Eccoli, salgono e scendono dal palcoscenico col piglio dei vincitori sebbene non abbiano vinto nulla. Si sentono superiori, insigniti di superiorità, una malattia del nostro tempo, forse incurabile, sicuramente capace di intorpidire il cervello al punto da renderlo inutilizzabile oppure adatto soltanto a ridurre in cenere virtù e pensiero. Costoro vogliono ridurre gli altri a stracci (buoni al massimo per pulirsi i piedi) e per la carriera e il successo sono pronti a tutto. Infatti, loro sono quelli del chi se ne frega, del tanto peggio tanto meglio, della colpa morì fanciulla e mai nessuno la sposò.
Da qualche parte ho letto che “al mondo non ci sono che due modi per fare carriera: o grazie alla propria ingegnosità, o grazie all’imbecillità altrui”. Quindi, se questi umani investiti di superiorità esistono e si riproducono è perché io-tu-egli-noi-voi-essi, insomma tanti se non proprio tutti, siamo perfetti e irriducibili imbecilli. “Per vestirsi di superiorità, ha scritto ieri un saggio commentatore “si è capaci di vendere non solo l’anima, ma anche di tradire gli affetti più cari, si è pronti a negare la verità e anche a calpestare la dignità… Tutto questo per ottenere una carica, per esercitare un piccolo potere, per essere insigniti di una onorificenza…”. Questo accade dappertutto, spesso con la compiacenza e il silenzio di tanti se non di tutti. Perché, in fondo, per questi interpreti della superiorità ottenuta senza fatica e senza onore, del chi se ne frega, che tanto il potere ce l’ho e me lo tengo… quel che conta e soddisfa è il “vivere felici e contenti” e non il “facciamo quel che serve per dare senso e valore al bene comune”. E se qualcuno cerca di far loro cambiare mentalità, di convertire la libidine del potere in gioia di scomparire, di servire, di abbassarsi, di umiliarsi… costui è solo e sempre considerato un imbecille.
Appena ieri Massimo Giannini, nel “circo massimo” posteggiato abitualmente su “il venerdì”, s’è rivolto al mondo (a quello della superiorità esibita) premettendo un “scusate, sono un vecchio arnese, quindi ignoro le ragioni per le quali questa colorata e incazzata umanità passi il tempo a litigare, invece che a lavorare” che la dice lunga sull’impossibilità di argomentare attorno al tema senza suscitare ire e facezie. L’altro ieri, ben più di mezzo secolo fa, Paolo VI, Papa mite e mai sufficientemente lodato, alle nazioni del mondo riunite sotto l’egida dell’Onu, disse: “…Nessuno sia superiore agli altri… Non l’uno sopra l’altro… Non si può essere fratelli, se non si è umili… E’ l’orgoglio che provoca le tensioni e le lotte del prestigio, del predominio, dell’egoismo… Non gli uni contro gli altri, non più, non mai…! Ma gli uni per gli altri, sempre, per sempre…!”. Oltre duemila anni fa, Gesù di Nazareth, sfidando le logiche dominanti, alla folla accorsa ad ascoltarlo diceva: “Beati gli ultimi, perché saranno i primi”. Al circolo dei baciati dalla superiorità, magari dichiaratamente cristiani, un prelato di sicuro sapiente (il suo cognome è infatti Sapienza) anche ieri ha ricordato che “un cristiano, se si sforza di seguire il Vangelo, sarà contento soltanto quando proverà la gioia di chi è riuscito a farsi strada guadagnando l’ultimo posto”. Stamani all’alba la signora Teresa, anziana e saggia nonna, alla quale chiedevo se preferiva gli ultimi destinati a diventare primi o i primi destinati a diventare ultimi, mi ha assicurato di sperare d’ essere prima solo quando il Paradiso, che lei crede vero e raggiungibile, le offrirà ospitalità stabile e incondizionata. Mario, nonno anche lui, però da sempre arrabbiato e insofferente a ogni superiorità esibita, non credendo al Paradiso promesso ma solo alla rivoluzione che sancirà la vittoria degli ultimi sui primi, anche adesso che è domenica mattina, dice che solo gli “imbecillusi” – parola che riunisce in un mirabile insieme imbecilli e illusi, parole degna d’essere annoverata tra le parole nuove a cui l’Accademia della Crusca assegna valore di lezione e monito – come me e tanti miei simili (così dice così riferisco) possono ancora credere che il mondo smetta di guerreggiare e si metta a pensare che è meglio mettere fiori nei cannoni e caramelle di zucchero dentro le bombe…
Sommerso da così alti ammonimenti, mi sono guardato intorno, ho rovistato tra libri e fogli sparsi, ho girato mille e un canale televisivo, ho riletto i titoli dei giornali accumulati nel corso dell’anno, ho ascoltato le canzoni che l‘effimero lo considerano una vera rivoluzione, ho ripensato al silenzio quale cura e rimedio ai mali dell’umanità… Tutto questo per confermare l’ovvietà, ovvero che l’imbecillità, la quale produce superiorità e offre a qualcuno il piacere di interpretarla senza timore e pudore, fa irrimediabilmente parte del paesaggio, questo o quello senza distinzione.
Non so perché, ma improvvisamente ho visto “il paese delle meraviglie”, tanto caro ad Alice e ai suoi compagni d’avventura, materializzarsi intorno a un presente che pur d’apparire nuovo usa il vecchio come elisir di lunga vita. Alice, che oggi potrebbe chiamarsi Elly, Giorgia, Kamala, Ursula ma anche Chicchessia, Trebisonda o (perché no?) Nessuno, s’è riaffacciata sul gran teatro del mondo accompagnata da Coniglio Bianco, Bill la Lucertola, Bruco, Duchessa Brutta, Gatto del Cheshire, Cappellaio Matto, Lepre Marzolina, Ghiro. Re e Regina di cuori, Grifone, Falsa Tartaruga… ognuno col suo seguito e le proprie vanità, ciascuno raffigurazione di qualcuno a cui il fato e non il merito ha assegnato potere e superiorità. (Se interessa, agli amici della “novella” Alice, pur conscio d’appartenere alla categoria degli “imbecillusi”, io ho dato fisionomia e collocazione, che ovviamente tengo per me e nessun altro, soprattutto perché non si sa mai possa recar offesa renderlo noto).
Però, se mi è concesso adattare senza alterare quel che fu scritto, disperato per tutte le stranezze che stanno succedendo, penso di essere cambiato durante il sonno. Quindi mi interrogo e alla maniera di Alice, quella o questa per me pari sono, ripeto: “Che roba! Roba dell’altro mondo! Tutto il mondo, oggi, è roba dell’altro mondo! E pensare che fino a ieri le cose avevano un capo e una coda! E se mi avessero scambiata stanotte? Vediamo un po’: stamattina, quando mi sono svegliata, ero proprio la stessa? Mi sembra di ricordare che un po’ diversa mi sentivo, sotto sotto. Ma se non sono la stessa, allora domando e dico: Chi cavolo sono? Ah, questa sì che è una domanda da centoventidue milioni!”.
A quel punto Alice (e con lei coloro che in lei, momentaneamente, si vedevano riflessi) cominciò a passare in rassegna tutte le bambine più o meno della sua età che conosceva, caso mai l’avessero scambiata con una di loro. “Elly non posso essere di sicuro,” disse, “lei ha tutti quei boccoli, e io sono liscia come un olio; mai più posso essere Giorgia, io so un sacco e una sporta di cosa e lei, oh! lei non sa un’acca! Inoltre lei è lei e io io e… Uffa ho perso il filo! Proverò a vedere se le cose che sapevo sono ancora al loro posto. Dunque: quattro per cinque dodici, quattro per sei tredici, quattro per sette… povera me, di questo passo non arriverò mai a venti!”.
La morale della favola (o delle molteplici morali che in essa si riconoscono), ognuno la tragga a piacimento. Io scelgo il silenzio, quello che tale Mauro definisce “ornamento della parola, capace di nutrirla di significati e di sfumature” che, aggiungo io, all’occhio degli erranti sfuggono e si dissolvono. E al vecchio silenzio, salutare e bellissimo modo per pensare, aggiungo l’altrettanto salutare esercizio del “passo indietro”, quello che Bonazzi, nelle “lezioni di filosofia” attribuisce prima al sommo Pico della Mirandola, che da par suo spiegava come “le creazioni più grandi, quelle più riuscite, son sempre in levare e non nascono se prima non si fa un passo indietro: lasciando tacere il nostro io e aprendoci al resto”, poi al saggio Goethe per il quale “chi vuole grandezza, raccolga se stesso, che solo nel limitarsi è vera maestria”. Vale a dire, come ben rammenta il già citato Bonazzi: “E’ solo quando ci renderemo conto che siamo meno interessanti di quanto pensiamo che diventeremo finalmente interessanti”. A me, che impunemente scrivo, dedico i versi con cui il poeta Giorgio Caproni annotava lo scorrere del suo tempo… Diceva: “Se non dovessi tornare / sappiate che non sono mai partito… / Il mio viaggiare / è stato tutto un restare / qua, dove non fui mai…”. Magari, dove affiora un’isola che ha in sé qualcosa dell’altra, quella su cui “cristiani o ebrei, o arabi e persino pagani, respirano lo stesso anelito di conoscenza e bene, dove le somiglianze sono molto più forti delle differenze…”. E poco importa se “non c’è un posto per noi nel mondo che ci circonda”, poiché quel posto “siamo noi che dobbiamo crearcelo”.
Allora, e solo allora, il mondo godrà la Pace e diverrà “il paese delle meraviglie”, quello finalmente abitato da gente capace di dare sostanza ai sogni più belli, superiori a qualunque altro sogno perché rivestiti di sapori buoni e sinceri. Provate a immaginarlo un simile mondo! Immaginatelo oggi che è domenica e poi ogni giorno che verrà. E sarà come se all’improvviso tutto s’illuminasse d’immenso.
LUCIANO COSTA