Il Domenicale

Fare la pace piuttosto che la guerra: il volontariato insegna…

Mi ero proposto di dedicare il domenicale a qualche ragionamento su quel che la politica dominante mette in mostra con sfacciata prosopopea per giustificare la propria incapacità, per esempio, di fare la pace piuttosto che la guerra. La qual cosa, ovviamente, è una semplificazione del tanto che la suddetta politica dovrebbe fare nel caso lo scopo suo precipuo fosse quello di alimentare una società di tutti e per tutti, degna d’essere vissuta perché semplicemente giusta… Vale a dire: capace di assicurare dignità e pari opportunità, rispetto e lavoro, pane e sapere, assistenza e cura, equità e legalità, bene comune invece di bene per pochi… Magari anche aria, acqua e terra salvaguardati da ruberie, sfruttamento e inquinamenti molesti. Il tutto in un quadro ordinato di leggi condivise e lontane da fraintendimenti (liberate cioè da lacci e lacciuoli imposti da dai potentati economici e da qualsivoglia corporazione…), un quadro in cui sia chiaro che affermare “prima i valori – libertà democrazia solidarietà pace… ecc. ecc. – significa aver già scelto di stare dalla parte del Bene Comune. Fare la pace piuttosto che la guerra, però, non è semplice e neppure facile. E l’Europa, capace per secoli di prevenire la guerra adesso accetta che siano gli altri a dettargliela. “L’invasione dell’Ucraina – scrive Mattia Feltri – è il primo e il più evidente di molti segnali”, tutti orientati a confermare quella logica. Infatti, amaramente, “noi europei siamo persuasi di saper imporre la pace come una volta sapevamo imporre la guerra”. Ma è un’illusione, soprattutto perché, come asserisce la storia, “per fare la pace bisogna essere in due, mentre per fare la guerra ne basta uno”. Di questo voleva argomentare l’odierno domenicale, ma all’alba, lette e rilette le parole pronunciate ieri dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per salutare Trento capitale del volontariato, ho deciso che quelle e non altre erano le parole degne d’essere racchiuse in questo domenicale spazio. Eccole quelle parole. Per favore, leggetele e mettetele tra i pensieri dominanti.

Il Presidente, che a Trento di sicuro ritrovava aria degasperiana,non ha esitato a immedesimarsi nella festa e nello spirito che aveva radunato “due cori che hanno così bene interpretato l’Inno nazionale e quello europeo”, tante autorità (Presidente della Provincia, Sindaco di Trento, tanti Sindaci della terra trentina edelle terre vicine), ma anche gente che alla normalità del quotidiano aveva volentieri assicurare la sua presenza a quella straordinaria cerimonia, e Gabriella Civico e Chiara Tommasini, portatrici di riflessioni importanti, e il Sindaco di Leopoli al quale il Presidente ha rinnovato “i sentimenti di amicizia che hanno radici antiche e solide e che le drammatiche conseguenze della brutale invasione dell’Ucraina hanno ulteriormente rafforzato” ricordando che “la libertà e l’indipendenza dell’Ucraina sono tutt’uno con i valori fondativi dell’Europa.

Poi il discorso, dettato col cuore, intriso di saggezza e di speranza…

Trento è adesso Capitale europea e italiana del volontariato. Un riconoscimento alla cultura della sua gente, alle esperienze attuali di solidarietà e di partecipazione che continuano a sostenere la crescita della comunità. Essere Capitale è anche una grande occasione di incontro, di ricerca in comune, di riflessione, di conoscenza. L’opportunità di mettere in rilievo buone pratiche, come quelle qui rappresentate.

Il Sindaco ha poc’anzi ricordato che, al contrario di altre città che sono capitali di Stati pre-unitari, Trento non ha avuto questa sorte. Ma in realtà era capitale di questo magnifico territorio, con la sua storia, le sue tradizioni, la sua cultura di vita della comunità, che oggi sottolineiamo.

Oggi, e a livello europeo, Trento si vede riconosciuta come grande potenza della solidarietà, valore che sta alla base del volontariato; che è risorsa tra le più preziose di una società.

Per nostra fortuna, l’Italia è ricca di volontari e di associazioni che raccolgono e organizzano queste energie civili. Volontari che portano sollievo negli ospedali. Volontari che danno forza alla protezione civile; che si occupano di sicurezza ambientale; che custodiscono e valorizzano il patrimonio culturale. Volontari che portano soccorso. Volontari che distribuiscono cibo e medicinali a chi non ne ha. Volontari che vanno nelle case e assistono le famiglie più povere. Volontari che sostengono le persone vulnerabili, che si dedicano ai bambini, e ai più fragili tra di loro.Volontari che si impegnano nel recupero scolastico; che contrastano la marginalità, l’abbandono, che provano a costruire ponti dove altrimenti vi sarebbero quasi soltanto macerie esistenziali. Volontari che si dedicano ai profughi dalle guerre e dalle catastrofi climatiche. Persone che danno fiducia.

Non soltanto espressioni di testimonianza, ma persone amiche che, concretamente, rimarginano ferite, per restituire a ciascuno la sua umanità. Energie di grande valore e di grande vigore, grazie alle quali ci siamo sentiti e ci sentiamo più comunità.

Il volontariato esprime una visione del mondo. Quella della indivisibilità della condizione umana. Il famoso “I care ”, “mi riguarda”, fatto proprio da don Milani e da Martin Luther King.Una visione che pone in primo piano la persona, l’integralità della sua vita, il suo pieno diritto a essere parte attiva della comunità. Per questo valorizza le relazioni tra le persone, il dialogo, l’amicizia. Un impegno che, nei piccoli ambiti, immerge ogni giorno le mani nei problemi e negli affanni concreti e, tuttavia, porta a pensare in grande perché sa che ognuno contribuisce al cammino di tutti.

La solidarietà è un moto che parte dalle coscienze. Reca impresso il carattere dell’ascolto dell’altro e della generosità. A ben guardare, è essa stessa una vitale necessità. Abbiamo bisogno di solidarietà, di esprimerla e di riceverla, per sentirci parte di una comunità e della sua storia che va avanti.

La solidarietà, peraltro, è una pietra angolare degli ordinamenti.La nostra Costituzione la riconosce come presupposto di uno sviluppo davvero civile. Eloquente, a questo riguardo, è l’articolo 2, che dispone che la Repubblica “riconosce e garantisce” i diritti inviolabili dell’uomo, sia dei singoli sia delle formazioni sociali, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica, sociale.

La realtà del volontariato svolge un ruolo, insieme, di sentinella e di spinta di questo principio costituzionale. Rappresenta un pilastro anche della nostra civiltà europea. L’Europa è il continente dove la libertà, l’eguaglianza, la democrazia, la dignità della persona, la solidarietà sono cromosomi di un medesimo dna. Sono insieme fattori di identità irrinunciabili.

L’Europa è espressione di solidarietà: anzitutto lo è stata fra i nemici delle due guerre mondiali che, con coraggio, hanno dato spazio ai valori della convivenza e dell’incontro, non a caso con un protagonista di Trento, Alcide De Gasperi. E questi valori l’Europa ha riproposto all’indomani della caduta del muro di Berlino, nel ricongiungersi con i popoli del Centro-Europa. Il valore fondante della solidarietà ha declinazioni molteplici nei Trattati dell’Unione europea. Tra i popoli. Tra gli Stati.

Solidarietà che le istituzioni devono assicurare ai cittadini, affermandone la dignità, riducendo i divari e accrescendo le opportunità. Solidarietà liberamente interpretata e organizzata dai Corpi intermedi, che sono espressione viva, diretta della comunità.

Anche per questo il titolo di Capitale europea del volontariato assume, se possibile, un significato ancora più forte. Far crescere la solidarietà in Europa – in ogni direzione – vuol dire far crescere l’Europa e i popoli che la abitano. Ne abbiamo misurato l’importanza durante la pandemia da Covid.

Le insufficienze dell’Europa, le carenze che vanno talvolta a scapito dei cittadini, dipendono il più delle volte proprio da un difetto di solidarietà. Ne aveva coscienza il giovane Antonio Megalizzi, che per questo dell’Europa aveva fatto  la sua vocazione, il suo orizzonte ideale. Ci uniamo tutti al Sindaco che ha voluto ricordare nel suo intervento questo cittadino di Trento, drammaticamente sottratto alla vita dal fanatismo integralista.

Il volontariato, come poc’anzi qui sul palco Luca Bronzini, Serena Endrizzi, Annamaria Minotto hanno fatto intendere, è esattamente il contrario del paradigma di violenza cieca e di negazione dell’altro. Il volontariato è attenzione e accettazione dell’altro, umanità, rispetto, integrazione. Il volontariato è quindi dono.

Vi aspetta un anno ricco di opportunità. A Trento e nel Trentino sono centinaia le associazioni di volontari. Tanti altri ne verranno dalle regioni italiane, da quelle d’Europa per confrontarsi con voi, per fare nuovi progetti, per scambiare idee ed esperienze. Lo spazio pubblico e il privato di ciascuno saranno arricchiti da queste presenze così significative.

Il volontariato nasce in una sfera personale e comunitaria che precede le istituzioni. La prima forma di organizzazione di ogni società si basa sulla volontà di unirsi per obiettivi comuni. Il volontariato – lo ha ricordato il Presidente della Provincia poc’anzi – è esso stesso generativo di un pensiero, espressione di una scelta. La scelta – aggiungo – in favore degli esseri umani, di ogni essere umano.

Per questo i volontari possono essere definiti “campioni di umanità”. Il volontariato è libero per definizione; è espressione della libertà di ciascuno. La sua libertà è condizione di autenticità, elemento fra i più preziosi che il volontariato apporta alla nostra società, contribuendo alla sua coesione in un’epoca di così vorticose trasformazioni. Avere cura degli altri esseri umani è la sua vocazione.

In una stagione in cui emergono spinte estreme all’individualismo, all’egoismo più esasperato, alle tante paure che frenano la vocazione solidale dell’uomo, la cultura della cura assume un forte significato. I volontari si muovono con altruismo negli interstizi delle nostre difficoltà. Sovente riescono a ridurre i danni, ad alleviare i problemi; aprono speranze, con un ruolo importante per assicurare diritti laddove altrimenti diventerebbero inesigibili, per sperimentare innovazioni sociali, per rendere effettivo l’accesso ai servizi, offrendo anche vicinanza e calore umano.

La cultura della cura – di cui i volontari si fanno portatori – è sempre più complessa. Ma è così che si costruiscono i beni comuni, perché cura è attenzione al bene comune. Cura significa passione educativa, capacità di includere chi è ai margini, trasmissione generazionale, sostenibilità ambientale; significa dare una mano a chi non ce la fa perché possa riprendere il cammino. Vuol dire essere cittadini attivi, confrontarsi con le istituzioni, fare il proprio dovere, usare il patrimonio pubblico per il bene di tutti.

Dobbiamo aver cura della Repubblica. Dobbiamo avere cura dell’Europa.

Da questo mondo del volontariato – immerso nella vita di ogni giorno – riceviamo quotidianamente spinte, idee, valori, sogni. I sogni non sono illusioni. Sono l’orizzonte a cui guardano coloro che nutrono speranza, per vivere la realtà con passione e per coltivare il desiderio di renderla più umana e più giusta.

La solidarietà genera speranza. E solidarietà e speranza sono strettamente connesse con l’idea di pace, con lo spirito di fratellanza.

La pace del nostro tempo, gravemente tradita. Mai avremmo pensato che il nostro Continente sarebbe nuovamente precipitato nelle mostruosità cui oggi assistiamo nelle regioni orientali dell’Europa e davanti a noi, sulle rive di quel Mediterraneo culla di civiltà.

L’Europa, quasi ottanta anni addietro, è risorta nella pace. Le azioni dei volontari ci parlano di pace.

Il mondo si cambia anche partendo dai piccoli passi che riempiono il nostro quotidiano. E’ una responsabilità che riguarda ciascuno di noi.

L’augurio a Trento e alle migliaia di volontari che animeranno la Capitale europea è che la vostra e la loro energia siano contagiose e si propaghino. Tra i giovani anzitutto, che sono presente e futuro. Per tutti, però. Per tutti. Perché non è mai troppo tardi per cominciare, o ricominciare.

Buon 2024 del Volontariato a voi, all’Italia, all’Europa.

Parole da meditare e fare proprie. Perché il futuro dipende anche da noi.

LUCIANO COSTA

P. S. Colpa dell’alba suggeritrice di pensieri che, anche se non voluti, arrivano e impensieriscono, aggiungo annotazioni (dettate dalla lunga frequentazione del mondo agricolo-contadino, di cui scrivendo ho raccontato sofferenze, speranze, delusioni, conquiste, amarezze e ripartenze) su quel che sta accadendo in giro per la nostra Europa, alle prese con trattori che ruggiscono guidati e seguiti da lavoratori pervasi da rabbia e sconforto. Se ruggiti, rabbia e sconforto siano pienamente giustificati, non lo so. Forse c’è un di più che stona, ma è frutto di una politica che in generale sembra pensare più ai voti e al potere da conquistare (elezioni vicine, terreni da conquistare, costi quel che costi): insomma più alla pancia che al cuore.

Intanto, nel fantascientifico futuro dell’agricoltura, di cui la cronaca sta offrendo anche oggi un saggio a dir poco strabiliante, oltre i mastodontici trattori che sfilano per l’Europa – un’Europa che più inguaiata non è possibile immaginare – e gli arrabbiati agricol.contadi.contoter.allevator.imprenditorchic… – quest’ultimi novelli innamorati di agreste vita contemplativa – (con necessarie scuse per la bisticciata sequenza di titoli, tutti comunque intellegibili e rispondenti ciascuno al mondo agricolo), ci sarebbero droni che tutto vedono-riferiscono-programmano, zappe-badili-rastrelli automatici, trattori che vanno da soli, carriaggi telecomandati, mungitrici a comando vocale; forse, chissà-chi-lo-sa, anche erba che si auto-falcia, fieno che matura e si raduna da solo, frumento e mais che maturano e s’accomodano autonomamente al mulino. Gli arrabbiati di cui sopra dicono che stando così le cose – “rebus sic stantibus”, per intenderci –  non ce la fanno a sopravvivere e che il loro destino sarà quello di poveri accattoni, padroni di terre incoltivabili a causa di aiuti pubblici che non arrivano o che arrivati sono stati poi negati, di costi-carburante (per i potentissimi trattori) fuori di mercato e di testa, di tasse e gabelle sproporzionate e di chissà quanti altri ecc. ecc. imposti a loro carico da governanti voltagabbana e dimentichi di essere stati votati magari proprio da loro.

Così, ecco il contado che protesta, mille trattori in marcia, altri mille riuniti per bloccare arrivi e partenze di uomini cose e bestie dalle loro città e dai loro paesi, altrettanti sotto le finestre delle Istituzioni pubbliche, che ovviamente non sanno che pesci pigliare e nemmeno cosa fare nel caso i pesci abboccassero, molti altri sparsi su piazze ingressi autostradali slarghi viali parchi e giardini non a miracolo mostrare ma per far sapere a chi non sa un cavolo di problemi agricoli e conseguenti miserie patite dagli addetti -padroni, padroncini fittavoli ecc. ecc. Non importa quanto costa portare gente e trattori qui e là – “tanto paghiamo di tasca nostra” dicono gli addetti e manifestanti –, contano la visibilità e la forza di cui i governanti temono gli effetti.

Sarà… Ma in tutto questo, l’uomo, cioè il contadino, che fine farà? Se tutto va bene, potrà riempire la sua giornata, ahimè o per fortuna (ai posteri l’ardua sentenzia) liberata da impegni e strapazzi grazie alla scienza, coltivando rose e raccontando ai nipoti quel che una volta c’era e che adesso non c’è più. C’erano, allora, Giuseppe, Serafino, Donato, Dino, Camillo, tutti titolari di vecchie stalle, che le mucche le chiamava per nome e che di ciascuna conoscevano vita e miracoli: discendenza, fertilità, latte prodotto, malattie sofferte e infortuni subiti. Per me erano tutte uguali; per loro, invece, nessuna era simile a un’altra e tutte erano preziose. Mattina e sera, infatti, rendevano ai contadini chili e litri di buon latte che venivano puntualmente consegnati (salvo il necessario alla casa) al caseificio, che ovviamente provvedeva al pagamento. A chi sollevava dubbi sulla salubrità del latte che appena munto finiva tutto nel medesimo bidone, il villico mandriano, vero maestro della stalla, rispondeva: “Questo sublime nettare bianco è la sintesi di tutto il buono che la vacca è disposta a regalare. Signori e signore, unire questa e quella bontà, alla fine, premia e consente ai bimbi di crescere, alle donne di lucidare la pelle e di rafforzare le ossa, agli uomini di curare eventuali affaticamenti amorosi, ai vecchi non solo di sopravvivere, ma anche di dare vita agli anni, al catarro di non restare attaccato ai polmoni e alle malattie di girare alla larga”.

Cinismo villico pedemontano e presunzione letteraria a parte, è indubbio che la mucca-vacca è stata, è e resterà, alla faccia della scienza e della tecnica, il perno su cui l’agricoltura ruoterà e consumerà le sue fortune. Poco importa se leggi, leggine, norme e“quaquaraqua” rendono difficile, come dicono i capi delle associazioni che una volta erano sindacati e oggi più o meno uffici di consulenza e disbrigo pratiche, anche solo immaginare di coltivare, produrre e allevare. Nonostante tutto ci sarà sempre qualcuno disposto a piegare le ginocchia per baciare la terra e coltivarla.

Una volta, cioè quando le storie dell’albero degli zoccoli non erano cinema ma momenti reali e tragici della vita, non c’era norma che impediva alle mucche di andare ad abbeverarsi al fosso, non c’era mamma che si stupiva per il latte che passava dal secchio al bidone e da qui al pentolino senza ossequiare l’igiene, non c’era bocca che rifiutasse quel semplicissimo elemento nutritivo, soprattutto perché la fame poteva ben più di qualsiasi dolorino di pancino. Adesso, rischiamo di rimanere orfani di materia prima e prigionieri di quel “salutismo”, spesso esasperato, usato non come corroborante ma come clava.  

Giuseppe e gli altri smisero di andare in stalla solo quando l’età, la sciatica e il deterioramento delle protesi all’anca li consegnarono alle solide braccia delle badanti. Con loro, se ne è andata la poesia di un’epoca in cui le vacche si mungevano, la gente ben di rado si guardava in cagnesco e ancor più di rado rifiutava una scodella di riso al mendicante che bussava alla porta. Tempi che furonoE domani? Chissà. Domani, forse, altri contadini-agricoltori si piegheranno a baciare la terra ringraziandola per i doni che genera. Forse, solo forse e nulla più di un forse.

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