Parlare e ascoltare: per spiegare e spiegarsi ed essere nel contempo edotti e illuminati; per dare senso ai pensieri pensati e metterli a confronto con altri pensieri pensati; per in formare ed essere informati… Il tutto con linguaggio comprensibile, adatto all’altro, quello con cui condividi tempo e ragionamenti. Ma, ahimè, soprattutto adesso, non v’è linguaggio comprensibile se è incomprensibile-storto-distorto-approssimativo e flebile il pensiero che lo genera. E non c’è comunicazione – alta-bassa-media-scritta-parlata-urlata o suggerita, a piacimento – che possa modificare simile andazzo, che metta una pezza al vuoto generato dal disimpegno e dalla voluta ignoranza. Però, nessuno dei viventi è destinato a essere sempiternamente ignorante, cioè volutamente ignorante; semmai, tale resta soltanto se sistematicamente vuole esserlo (e si sa che questo accade spesso e volentieri) o se chi gli sta intorno, chiunque esso sia e quale sia il ruolo che gli compete nella società, nulla fa per sollevarlo da quell’amara condizione. Parlare usando un linguaggio comprensibile dovrebbe essere normale… Invece, tutto procede all’incontrario: si dice bianco ma si intende nero, si dice sì volendo significare no, di modo che non vi sia “cosa certa né sicura…”.
Così, per quanto scrittori, giuristi, artisti si siano sforzati nel corso dei secoli di fare del linguaggio una delle creazioni più evolute e sofisticate dell’uomo, si continua in generale a usarlo con sciatteria, immiserendolo a qualche centinaio di vocaboli, quando invece le possibilità di parole a disposizione sono migliaia. Sembra assurdo, soprattutto in un tempo completato e complicato da innumerevoli marchingegni pensati per mettere in tasca il sapere a chicchessia, ma alla base di molte “divisioni” tra persone, coppie, parti di società, popoli c’è la sostanziale miseria di una comunicazione linguistica non sufficientemente attenta, una mancanza di fantasia nel cercare espressioni linguistiche, in definitiva, parole accurate e in sintonia con la sensibilità di chi ci ascolta, che sia una persona, una parte sociale, una nazione”.
Esistono, è vero, “filosofie del linguaggio raffinate che a diverso titolo indagano le relazioni tra linguaggio, pensiero e realtà, ma purtroppo questa sensibilità resta confinata nell’ambito dei riservati ambienti degli specialisti”. Io, che non sono specialista, dico che parlare e ascoltare è ciò che serve. Tutto il resto è invenzione, retorica, artifizio e chiacchiericcio, tal quale a quello esibito con ossessionante cadenza da conduttori senza costrutto (televisivi, radiofonici, di talk-show, di palcoscenico o di piazza, fate voi), da esperti vanitosi ma assai poco dignitosi e da troppi occasionali interpreti di qualcosa di cui non conoscono origine, fine e senso… Vale a dire: cercano le ragioni e il nome della rosa quando è risaputo che “sta la rosa primigenia tutta nel suo nome e noi di essa solo il nome possediamo”. Come ha lasciato intendere l’autore de il nome della rosa (Umberto Eco, sempre se interessa) “i nomi, il linguaggio, il modo in cui chiamiamo i diversi aspetti della realtà sono l’unica cosa veramente umana ed è, dunque, l’unica cosa che veramente è nostra”. Poco importa se nell’attuale tsunami del chiacchiericcio politico collettivo e nelle troppe parole ripetute senza costrutto questa cosa importante e rara si perde o resta in disparte, se da tanti se non proprio da tutti essa viene collocata altrove, ciò che conta davvero è che ne resti traccia. Forse sarebbe bene cercare nel silenzio interiore il significato vivo, palpitante delle parole scelte, sia che vogliano esprimere un sentimento, sia che rappresentino un’idea, oppure vogliano significare una realtà vissuta, perché “le parole hanno una forza trascinante” ed è dunque necessario essere creativi e coraggiosi nello sceglierle.
Per esempio, che cosa ci stanno a fare parole come verità e menzogna nel vocabolario guerresco attualmente in uso in una parte d’Europa che sembra improvvisamente andata in frantumi sotto il peso della protervia di un piccolo insignificante zar senza corona e senza ragione? Verità e menzogna sono parti di un tutto, ma solo la prima è veramente degna di stare in quel tutto che troppi umani vorrebbero accomodare a piacimento. Se per caso, come è capitato a me, state provando a districarvi sul senso da attribuire a verità e menzogna, fate un salto all’indietro di almeno quattrocento anni. Nel caso vi riuscisse di farlo, cercate nel sempre prezioso e perciò assai citato “Oracolo manuale”, scritto da Baltasar Graciàn attorno all’anno 1640, la terza appendice, dedicata a “verità e menzogna” e leggetela, rileggetela e comunicatela…
Dice: “La verità era sposa legittima dell’intelletto; ma la menzogna, sua grande rivale, si mise all’opera per scacciarla via dal suo talamo e buttarla giù dal trono. Quali inganni non inventò per raggiungere lo scopo, e quali soperchierie non escogitò! Cominciò a discreditarla, tacciandola di grossolana, malacconcia, insipida e sciocca: al contrario spacciava se stessa per garbata, accorta, bene in assetto e piacevole; e sebbene fosse brutta per natura, cercò di nascondere i difetti col liscio. Si valse per mezzano del gusto, cosicché, in poco tempo, tanto si dette da fare, che governò a modo suo il re delle potenze. La Verità, vedendosi dispregiata e anche perseguitata, si rifugiò presso l’Acutezza: le comunicò il suo travaglio e invocò il suo aiuto. “E’ vero, amica – disse l’Acutezza – non vi è cibo più insipido in questi tempi corrotti, che il cavar gli altri bruscamente dall’inganno; ma che dico insipido? Non v’è bocca più amara di una verità nuda e cruda. La luce che ferisce direttamente dà tormento agli occhi dell’aquila e di una lince, ed anche più a coloro che li hanno deboli. Perciò i sagaci medici dell’animo inventarono l’arte d’indorare la verità, d’inzuccherare i disinganni. Voglio dire che facciate della politica; che restiate sulla stessa via del disinganno: mascheratevi con gli stessi ornamenti; e con ciò, vi do sicurezza del rimedio, e anche della vittoria. Aprì gli occhi la Verità. D’allora in poi incominciò ad andare attorno insieme con l’artificio…”. C’è altro, che potete ovviamente leggere se e come il libro di Baltasar Graciàn diventasse oggetto della vostra ricerca. Qui aggiungo soltanto quel che il saggio comunica all’amico dicendo: “Tu devi sapere, o Andremio, che quando gli uomini scacciarono dal mondo la Verità e posero sul suo trono la Menzogna, il Supremo parlamento deliberò d’introdurla di bel nuovo nel mondo, a richiesta degli stessi uomini, i quali non sapevano vivere senza di lei…”.
Se non fosse vecchia di quattrocento anni, direi che la lezione è roba di ieri e di oggi. In fondo, basta mettere al posto giusto le parole. Ed ecco che quel che era stato diventa cronaca di un adesso (anche di un Domenicale) in cui siamo immersi, consapevoli o ignari dipende solo da noi, dal nostro modo di parlare e ascoltare, di vedere e giudicare, di stare in mezzo ai problemi piuttosto che affacciati alla finestra per vederli scorrere e andarsene chissà dove… Anche per ribadire che la pace è possibile: basta volerla, basta invocarla, basta agire per farle strada e darle accoglienza.
E il resto verrà di conseguenza.
LUCIANO COSTA