Il Domenicale

Dal non luogo al niente il passo è assai breve…

E’ morto un tale, tale Marc Augé, filosofo e antropologo di chiarissima e osannata fama, che tra i meriti e i demeriti ha avuto sicuramente anche quello di aver dato forma-interesse-dignità-importanza-cittadinanza-notorietà-successo al “non luogo” (forma di pensiero felice di mettere il nulla alla pari col tanto) e di aver stabilito, tra mille altre cose degne d’essere immortalate, che ogni evento costituisce un segno e ogni segno ha un senso”.Essendo certo di nulla sapere (della massa infinita del sapere che forma il tutto, non sapere nulla è normale), quindi di appartenere di diritto alla schiera degli ignoranti, non ho soverchia dimestichezza con antropologi, filosofi e menti sublimate da titoli e onorificenze altisonanti, però, quel giorno in riva al pacifico Oglio (fiumiciattolo di pianura, luogo di refrigerio per chi come me l’estate doveva passarla al caldo della Bassa), l’incontro con il cantore del “non luogo”, invitato per dimostrare che la filosofia non disdegnava certo le rive del pacifico fiumiciattolo,  mi convinse che ogni “non luogo” resta tale solo se nessuno s’ingegna per renderlo luogo fruibileabitabile-amico…

Quel giorno Marc Augé, agli assetati di novità filosofiche convenuti, diceva che in spazi “dominati dall’assenza di storia, identità, relazioni”, veri e propri “non luoghi” e in “un’epoca segnata in negativo dagli eccessi del tempo, dello spazio e dell’ego restava comunque la possibilità di andare oltre e così vedere la luce che rischiara e indica la strada da seguire. Tutto ciò benché “la maggior parte degli individui ha la sensazione di essere risucchiata dal futuro, o solo generata da esso, sebbene sia evidente la “convinzione di essere vittime di manovre di cui siamo, invece autori e non manchi il dovere di “prendere coscienza del fatto che l’uomo è il solo responsabile del mondo in cui vive”. Allora rimasi esterrefatto, oggi comprendo che Marc voleva dire a me e a tanti che per essere capiti è necessario diventare “stranieri a noi stessi”, cioè abitanti di un altro mondo possibile, senza paura, senza vecchiaia, con più fiducia in sé, con maggiora fiducia nell’altro e pari fiducia nel futuro…

Non so se tra gli umani (maschi e femmine poco importa) che oggi corrono in lungo e in largo cercando consensi, vi sia qualche innamorato del pensiero di Augé, di sicuro so che tanti sono immersi in “non luoghi” di cui si credono padroni assoluti. Costoro non hanno tempo da perdere e sicuramente evitano accuratamente di leggere qualunque cosa minaccia di turbare il loro allegro e spensierato tran tran. Infatti, impegnati come sono a correre incontro al successo, evitano bellamente di fermarsi a meditare sul fatto che “non si può correre se si vuol ascoltare e attendere qualcuno” – uno dei loro cittadini, per esempio -. In più, avendo sorvolato sul dovere di ascoltare, si ostinano a non dar retta al saggio che grida “attenti, se non ascoltiamo e se non attendiamo, siamo condannati al fallimento”. Il più vecchio abitante della montagna, mandriano pastore analfabeta, per inculcare il valore dell’ascolto e dell’attesa raccomandava di leggere, leggere e ancora leggere quel che semplici e sapienti avevano già scritto. “Se io sapessi leggere – diceva – rimarrei sui libri tutta la notte”. Povero montanaro! Dava per scontato che “saper leggere era una fonte straordinaria di sapere”, però non voleva ammettere che se anche “tutti sanno leggere, nessuno è più saggio di ieri”. Anche per questo “lor signori” fanno una cosa e subito dopo ne fanno un’altra che la cancella. Di questo passo, piaccia o dispiaccia, loro ma non solo loro, saranno seppelliti da una sonora risata.

Non so perché, ma adesso volentieri ricordo la poesia struggente e magnifica scritta da un ospite dell’Ospedale in cui venivano ricoverati, curati e quasi mai guariti i matti: raccomandava di “non calpestare le aiuole” in cui il seme cercava il calore necessario per assicurargli “attimi di vita e respiri di eternità”; supplicava di “guardare le aiuole senza calpestarle”, perché dentro “ciascuna aiuola una vita si prepara a sbocciare”; sollecitava “una preghiera soffice e lieve come una goccia di rugiada, capace di far nascere dalla terra scura un fiore bianco immacolato”. Ecco, a chicomanda e governa, auguro di aver sempre a portata di mano un’aiuola da coltivare e mai da calpestare… Che con l’aggiunta di un libro da leggere o rileggere potrebbe stabilire la differenza tra l’essere abitante di un “non luogoe sentirsi invece cittadino vero di un luogo vero…

Qualche anno fa gli intellettuali che volevano mostrare al mondo il loro intellettualismo non dicevano “ho letto” questo o quel libro giornale articolo, bensì “ho riletto” facendo con ciò intendere che a differenza dei comuni mortali loro già sapevano e, quindi, erano già ben dentro l’esercizio critico-criticissimo, possibile soltanto incominciando, appunto, dalla rilettura. Adesso non è più di moda neppure l’affidarsi alla rilettura per fare la differenza. Basta vociare (il termine comprende l’universo tecnologico che consente di essere qui ma anche altrove, dentro e fuori dalle idee fondanti e dunque importanti, ignoranti di ritorno e purtroppo consolidati, tuttologhi e nullologhi al medesimo tempo, villani e maleducati, presuntuosi e testardi senza neanche sapere che cosa voglia dire essere questo oppure quello) senza limiti e senza ritegno per trovare qualcuno disposto a concedere consenso e partecipazione all’esercizio intrapreso.

Ho allora provato a mettermi per un attimo dentro lo spirito di taluni moderni vocianti: uno diceva “guardate come siamo bravi”, un altro aggiungeva “nessuno come noi farà…”, un altro ancora, arzigogolando su sul sesso degli angeli (antica forma per dire che il peggio è indefinibile e che dunque non v’è rimedio), buttava lì un “se c’ero io le cose…”. Ne sono uscito malconcio, sfinito, incaopace di profferire un pensiero degno di tale nome. Nello sconforto, per altro temperato da quel senso dell’umorismo che senza soluzione di continuità tutto strapazza e tutto esalta, ho trovato conforto andando a leggere e poi a rileggere quel che lo storico Arriano racchiuse nel suo “Enchiridion” (una bazzecola, credetemi, di cui però sarebbe il caso di prendere almeno visione), soprattutto laddove chiede “che cosa ti darò di meno vano/ delle cose che stanno in una mano?”, per poi rispondere, tra l’altro e con sorprendente umorismo, “un minuscolo libro, un manuale”, cioè due strumenti – libro e manuale –  che purtroppo sono sul punto di esalare se non l’ultimo di sicuro il penultimo respiro.

Così, complice il mese vacanziero che s’annunciava imperioso e assai poco serioso, ieri sera, nella consueta piazza estiva, mentre la band scimmiottava le cantate nazional-popolari, ho contato ottantadue telefonini in funzione, ventisette operazioni di selfie, quarantadue di trasmissione messaggi sms whatsapp, centosedici visualizzazioni, altrettante condivisioni, innumerevoli risolini che sottolineavano il grado ludico spensierato vagheggiante satirico onirico e vaffa-dove-ti-pare andare in essi contenuto.

Di fonte a tanto scibile, tre signore che cercavano frescura, ovviamente non addentro le segrete combinazioni tecnologiche in uso e abuso della folla, hanno concordemente esclamato: “Ma dove stiamo andando!”. Un ragazzotto palestrato, che non era certo in vena di elargire carinerie a stagionate, seppur amabili signore, fingendo di sussurrare lieve e pensoso alla luna, ha messo lì la sua risposta raccomandando alle contestatrici della piazza di “andare a casa a fare la calza”, che tradotto significava “per favore, non rompete”. Lo stesso ragazzotto, vedendomi stranito e forse anche disgustato dal modo in cui le terze età venivano trattate, mi ha consigliato, nel caso avessi qualcosa da dire, di “andare a ramengo”, che tradotto significava “fatti gli affari tuoi”. Ben detto, mi son detto. Però, che modi. A quel punto si scatenò un temporale di quelli buoni, che mezzo sarebbe bastato a mettere in riga palestrati e sfitinzie. Fu allora che le tre signore si presero la rivincita: con grazia e sicurezza, infatti, aprirono i loro ombrelli, si coprirono il collo con la sciarpa di tulle che tenevano in borsetta, diedero un’occhiata al palestrato (che a quel punto sembrava un pulcino inzuppato) e gli dissero bellamente “noi andiamo a casa a fare la calza, nel frattempo tu fatti una doccia”.

Quel modo di concludere la serata non era certo essenza e celebrazione della cultura. Però, era una lezione di vita e di stile.Insomma, diceva chiaramente che certi individui meritano di stare in un luogo chiamato “non luogo” e non in una piazza, che non a caso è e deve restare l’agorà, cioè il luogo dell’incontro e del confronto. Poi, prese corpo il dubbio inerente il diritto di giudicare quelle e altre scelte… Dunque, son qui a chiedermi insieme al filosofo del “ragionare”: quale è il potere della cultura? che cosa può la cultura in tempi così burrascosi? Inevitabile, purtroppo, la risposta: “Niente”.

LUCIANO COSTA

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