Che domenica, questa domenica! Dice a tutti (ma la sua voce sarà ascoltata solo da chi ha orecchie per intendere e cuore aperto e disposto a far posto a qualcuno che soffre e spera di trovare comprensione) che è la giornata internazionale dei diritti dell’infanzia e che proporla all’attenzione non è l’occasione per sottolineare il rispetto dei diritti dovuti all’infanzia, ma il suo contrario, vale a dire il pressoché sistematico calpestio di questi diritti. Eppure, come è scritto nella Convenzione dei diritti dell’infanzia (è stata approvata il 20 novembre 1989 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite e poi gradualmente sottoscritta da tutte le Nazioni del mondo – gli Usa l’hanno sottoscritta nel 1995 ma ancora adesso non l’hanno ratificata, cioè accettata come legge da applicare -, ma anche disattesa in più parti da tante, troppe, Nazioni) ogni bambino ha il diritto di crescere sano e in condizioni di sicurezza, di sfruttare il suo potenziale, di essere ascoltato e preso sul serio. Per sancire questo diritto la Convenzione comprende 54 articoli che poggiano su quattro punti fondamentali: il diritto alla parità di trattamento (nessun bambino deve essere discriminato a causa del sesso, dell’origine, della cittadinanza, della lingua, della religione, del colore della pelle, di una disabilità o delle sue opinioni politiche); il diritto alla salvaguardia del benessere (quando occorre prendere decisioni che possono avere ripercussioni sull’infanzia, il benessere dei bambini è prioritario e ciò vale in seno a una famiglia tanto quanto a livello statale); il diritto alla vita e allo sviluppo (ogni bambino deve avere accesso all’assistenza medica, poter andare a scuola, ed essere protetto da abusi e sfruttamento); il diritto all’ascolto e alla partecipazione (tutti i bambini, in quanto persone a pieno titolo, devono essere presi sul serio e rispettati e questo significa anche informarli in modo conforme alla loro età e coinvolgerli nelle decisioni). Dentro questi quattro fondamentali principi c’è (ci sarebbe) tutto quel che serve per non dover contare ogni anno il numero di bambini senza diritti, per esempio quelli che a ciascuno assegna un nome, una famiglia e una nazionalità (articolo 7), protezione in caso di esilio o guerra (articolo 22), istruzione adeguata (articoli 28 e 29), possibilità di giocare (articolo 31) e di essere tutelati da tutte le forme di sfruttamento e di abuso (articolo 19). In parole semplici: tutti i bambini del mondo hanno il diritto di giocare e divertirsi, hanno diritto al cibo, alla salute, all’educazione, alla vita, alla nazionalità e all’uguaglianza, magari anche a non essere considerati poveri. Invece, non so bene nel mondo, ma qui in Italia su 9 milioni e 400mila minori, circa un milione e 300mila vivono in condizione di povertà assoluta (se interessa il dato è aumentato di un milione in circa 12 anni). Inoltre, se a questo si aggiungono i 2 milioni e 300mila bimbi che vivono in povertà relativa, è evidente che un terzo della popolazione infantile è in situazione di precarietà. Certo, in Africa, e non solo da quelle parti, magari è peggio. Ma, vivaddio, non è invertendo l’ordine dei fattori (paesi, nazioni, continenti) che si cambia la sostanza del prodotto (poveri, povertà, miseria). Per cambiare e così impedire a chicchessia di inventare ogni volta una giornata per mettere in evidenza i diritti negati (oggi ai bambini, domani agli anziani, post-domani ai migranti e via elencando fino ad occupare l’intero calendario) basterebbe assicurare cittadinanza alla Pace, che non è soltanto e semplicemente assenza di guerra, ma sacrosanta affermazione di giustizia per tutti…
Ecco, la Pace: grande parola, grande affermazione, grande sogno. Ma guai, scrisse Paolo VI nel messaggio per la Giornata della Pace del 1974, a confonderla “con la debolezza, non solo fisica, ma morale, con la rinuncia al vero diritto e alla equa giustizia, con la fuga dal rischio e dal sacrificio, con la rassegnazione pavida e succube all’altrui prepotenza, e perciò acquiescente alla propria schiavitù. Non è questa la Pace autentica. La repressione non è la Pace. L’ignavia non è la Pace. L’assetto puramente esteriore e imposto dalla paura non è la Pace… la Pace vera deve essere fondata sul senso dell’intangibile dignità della persona umana, dalla quale scaturiscono inviolabili diritti e rispettivi doveri. È pur vero – aggiungeva quel Papa – che la Pace accetterà di obbedire alla legge giusta e all’autorità legittima, ma non sarà mai aliena dalla ragione del bene comune e dalla morale libertà umana. La Pace potrà arrivare anche a gravi rinunce, nella gara del prestigio, nella corsa agli armamenti, nell’oblio delle offese, nella remissione dei debiti; arriverà perfino alla generosità del perdono e della riconciliazione; ma non mai per servile mercato dell’umana dignità, non mai per tutela del proprio egoistico interesse a danno dell’altrui legittimo interesse; non mai per viltà; essa non sarà mai senza la fame e la sete della giustizia; non dimenticherà mai la fatica che occorre spendere per difendere i deboli, per soccorrere i poveri, per promuovere la causa degli umili; essa non tradirà mai per vivere le ragioni superiori della vita”. Ognuno può evidentemente applicare il discorso alle cose e alle realtà che più gli stanno a cuore senza però dimenticare che la sua radice sta nel concetto di Pace come diritto di tutti a possedere la terra e ad avere dalla madre terra il necessario per vivere e far vivere. Allora, in questa domenica che somma tanti eventi, mi chiedo e vi chiedo: queste sono parole scritte ieri o appena quarantotto anni fa? Sono state scritte appena quarantotto anni fa, ma valgono oggi quanto valevano ieri.
Poi, in questa domenica, c’è altro: un tanto di effimero che però gode di tale notorietà ed è così circondato da interessi da indurre chiunque a metterlo in conto per i prossimi trenta giorni, Questo effimero strombazzato dai media e dai medesimi esaltato come se fosse quanto di meglio esiste al mercato delle idee, si chiama Campionato Mondiale di Calcio e lo si gioca da oggi e per i prossimi trenta giorni in Qatar (piccola Nazione, ma spropositatamente ricca), la cui partita inaugurale si disputerà in uno di quegli stadi costruiti da operai arrivati da Pakistan, Bangladesh, India e trattati come schiavi, dove secondo una ricerca del quotidiano inglese “The Guardian” almeno 6.500 di loro hanno perso la vita. E sarà uno spettacolo offerto da una Nazione dove diritti civili e umani vengono quotidianamente calpestati e che, secondo un terrificante principio di “sportwashing” (tradotto significa “ripulirsi la coscienza col pallone”) cercherà di ripulire la propria immagine grazie al pallone e a un silenzio omertoso e connivente. Però, da quando i potenti del calcio decisero di assegnare proprio al Qatar il Mondiale, abbiamo avuto a disposizione ben dodici anni per dire “no” e li abbiamo sprecati senza profferire parola, salvo accorgersi ieri che “c’era del marcio in Qatar”.
Ho poco interesse per il calcio. Quindi il mondiale che si gioca in suo nome mi scivola addosso e se ne va. Mi resta comunque addosso il disgusto di vederlo scintillare, messo al centro di ogni possibile attenzione, usato per nascondere o anche solo offuscare quel che di gramo e grave continua ad accadere nel mondo. Chiedo venia agli amici che amano il calcio, ma un calcio a questo effimero semplicemente ricco e ornato di lustrini e merletti, ci sta e va proprio dato. Soprattutto perché ci sono altre cose da sperare. Per esempio, come ieri ha spiegato Andrea Monda “la salute dei nostri cari e nostra, la Pace in questo mondo dilaniato da guerre (cose talmente vicine che non possiamo fingere ancora di non vederle), magari un lavoro che nobiliti e permetta di mantenerci, una sorpresa – d’amore o d’amicizia -, la nascita di un bimbo”. Tutti segni di ciò che speriamo e che non vediamo. Di sicuro “vediamo il male, che dilaga e eternamente erode il cuore, con il dolore, la malvagità, il tradimento, la menzogna, la violenza, la malattia, la solitudine, la persecuzione, l’irrisione di tutto ciò che abbiamo di bello e caro in questo mondo; ma non vediamo il bene, il bello, il vero” cose che non vediamo, ma che ci sono, che non vediamo, ma che “splenderanno, se sapremo vederle”. Però, come diceva sant’Agostino, “noi vediamo qualcosa per giungere a credere in qualcos’altro e da ciò che vedi puoi credere a ciò che non vedi”. Ciò non toglie che mi possa dedicare “alla ricerca del tempo perduto”, alla maniera di Marcel Proust, cioè costruendo, come sostiene Piperno “un castello di fogli e ritagli testuali fra loro assemblati, talora a fisarmonica, un po’ come accade con i disegni e collage di certi bambini, un vero dedalo di carta…”. Tal quale a quello che mi ostino a chiamare “il domenicale”.
Però, che domenica questa domenica!
LUCIANO COSTA