riscrivere,
non farlo.
Se è già una fatica il solo pensiero di farlo,
non farlo.
Se stai cercando di scrivere come qualcun altro,
lascia perdere.
Se devi aspettare che ti esca come un ruggito,
allora aspetta pazientemente.
Se non ti esce mai come un ruggito,
fai qualcos’altro.
Se prima devi leggerlo a tua moglie
o alla tua ragazza o al tuo ragazzo
o ai tuoi genitori o comunque a qualcuno,
non sei pronto.
Non essere come tanti scrittori,
non essere come tutte quelle migliaia di
persone che si definiscono scrittori,
non essere monotono o noioso e
pretenzioso, non farti consumare dall’autocompiacimento.
Le biblioteche del mondo
hanno sbadigliato
fino ad addormentarsi per tipi come te,
non aggiungerti a loro
non farlo
a meno che non ti esca
dall’anima come un razzo,
a meno che lo star fermo
non ti porti alla follia o
al suicidio o all’omicidio,
non farlo;
a meno che il sole dentro di te stia
bruciandoti le viscere,
non farlo.
Quando sarà veramente il momento,
e se sei predestinato,
si farà da sé e continuerà finché tu morirai o morirà in te.
Non c’è altro modo
e non c’è mai stato.
Allora, vorrei almeno essere un poeta capace di scrivere:“Qualcuno tornerà / per sentire la tua voce, / per dirti che la vita /è un gioco in mezzo ai prati, / che il tempo non ha fine / se vivi per qualcuno. / Qualcuno tornerà / per amarti tutti i giorni”.Invece, come suggerisce Gianfranco Ravasi, mi sento come il viandante racchiuso nell’immagine di una poesia di Brecht, quella che dice: “Sono seduto ai bordi della strada, l’autista sta cambiando la ruota, io non so da dove vengo, né dove vado. E allora perché attendo con tanta impazienza il cambio della ruota?”.Lo riconosco: sono sempre e soltanto spettatore muto di un evento grandioso, quello che racconta il sole che sorge ogni giorno anche se il cielo è pieno e coperto di nuvole.
E’ domenica, la domenica che segue la proclamazione, per un anno, di Brescia e Bergamo (una la mia città e l’altra la città piùvicina e prossima alla mia città) Città della Cultura Italiana, di cui sono stato, al pari di tanti altri, “spettatore muto” e però presuntuoso al punto di raccontare (vedi alla voce attualitàpubblicata ieri in questo medesimo spazio visibile digitando “bresciadesso.com”) l’evento consigliando di lasciar perdere l’effimero (coreografia dell’essere) e di prendere l’essenziale (parole pensate), vale a dire l’utile e il necessario per entrare davvero nell’essenza della cultura, che nell’occasione era mirabilmente raffigurato in ciò che Sergio Mattarella, Presidente della Repubblica, era venuto a ribadire, adesso semplicemente riassumibile in una riga, quella che dice: “La cultura unisce e moltiplica… un nuovo dialogo che guardi all’intera Italia e all’Europa”.
Ieri un cronista ha chiesto al cardinale Gianfranco Ravasi (lo stesso di cui sopra) se e come “l’uomo cambia? come cambia la cultura? cos’è cultura oggi?”. Ha risposto sottolineando come siano in crisi due capitoli fondamentali della cultura: l’antropologia (la natura umana) e il linguaggio (la parola con cui l’umano tenta di esprimersi). Ha anche ricordato. a me e achiunque s’illuda di possedere esaurienti risposte, che “la parola cultura è recente, essendo nata nel Settecento in Germania con l’espressione kultur”, che in latino non esiste, però “sostituita da una parola molto più significativa, humanitas, mentre in greco è a sua volta sostituita dal termine paideia, che esprimono due concetti molto più ampi di Kultur, che a quel tempo si riferiva al piano alto del cervello, vera e propria aristocrazia intellettuale, che però evitava di coinvolgere tutta la persona e la sua formazione…”, quasi fosse obbligatorio escludere il colloquio “tra un basso e un soprano” certo “voci agli antipodi”, eppure parti anch’esse essenziali per consentire un duetto in cui, sempre e comunque “non è richiesto che il soprano debba calare di un’ottava o che il basso debba cantare in falsetto” per dire che “l’identità deve rimanere”... Nonostante ciò mi sento e sono tale e quale la pagina bianca che “urla il suo silenzio” sopra “uno scarabocchio di lettere ammonticchiate…”, semplicemente e testardamente uguale a quello “scritto nell’acqua“, che John Keats, poeta e spettatore tutt’altro che muto, volle come suo epitaffio ultimo e assoluto…
E’ la prima domenica che vivo nella città proclamata Città della Cultura. Ragion per cui, non essendo ancora conscio dell’importanza che tale titolo riveste, considerate pure il domenicale” fuori luogo, ma anche luogo invece fatto apposto per essere luogo adatto a ospitare opportune e inopportune divagazioni. Fate voi, liberamente!
LUCIANO COSTA