Il Domenicale

Domande, parole, libri, fantasie che dir si voglia…

Domanda banale: quanto ha speso l’Inghilterra per incoronare il suo re? Domanda ancor più banale: quanto stanno spendendo Napoli e i napoletani per festeggiare lo scudetto? Domanda banalissima: quanto costa la guerra in Ucraina? Domanda superflua: chi manovra gli arrivi dei mille e mille migranti in cerca, qui o altrove non importa, di una spiaggia che li accolga?Domanda velenosa: chi paga gli esperti dell’abbinamento colore di cui si serve la (forse) comunista Elly Schlein per apparir più gradevole e bella di quanto già non sia e il parrucchiere pronto prontissimo all’uso a cui son affidate capelli, ciocche nonché la treccia morbida della (forse) fascista Giorgia Meloni? Domandaimpresentabile: chi è fascista, chi è comunista, chi è democristiano, chi è popolare e democratico qui e adesso, oggi ma anche domani? Domanda senza risposta: chi e come inventa balle (bugie, frottole, panzane, fandonie, bombe, bubbole…) in nome e per conto del potente di turno? Domanda interessata: quanto rendesparare notizie false e tendenziose? Domanda proibita: chi e come s’arricchisce sbertucciando o lodando le teste coronate, osannando i pedestri a cui Eupalla ha regalato niente meno che lo scudetto, fomentando e aizzando le guerre, contando ogni giorno il numero di barchini e barconi che arrivano, esaltando i curatori di beltà delle signore della politica, insistendo su valore o disvalore di fascio, falce-martello, scudocrociato, popolare o democratico, propinando di tutto ma mai verità, facendo cassetta con bugie e rock ‘n roll? Domanda ultima: ma perché non ti fai gli affari tuoi?

Mi avvalgo subito della facoltà di non rispondere, poi mi rifugio nell’oscurità regnante e, con Schelling (lui stesso oscuro e non poco) dico che “la distanza che uno prende dall’intelligibile si è quasi trasformata nella misura del suo valore”, con Heine affermo che i filosofi (oltre tutto) si lamentano di non essere capiti, con Hegel (che per Schopenhauer, certo neppure lui chiarissimo, eral’essenza di una pagliacciata filosofica, un guazzabuglio ripugnante, un oscuro concatenamento di nonsensi e farneticazioniche ricorda spesso il delirio degli squilibrati…”) ripeto che “c’è stato uno che mi ha capito e neppure lui mi aveva capito” (secondo Marx, proprio lui, il padre dei comunisti, il pensiero riveduto e corretto diceva “c’è stato uno che mi ha capito, ma sono stato io a non capire lui”). Personalmente, col saggio Bortolo insisto però a pensare che una via di mezzo deve pur esserci, che non basta accorgersi di un corvo nero per dire che tutti i corvi sono neri, che è possibile aver osservato un gran numero di cigni definendoli tutti bianchi pur sapendo che esistono anche cigni neri, che si può rispondere a qualsiasi domanda se a sorreggere i pensieri chiamati a comporla sono pensati-sensati-meditati-importanti e mai semplicemente infarciti da insulsa ignoranza.Ovviamente, guai a “lasciare che il rumore delle opinioni altrui offuschi la nostra voce interiore” e vero peccato “non avere il coraggio di seguire il nostro cuore e la nostra intuizione”. Nel caso però fosse dato spazio al coraggio, allora converrà salire un’altra volta sul gran teatro del mondo per incominciare a essere protagonisti del nuovo che avanza e che chiede di non arrendersi all’ovvietà. Basta poco: grani di saggezza e manciate di coraggio. Infatti, la saggezza illumina anche gli stolti e il coraggio, come ben disse Churchill, “incute rispetto anche ai nemici”. In più, aggiunge l’Anonimo,il coraggio è quello che serve per alzarsi e parlare, ma anche per sedersi e ascoltare”.

Ma, dico io, se parlare e ascoltare sono parte di un tutto inscindibile, perché mai, almeno per i politici, è così difficile parlare per essere ascoltati (il che significa pronunciare parole piene di senso e di autorevolezza) e ascoltare per comprendere il vero significato delle parole pronunciate (il che presuppone una notevole dose di pazienza e di intelligenza, doti rare ma sempre benvenute), magari sottraendole alla logica della convenienza?Qualche tempo fa, su “L’Osservatore Romano”, a proposito di Italia sparsa e incapace di vedere la luce, ho letto che è “colpa del pensiero, che ha piegato i diritti e la tecnica a una sorte avversa: da carburante della democrazia ne ha fatto fucili puntati contro di essa”, usando pallottole speciali come “la retorica politica e le pretese dei singoli e dei gruppi di una comunità divisa”, con “le parole che vanno dalla politica alla piazza, e dalla piazza alla politica, e che si trasformano in pietra d’inciampo sul cammino del riformismo”. Così, “dove cadono i progetti di respiro, si frantuma una visione nazionale, si perde di vista l’Europa, e la fascinazione della democrazia diretta e del populismo resta una minaccia incombente che rimbalza tra i talk show e le urne”.

Da qui, ma non solo da qui, nascono e si rafforzano le parole dell’odio, del razzismo, dell’incomprensione… Per cambiare c’è però bisogno di parole scambiate tra noi con fare lieve, leggere come piume e carezze, buone per la lettura, degne d’essere comunicate e proposte alla meditazione. Invece, le parole usate non sempre sono lievi e buone per stabilire contatti ed eliminare distanze. Hanno, piuttosto, sempre duplice valenza. Sono cioè buone se pensate, ma cattive se gettate in piazza senza ritegno. In ogni caso, non esistono parole inutili e, volendo, tutte servono a imbastire discorsi e a dare senso compiuto alla comunicazione. Certo, sono diverse una dall’altra le parole e ci sono diversi modi per profferire parole. Ma c’è un unico ripostiglio sicuro in cui collocare le parole evitando che siano sciupate o mandate al macero: il libro.

Però, mi chiedo: quanti libri passano sul comodino di un operaio incazzato per la sua condizione di sottopagato, di un docente di scuola (elementare, media, superiore, universitaria, quale che sia)che del suo sapere è fiero ma certo un po’ meno del valore dato al suo sapere, di una casalinga che litiga con i soldi della spesa, di un’impiegata trattata come fosse nullità, di un tifoso di curva piuttosto che di tribuna, di un allenatore di grido, di un calciatore-corridore-cestista-pallavolista-golfista-nuotatore-velista di larga fama e di alto prezzo, di un aspirante giornalista che i suoi scritti se li vede pagati un tanto a riga e mai pesando ai tempi e alle fatiche consumate? I libri, beato chi li legge! Però, per dirla con la statistica, noi bravi italiani, come lettori facciamo pena! Infatti, preferiamo gli ultimi posti della classifica e non i primi. Certo, i libri non daranno tutte le risposte, né le soluzioni utili ad evitare la violenza verbale che aleggia, ma possono sicuramente fornire alternative utili e praticabili. Ovviamente, se letti!

Nella città capoluogo della provincia in cui abito i candidati alla poltrona di sindaco (voto previsto domenica prossima) sono impegnati a spiegare tutto e il contrario di tutto, a dare sproporzionato e pretestuoso spazio alle promesse, a mettere in vista l’immaginifico piuttosto che il reale, a sprecare parole che li facciano apparire migliori di quel che sono, a tirarsi torte in facciaimmaginando così di essere dolciastri piuttosto che insudiciati da quel miscuglio di uova farina e varie diavolerie. Nessuno di loro, sebbene sollecitato, ha dato spazio ai libri letti o comunque tenuti in bellavista sul proprio comodino. Però, hanno tutti parlato di cultura e attività culturali, che in caso di vittoria saranno finalmente valorizzate… Resto sospettoso. L’impressione (personale) è che i quattro aspiranti alla poltrona di sindaco (della mia città, delle altre città e dei paesipaesini in cui si vota) non abbiano chiaro in testa il significato di cultura, almeno di quella che evidenzia il patrimonio delle cognizioni e delle esperienze o il complesso delle manifestazioni della vita materiale, sociale e spirituale di un popolo… Di sicuro sono infarinati da tante nozioni tutte buone, ma nessuna determinante -, anche ricchi di risorse materiali, ma poveri di parole pensate per stabilire ciò che serve veramente alla città dell’uomo.

Appena ieri il candidato con meno probabilità di successo mi ha detto che il successo elettorale, di questi tempi, dipende solo dai soldi a disposizione. “Tanti soldi – mi ha spiegato – significano tanti spazi pubblicitari, tante pagine sui giornali, tante apparizioni in televisione e tanti ascolti radio, tanti manifesti, tante ceneaccalappia voti, tante possibilità di apparire su autobus, treni, corriere e fianchi di strade e montagne…; pochi soldi significano l’esatto contrario, con l’unica variante del potere derivante dalle idee, che se rivoluzionarie otterranno dieci righe, se normali cinque e solo una o nessuna se farina del gran sacco elettorale…”.

Nei ruggenti anni sessanta una Betty smagliante gridava soldi, soldi, soldi perché chi ha tanti soldi vive come un pascià e a piedi caldi se ne sta… prendi, spandi e spendi, non domandare da dove provengono”; oggi chi so io invoca soldi per vincere le elezioni, una corsa, uno scudetto, un titolo, un primo posto… Uno Zero non qualsiasi, cantando alla sua maniera, un giorno già lontano disse: “Avere tanti soldi che noia. / Più ne hai più ne vuoi. / Ma poi / con troppi soldi cosa ci fai, / se con chi spenderli non sai. / Poveri in canna ma felici noi…”.

Consegue la domanda più usata, consolidata e melensa: quanto costa la felicità? Non aspettatevi una risposta univoca, forte e chiara. Personalmente, non avendo mai scritto una riga sulla felici, non saprei che pesci pigliare. Ovviamente, riconosco che questa non è una scusa molto buona “visto che gli amici mi dicono che la mia ignoranza non mi ha mai impedito di scrivere su altri temi”. In ogni caso, cosa sia la felicità scopritelo da soli. Tutto chiaro? Se la risposta è affermativa sarà il caso, filosoficamente, di renderla un po’ più oscura. Infatti “se un concetto sembra difficile da comprendere, risulterà più profondo agli occhi della gente e conferirà più autorità al pensatore…”. Linguaggio da ruffiani direbbe Walter Benjamin; linguaggio corrente dicono invece i massmediologi adibiti ed esibiti come esperti al seguito di ogni cosa si muove in frivolezza assoluta.

Sveglia, amici! Il tempo non aspetta tempo, le domande incombono, lappuntamento elettorale s’avvicina, i libri restanoappollaiati su un piedistallo di cristallo mentre sul ponte sventolainesorabile, come ieri, la bianca bandiera. Per favore, svegliate il vostro compagno di banco… “Ma lo svegli lei, visto che proprio lei l’ha fatto addormentare”. Alzi un dito chi l’ha detto o solo pensato. Ma, vivaddio, non avete compreso che l’unico modo per distinguere le frasi scherzose dalle non scherzose è e resta quello legato alla teoria del barone Munchhausen? Ma sì, proprio quella che per uscire incolumi dalle sabbie mobili consiglia di tirarsivicendevolmente per i capelli. Sono perplesso. E quando rimango perplesso, non so più che cosa dire o scrivere.

LUCIANO COSTA

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