Niente di nuovo o tutto di nuovo, a seconda dei punti di vista. Personalmente, il “niente” lo attribuisco al solito avvicendarsi di guerre polemiche scandali scandaletti chiacchiere vacuità mode moda (quella delle mutande in strada, di cui mi ha reso edotto un tale a cui nel fine settimana “mamma tivu” dà licenza di commentare le sciocchezze stipate nelle pagine di riviste, che nutrendosi di pettegolezzi allattano i lettori col succo derivato, è di certo la più spassosa e rivelatrice del pensare unico a cui in molti si dedicano) e poi politica e politiche qualunquemente prive di sostanza e di valori, gli unici che garantendo una livrea dignitosa agli eletti li renderebbe anche degni di proporsi e riproporsi e poi ancora proporsi al voto del popolo. Quanto al nuovo (ovviamente quello gradito e perciò piacente, che quello sgradito e quindi dispiacente, magari perché colpevole di sollecitare pensieri e riflessioni non banali e neppure casuali è lasciato fuori dalla porta, roba buona per gli illusi, o poco più), basta frugare tra la spazzatura mediatica per ritrovarsi le tasche magicamente piene… Fatto salvo il dovere di interessarsi agli sproloqui offerti da taluni cosiddetti “potenti detentori dell’universale umana sorte” (i loro nomi cercateli nel “dizionario dei sinonimi e contrari”, che quella è casa loro), resta il tempo di chiedersi cosa sia mai quel dossieraggio sventolato come clava e quali siano i misteri che affollano ora la corte inglese, ora quella torinese, oppure quella del regno di Fiabilandia, luogo in cui tutto è il contrario di tutto e il niente è elevato a pensiero dominante e dove va di moda assomigliare al camaleonte, unico soggetto capace di cambiare colore alla propria pelle senza mai arrossire. Se vi state chiedendo che cosa c’entri tutto questo col niente di nuovo o col tutto nuovo messo in apertura, non state delirando: semplicemente vi state rendendo conto di quanto sia labile il pensiero e difficile la ricerca di risposte degne d’essere offerte quali contributi al “sapere” e alla “conoscenza”. Quindi, chiedo venia e vi consiglio di ricorrere a quel “fai da te”, che quando si tratta di curare sapere e conoscenza ne sa una in più del diavolo e di qualunque professore. E sarà il “fai da te” a spiegare l’essenza del dossieraggio (secondo il dizionario “attività clandestina svolta allo scopo di raccogliere in un dossier informazioni su una o più persone per conto di un committente privato o di uno stato”; tradotto in inglese “doxing, o doxxing è la pratica di cercare e diffondere pubblicamente online informazioni personali e private o altri dati riguardanti una persona, di solito con intento malevolo”), che da giorni inquieta sia chi vi si ritrova citato sia chi invece non è per nulla citato. Per il resto, quello che si riferisce alle varie corti e teste coronate, fate voi.
Per il camaleonte, invece, metto in campo il sapere desunto dalle pagine di un piccolo libro (“I sogni di un camaleonte”, edito da “24 Ore Cultura nel 2023) scritto e illustrato da autrici lituane, che in deliziose pagine racconta la storia di Leo, un non meglio precisato camaleonte “capace – dicono le autrici – di reagire al dolore e alla solitudine rifugiandosi in sogni dai colori più belli”. Leggendo ho scoperto non solo il delicato rapporto tra gli umani e la natura, una natura incompresa dalla quale si pretende sempre qualche utilità e in questo caso anche un passatempo, ma anche come il piccolo camaleonte, catturato e sradicato dal suo habitat, smette di cambiare colore, perciò si rattrista e diventa tutto nero. Però e meno male, nel corso della storia i colori tornano nei suoi sogni e sognando lui riesce a sopravvivere. E in quella sopravvivenza incontra, oppure inciampa, in una bimba intelligente e per nulla timorosa di accarezzare questo o quell’animale, che quel piccolo camaleonte se lo mette in tasca e che dopo averlo accudito e saziato lo libera sulla spiaggia: libero di crogiolarsi al sole oppure di imbarcarsi per raggiungere chissà quale altro mondo. Secondo taluni lettori e critici “quel camaleonte può essere un essere umano, uno che è stato chiuso, che non viene considerato dagli altri, che non è consapevole dei propri bisogni e diritti” e la sua storia può essere letta in maniera diversamente proporzionale: positiva quando spiega come i diritti del camaleonte siano essenzialmente gli stessi diritti assicurati agli umani; negativa quando riferisce di quelle persone che si sentono onnipotenti e credono di avere la facoltà di poter fare qualsiasi cosa, sia nel rapporto con la natura sia negli eventi e nel contesto sociale; terribilmente negativa quando (il che avviene, ahimè, assai spesso) e come (a seconda delle convenienze) gli “eletti” e loro affini-consociati-sodali e sostenitori cambiano colore (leggete le cronache delle tornate elettorali in corso e traetene voi stessi le conclusioni). Il tutto giocato con i colori, che diventano metafora del vivere e del sopravvivere, dalla quale, per dirla con le parole del critico “abbiamo la possibilità di uscirne per inventare una terra fantastica, un regno dei sogni, un luogo dove rifugiarci dai problemi che ci affliggono”.
Troppo facile e forse addirittura elementare? Forse sì, ma forse anche no! Dipende da che punto si parte e si guarda, dal come si legge la storia che ci circonda, dal se e come a queste pagine scritte assegniamo valore impedendo che diventino una storia “di parte, che prende posizione solo per una parte della storia, e non sa vedere la storia degli altri, i loro torti e le loro ragioni”, da quali e quanti perché useremo per giustificare non il piccolo Leo, camaleonte sognante, ma i grandi camaleonti in circolazione.
Magari lo sapete già, o già l’avete letto qui o altrove, che nessuno perde tempo nel paese di Tic Tac, “dove gli abitanti sono talmente indaffarati da non potersi fermare neppure un minuto”, dove “gli orologi sono gli oggetti più diffusi perché la puntualità conta sopra ogni cosa”, dove “si va di corsa e di premura senza pensare ad altro”. Però, con siffatti metodi e pensieri, quali e quante cose ci stiamo perdendo noi adulti pensanti e preoccupati di tutto fuorché dell’essenziale, materia che il Piccolo principe definisce senza tema d’essere smentito “invisibile agli occhi…”! Davvero, quante cose perdo e perdono gli adulti? E come si ridurranno questi adulti “se non trovano il tempo di innaffiare orti e giardini, di coltivare la terra, di leggere o frequentare biblioteche, di vivere con un ritmo lento, di fermarsi a giocare, a leggere e osservare il mondo, le cose e le persone; magari anche di capire che se non ci si prende cura gli uni degli altri, e tutti insieme della Natura, si può perdere tutto?”. Dice il saggio: “Ci salveranno ragazzini…”. Oppure, magari, ci penseranno i nonni, perché è risaputo che anche loro hanno tempo da perdere e da regalare a chi non ne ha. Avrete certo capito che la parola può spiegare tutto, ma anche, spero, che c’è qualcosa che urla sotto la pelle e che le rimane estraneo, lontano. “Così – sottolinea il critico intelligente – la parola e l’urlo si voltano la schiena, si evitano, guardano in due direzioni diverse”. Ragion per cui “le cose visibili diventano invisibili / e le cose invisibili diventano visibili”.
D’altronde, è risaputo che “un palazzo e una capanna non appartengono a mondi differenti”, che “studiare senza trarre dai libri una lezione di saggezza è come essere un copista che si limiti a trascriverli”, che amministrare senza curarsi del bene del popolo è come essere un bandito travestito da mandarino”, che insegnare senza sorvegliare la propria condotta è come invocare Buddha senza avere fede in lui” e che “agire senza coltivare la virtù è come contemplare un fiore effimero”. Altrettanto noto e risaputo dovrebbe essere l’assunto che stabilisce come “nove discorsi assennati su dieci non sempre vi varranno ammirazione, ma il biasimo vi sommergerà per un solo discorso irragionevole; che nove progetti riusciti su dieci non sempre vi varranno delle lodi, ma le critiche abbonderanno per un solo progetto fallito”. La morale della favola (sempre che vi possa essere qualsiasi morale in un tempo dove le favole non hanno più diritto d’esistere) è racchiusa nel pensiero che stabilisce come “l’uomo retto preferisce tacere anziché parlare in modo precipitoso, preferisce mostrarsi incapace anziché abile”. Insomma: il tutto e il niente. Fate voi.
LUCIANO COSTA