Per caso, proprio stanotte, sul palco più palco che si possa immaginare – quello di Sanremo, che diamine! –, con grande e generale goduria è sfilata l’Italia allegra, fedele, devota, spensierata, elegante, sfrontata e politicamente corretta, l’Italia che canta, che cantando scorda i guai e i contrasti e che con sottile disincanto, in nome della musa protettrice, dimostra come le voci, i volti, i gesti, i corpi, le mani e i piedi, qualunque sia il colore che li contraddistingue, sono parte dello spettacolo, forse non il più bello del mondo, ma sicuramente tra i pochi capaci di interpretare la più grande lezione che ci sia: quella che sul palco e nella vita, senza distinzioni di colore e fede, fa posto a tutti. Perché di tutti è la gioia di vivere, perché a tutti è permesso di gridare che la vita è bella (già detto e gridato, ma vale sempre la pena di ripeterlo), di più se vissuta insieme, ancor meglio se sorda ai predicatori di sventura e ai venditori di fumo, straordinaria se libera di cantare in pace la canzone della libertà… Come quella che senza essere una canzone ma solo una lettera, stamattina alle due e trenta minuti è venuta a dirci che la bellezza delle canzoni si ferma dove incomincia l’orrenda rappresentazione della guerra. Perché, c’e scritto nella lettera inviata da Volodymyr Zelenskyy (presidente dell’Ucraina, nazione invasa e orrendamente mutilata dalla guerra voluta dal folle Putin di Russia) al festival di Sanremo (letta daAmadeus, presentatore di turno, dopo che per pusillanimità e calcolo politico era stata cancellata la possibilità di vedere il firmatario e di ascoltare dalla sua viva voce parole e pensieri) “…Vincono la cultura e l’arte… la musica vince… e questa è una delle migliori creazioni della civiltà umana…”. Ma poi “sfortunatamente, per tutto il tempo della sua esistenza, l’umanità crea non solo cose belle. E purtroppo oggi nel mio paese si sentono spari ed esplosioni. Ma l’Ucraina sicuramente vincerà questa guerra. Vincerà insieme al mondo libero. Vincerà grazie alla voce della libertà, della democrazia e, certamente, della cultura… E sono sicuro che un giorno ascolteremo tutti insieme la nostra canzone di vittoria!”.
Ben prima che Sanremo diventasse il pane quotidiano preferito dai cultori del nulla o del quasi nulla, Alfonso Berardinelli certificò l’esistenza di un luogo comune secondo cui “spirito comunitario e autonomia individuale si oppongono”. Infatti, spiegava “l’individualismo è sinonimo di egoismo, mentre lo spirito comunitario è stile di vita” che, se non mi sbaglio e sia vero quel che bene o male ho fin qui imparato, si concretizza nell’essere gli uni per gli altri, nel vivere perché l’altro sia io e io l’altro, nel garantire libertà a chiunque, nel tradurre in pratica il sublime comandamento (tramandato a noi da Martin Luther King) che dicendo “la mia libertà finisce dove incomincia la vostra…”impedisce di compiere anche un solo passo capace di calpestare e offendere l’altrui dignità… Del resto, afferma Berardinelli “una comunità che minacci la libertà individuale, è oppressiva, genera e incoraggia un conformismo che impoverisce e inaridisce la stessa vita sociale…”. E adesso in Ucraina (ma anche altrove, ovunque il rumore delle bombe impedisca di sentire il canto della pace) si staimpoverendo e inaridendo l’essenza stessa del vivere sociale…Per impedire questo sfacelo servirebbe, sempre adesso, far posto alle ragioni che si cibano di rispetto, che rifiutano la guerra e cercando la pace, che diffidano e negano un potere che non sia servizio, che amano la libertà, che invitano a non temere la libertà, perché è la libertà che rende liberi…
Invece, resiste il contrario e vince l’io che invita e induce a star bene da soli sebbene sia evidente che insieme è meglio. Leggo che “l’io sociale va formato, educato con la persuasione, che libertà, verità e socialità non devono dissociarsi”; sento dire che “l’insensibilità nei confronti degli altri, l’incapacità di vederli, sta diventando sempre più un contagio dannoso… capace di trasformare l’io in una prigione e la società in un inferno di diffidenza, indifferenza e paura reciproca”, che “una passiva conformità a quello che tutti fanno tende a rendere automatica l’adesione ai comportamenti di massa…”, di qualunque tipo essi siano, “senza alcun riguardo all’etica pubblica, alla legalitànecessaria per arginare corruzione, evasione fiscale, truffe, prepotenze, bullismi, omicidi, crimine organizzato, incuria incorreggibile per l’ambiente”, alla lotta contro “l’aggressività che s’annida in troppi social, tutti quelli usati per coltivare e diffondere sentimenti antisociali, cieca maldicenza, odio, minacce di morte in cui si esprimono menti deliranti che sognano crimini, li pubblicizzano, li fingono appagando un velenoso bisogno di distruttività”.
In ogni caso, il problema non sono le leggi, che ci sono già, ma la cultura, “parola di cui – ha scritto Giacomo Canobbio a commento di un precedente domenicale – si fa scempio, perché se si presta attenzione all’etimo, cultura è ciò che fa crescere, non gli schiamazzi o le ciance…” di questo o quel qualcuno. Ma allora e nuovamente: che cos’è e cosa è diventata la cultura? Aggiunge Berardinelli, a cui mi associo, che “prima dello sport, della musica in concerto o negli auricolari, dell’informazione in pillole, devono esserci il vedere, il parlare e riflettere insieme, la civiltà del dialogo, cioè della conversazione riflessiva, il voler capire prima di agire...”. Ma come è possibile che questo sia il vissuto reale se ancora adesso “la cultura artistica e filosofica delle avanguardie del Novecento idoleggia la libertà come trasgressione distruttiva, libera di circolare nelle università di mezzo mondo, retorica di intellettuali dall’io ipertrofico che non hanno mai capito né Dante né Dostoevskij, né Freud né Kafka, perfino se li studiano e li insegnano…?”.
Vivo in Lombardia e son dunque invitato a votare per confermare o dare un volto nuovo (lo confesso: preferisco il secondo e non il primo enunciato) al Governo della regione. Però, è come se vivessi “la notte dei desideri”, forse “…una notte come tutte le altre notti” sebbene desideri essere “…una notte con qualcosa di speciale”. Simile, uguale, medesima a quella cantata da Jovanotti, il menestrello che non vincerà mai un Sanremo sebbene adatto a vincere qualunque altra contesa canora. Dice la sua canzone (intitolata “la notte dei desideri”, e non per caso): “Una musica mi chiama verso sé / come acqua verso il mare. / Vedo un turbinio di gente colorata / che si affolla intorno a un ritmo elementare. /Attraversano la terra desolata / per raggiungere qualcosa di migliore. / Un po’ oltre le miserie dei potenti / e le fredde verità della ragione / un po’ oltre le abitudini correnti. / E la solita battaglia di opinione. / Vedo gli occhi di una donna che mi ama / enon sento più il bisogno di soffrire / ogni cosa è illuminata / ogni cosa è nel suo raggio, in divenire. / Vedo stelle che cadono nella notte dei desideri / è una notte come tutte le altre notti / è una notte che profuma di avventura. / Ho due chiavi per la stessa porta / per aprire al coraggio e la paura. / Vedo un turbinio di gente colorata / che si affolla intorno a un ritmo elementare. /Attraversano la terra desolata / per raggiungere qualcosa di migliore. / Vedo gli occhi di una donna che mi ama. / E non sento più il bisogno di soffrire. / Ogni cosa è illuminata / ogni cosa è nel suo raggio, in divenire. / Vedo stelle che cadono nella notte dei desideri. / È la notte dei desideri… / Vedo Cristoforo Colombo il marinaio. / È arrivato il mio momento per partire. / Cosa pensa il trapezista mentre vola? / Non ci pensa mica a come va a finire… /Vedo i barbari che sfondano il confine / e mi guardano dal vetro dello specchio / e qualcuno che medita la fine / tutto il cielo si riflette nel mio occhio. / Le montagne che dividono i destini / si frantumano, diventano di sabbia / al passaggio di un momento di splendore / si spalanca la porta della gabbia… / Vedo gli occhi di una donna che io amo / e non sento più il bisogno di soffrire. / Ogni cosa è illuminata… / Vedo stelle che cadono nella notte dei desideri… / È la notte dei desideri …”.
Nonostante questo modo di immaginare “la notte dei desideri”,questa nuova giornata elettorale assomiglia a quella caramella che nel cuore ha un allegro e fino pizzicorino, lungo solo un respiro e, quindi, mai del tutto appagante. Stando così le cose, se sei fortunato vedi un manifesto (merce rarissima di questa stagione) che declama le potenzialità illusorie di questo o quel candidato e l’incombenza del partito che lo sponsorizza; se invece la pubblicità affidata ai manifesti scorre accanto senza lasciare traccia, resterà quel pizzicorino allegro e fino che le interviste ai candidati (spesso con domande fatte apposta per consentire una dichiarazione strampalata, soffusa di intenti ma non franca, vera, decisa e, tanto meno, aperta a cose possibili da fare e non solo da promettere), proprio perché impastate di frasi fatte e ritornelli stantii, sanno sempre e ovunque suscitare.
Però, la differenza tra la caramella col cuore pizzicorino e la giornata elettorale è presto raccontata: la prima illude la bocca e induce lo stomaco a dilatarsi fino a sciogliersi in un poco educato ma benefico rutto; la seconda affloscia la passione, offusca le pur nobili ragioni della politica, riempie la testa di equazioni inestricabili e di illusorie promesse, smuove sentimenti con cui, se non fossero ripieni più di ira che di stima, si potrebbe lodevolmente convivere.
Allora lasciatemi riandare all’apologo sulle elezioni proclamato da un vecchio mandriano, quello che raccontava di un uomo “tanto povero che non riusciva a guadagnare da vivere facendo il vetraio” che ebbe la pensata di insegnare “al figlio quattordicenne a uscire di notte per rompere tutti i vetri delle case dei signori” in modo che lui, aggiustando i vetri dei signori, diventasse ricco in poco tempo, tanto ricco da comperare tutte le case più belle”. Quando ciò avvenne “era tanto fondata l’abitudine del figlio ad uscire di notte per rompere i vetri delle case”, nel frattempo diventate proprietà di suo padre, “che tale rimase”. Concludeva il vecchio mandriano, con tutta la calma dell’uomo sicuro di aver ragione: “Capita così ai partiti che stanno per troppo tempo all’opposizione: si abituano a tirar sassi soltanto e a distruggere, che quando capita a loro di vincere le elezioni vorrebbero cambiare, ma è troppo grosso il vizio che hanno di distruggere. Così se, per caso, costruiscono una casa di giorno, ne distruggono due di notte”. La morale della favola, aggiungeva il mandriano, dice che “è molto più facile tirar sassi che portarli sulla schiena”.
Così, oggi, votare è qualcosa che assomiglia a masticare la citata caramella, che nel cuore ha un allegro e fino pizzicorino, buono un attimo, inutile appena dopo…
LUCIANO COSTA