Il Domenicale

Fare la pace è beata innocenza; non leggere i giornali è solo un pretesto…

“Come si fa a fare la pace?”. La domanda del ragazzino, sortita nel bel mezzo di un incontro scolastico dedicato a ragionare su lettura e non lettura, è innocente-sincera-vera, ma anche tragica. Racchiude infatti i suoi sogni e, insieme, le sue paure: sogni di mondi in cui tutti sono felici e felici perché a casa loro; paure di mostri che vagando per terre e mari seminano solo morte e distruzione. Poi, non palese ma insistente, anche la certezza di ottenere dai grandi una risposta precisa. Ma i grandi, così indaffarati a litigare, non hanno risposta da offrire. E allora ricorrono alla solita domanda di riserva, quella che mellifluamente chiede: “Tu come faresti?”. Il ragazzino non ha dubbi: “Io andrei dal mio nemico e gli direi: dai, facciamo la pace. Lui mi direbbe che prima devo chiedere scusa per le offese che gli ho fatto. Nessun problema, eccole: scusa amico, non lo farò più. A quel punto la mia mano tocca la sua e siamo di nuovo in pace”. Beata innocenza, che questo mondo bislacco e beghino ha trasformato in sogno irraggiungibile! Beata innocenza, che i ragazzini non conoscono perché noi vecchi l’abbiamo cancellata dalle normali abitudini. Ieri era vanto e bellezza, oggi rinuncia e debolezza.  

Ascoltando e osservando quel che accade intorno (qui, là, ovunque la ragione è presa a calci, non più affidata alle parole di verità e al buon senso, ma solo alle armi) la beata innocenza non ha alcun diritto di cittadinanza. Però, ve la immaginate la scena in cui due stupidi litiganti la smettono di guardarsi in cagnesco, si scambiano scuse e si stringono la mano? Ve li immaginate il russo e l’ucraino, l’ebreo e il palestinese, il bianco e il nero, il ricco e il povero, l’americano e il cinese, il musulmano e il cristiano, io e l’altro, l’altro e quell’altro diverso… che si abbracciano e si promettono reciproco rispetto? Noi vecchi forse no, ma i ragazzini sì, loro di sicuro immaginano che l’irreale può diventare reale. Mi illudo di essere come loro; e come loro di vedere il bene ovunque…

Leggo adesso che “quando il male irrompe inaspettatamente nelle nostre vite, la coscienza si trova catapultata in uno stato di profondo turbamento”. In effetti, immerso in strade-contrade-piazze-vie-paesi-città-borghi-quartieri-frazioni-agglomerati di case-cose-persone che sembrano sempre più la raffigurazione del peggio, sono profondamente turbato la mia parte (ma anche di quella di troppi vicini, che neppure si pongono il problema). Sono però invitato a pensare che in fondo, come sembra comune nella filosofia e nella teologia, “il male è una necessaria ombra del bene”, qualcosa che serve a evidenziare e a magnificare il bene. Ma come può servire un male a esaltare il bene? Non lo so e neppure so perché mai il Buon Dio permette al male di espandere il suo dominio… Secondo Leibniz (Gottfried Wilhelm von Leibniz, matematico, filosofo, logico, teologo, linguista, diplomatico, giurista, storico e magistrato tedesco) c’è sempre “una spiegazione sufficiente per credere, ma mai abbastanza per capire”.

Io non capisco (o capisco poco assai), ma sono sicuro di essere in buona compagnia. Ho invece ben presente il significato del male morale: quello che scaturisce dallo scontro “tra ciò che si sa essere giusto e ciò che si decide di fare”. Come spiega l’esperto “la specificità del male morale risiede proprio nella deliberata scelta di nuocere, in opposizione al bene…”. Quel che resta ignoto (forse volutamente ignoto, che se fosse palese porrebbe inquietanti interrogativi) è come possa “una coscienza che riconosce il bene, scegliere deliberatamente di compiere azioni dannose”. Questione di libertà, di responsabilità, di etica… Quindi, che altro è la guerra se non l’applicazione della volontà di nuocere in opposizione al bene? Che altro sono i belligeranti se non stupidi interpreti delle più aberranti tendenze a compiere, per il gusto di farlo, azioni dannose agli altri?

Però, come è venuto a dirmi il ragazzino al termine dell’incontro, la pace è dietro l’angolo e “basta aver voglia di farla che è subito fatta”. Non so come, ma questa la mando a dire ai capoccioni che stanno facendo la guerra… E non mancherò di far loro sapere anche quello che Tania Anastasi, sconosciuta messaggera di cose buone, mi ha confidato; e cioè che “qui non s’odono più campane e suoni, / non si distingue tra cattivi e buoni. / Qui è tutto un odio e sangue umano, / non s’ode neanche nessun lamento urlato piano. / Solo pianti infestanti e sanguinanti, / su tombe sacre o su quelle di uomini come tanti. / Vi prego, dimenticate tutto questo male, / anche se il dolore di una madre lo so che in cielo sale. / Dimenticate fucili e bombe / o visi piegati su marmoree tombe, / costruite un’oasi di pace / e mettete fiori al posto del cannone, che così tace. / Usate il verbo creare… / che è più costruttivo del verbo odiare. / Voi create pace per i vostri figli, / al posto dei proiettili piantate gigli, / create sentimenti di uguaglianza, /e l’odio cadrà insieme all’arroganza. / Lo so che l’odio è più facile da seguire, / d’altronde il dolore di una madre non si può lenire! / Ma tu pianta il seme della libertà / e vedrai che anche l’ultimo cannone alla fine tacerà”.

Un amico, che di semi di libertà ne ha piantato tanti (si chiamava Pier Giordano Cabra, prete e religioso piamartino), prima di salutare gli amici dando loro appuntamento in paradiso, mi ha spiegato che gli alberi si stupivano dell’importanza che noi esseri umani davamo alla parola per comunicare… Si stupivano, principalmente, perché, secondo loro, la parola da noi usata (e abusata), capace di dar vita a una comunicazione sofisticata sulle cose da dire e da fare, risultava quasi sempre poco sincera e poco profonda. “La nostra comunicazione invece – dicevano gli alberi – è esclusivamente basata sul silenzio, tanto è vero che l’unica volta che abbiamo preso la parola, come narrato nella Bibbia, abbiamo fatto una pessima figura: i migliori di noi si sono dimostrati egoisti, dando la possibilità di emergere al peggiore di tutti: il rovo. Proprio una figuraccia. Che ci ha fatto sentire simili a voi essere umani, che adoperate sovente le parole per distorcere la comunicazione, usando un tono tanto più elevato quanto più volete giustificare il vostro comportamento interessato… Così da quel giorno non abbiamo più pronunciata una parola, ma non abbiamo smesso di comunicare col nostro laborioso   e silenzioso modo d’esistere… lieti di stare presenti al mondo più con il nostro essere che con il nostro parlare, di essere più utili per quello che diamo che per quello che pretendiamo, di comunicare a tutti l doni che abbiamo ricevuti mettendoli a disposizione degli altri…”.

Stamani, di fronte ai giornali a cui chiedo lumi sull’essere e il divenire, mi sono detto: il giornale è fatto di carta, per fare la carta servono gli alberi, per fare un albero ci vuole un seme e tanta intelligenza, tanta pazienza per farlo crescere. Benedetto sia il giornale e la pianta che gli ha permesso di esserlo. E poi?  Poi arriva una (assai altolocata), che al vecchio facitore di parole e veline (parole per dire, veline per obbligare le parole a servire il potente di turno) neppure arrossisce dicendogli “io non leggo i giornali per non essere condizionata”. Costei si chiama Giorgia, che “tremare il mondo fa” (non tutto, per fortuna). Il fatto di non leggere i giornali, (come bene ha raccontato Mattia Feltri) la mette in perfetta sintonia con non pochi suoi predecessori e compagni d’avventura (Berlusconi, Bossi, Conte Di Maio, Fico, Raggi, Di Stefano, Marino tanto per citarne alcuni) per i quali, in perfetto ordine di citazione, “leggere i giornali significa disinformarsi… confondersi le idee… perdere tempo utile per governare”; quindi “non li leggo perché inquinano il cervello… non li leggo e basta… mi dice mia madre quello che succede… li uso per incartare le uova”. In più, aggiunge il Feltri, dichiaravano di non leggere i giornali, con motivazioni una diversa dall’altra: Thomas Jefferson, Jorge Luis Borges, Marcel Proust, Giuseppe Dossetti, Napoleone III, Charles Baudelaire, il quale allegramente spiegava che “non si è gentiluomini se si prende in mano un giornale senza un brivido di disgusto”. Tutto normale. E dovremmo ormai averci fatto il callo. E i giornalisti? Uno che lo era stato – tale Christopher Hitchens – lo ha ammesso: “Sono diventato giornalista perché non voglio che la mia fonte di informazione siano i giornali”. Bontà sua o sua presunzione stupida e servile? Però, cara Giorgia, se legge, sappia “che un politico che si vanta di non leggere i giornali equivale all’elettore che si vanta di non votare”. Morale della favola? Siamo messi proprio male.

In “arte della prudenza” trovo sollievo leggendo che “d’ordinario, si nota che le cose son ben diverse da quelle che sembravano, e l’ignoranza, che non oltrepassò la scorza, si converte in disinganno, quando penetra al di dentro. La menzogna è sempre la prima in tutto; trascina gli sciocchi per inveterata volgare usanza. La verità sempre arriva ultima e tardi, zoppicando in compagnia del tempo. I prudenti le riserbano la metà di quella facoltà che saggiamente ha raddoppiate madre natura. L’inganno è molto superficiale e subito s’imbattono in esso coloro che sono superficiali. Il discernimento vive appartato al di dentro, allo scopo di rendersi più apprezzato dai savi e dai prudenti”.

Sempre tra quelle pagine scopro che “i savi sono stati sempre poco tolleranti, perché chi accresce scienza, accresce impazienza. E’ perciò difficile contentare un vasto sapere. La migliore massima della vita, al dire di Epitteto, consiste nel sopportare, e a questo ridusse la metà della saggezza. Se bisogna tollerare tutte le sciocchezze, è necessaria dunque molta pazienza. A volte sopportiamo di più da parte di coloro ai quali maggiormente siamo soggetti, il che serve di esercizio a vincere sé stessi. Dalla tolleranza nasce la inestimabile pace, che costituisce la felicità sulla terra; e quegli che non ha l’animo disposto a sopportare, ricorra al rifugio in se stesso, se pure avrà il coraggio di poter tollerare se stesso”. Ma, “attenzione nel parlare: con gli emuli per cautela; con gli altri per convenienza”. Infatti “c’è sempre tempo a mandar fuori la parola, ma non per farla tornare indietro. Convien parlare come in un testamento, perché un minor numero di parole dà occasione a un minor numero di liti…”.

E la pace? Essendo possibile e facile da fare, può attendere. Ma fino a quando potremo tollerare che i litiganti abbiano udienza-spazio-ascolto e non invece quel che meritano, vale a dire disprezzo-noncuranza-oblio e pena?

LUCIANO COSTA

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