Il Domenicale

Fenomenologia dell’altruismo: pressapochismo o virtù?

Una mattina, questa mattina, mi son svegliato e ho visto in un baleno quel non avevo notato nei centocinquanta giorni (tanti come quelli segnati da siccità inedita) e nei cinquecentocinquanta giorni (tanti come quelli contrassegnati dalla guerra-guerre-barbarie disumane e stupide). Ho visto, ma solo per un fuggente attimo, uomini e donne, ragazzi e ragazze, bambine e bambini,vecchie e vecchi che si davano la  mano e che sorridevano senza temere la pioggia di questo maggio oltraggioso verso i fiori, cattivo coi frutti, permissivo, ma solo a sprazzi, solo col maggengo e, forse, pazzo al punto da scombussolare improvvisamente città e paesi senza colpa apparente, impegnato a spargere, dopo mesi e mesi – dicembre gennaio febbraio marzo aprile… – aridi avari asciutti inconcludenti malmostosi e odiosi al punto da invocare per loro la massima punizione, senza costrutto e pieni di avarizia come solo cornacchie e gazze son piene. Li ho ammirati e avrei voluto abbracciarli… Ma è bastato un soffio di vento per cancellarli.

Forse sognavo, o forse m’illudevo di essere spettatore di un mondo nuovo. Così, al loro posto, sono apparsi gli arrabbiati: da una parte i giovani che attorno alla massa impressionante di libri messi in esposizione (grandissima espressione di dialogo e confronto tra popoli e nazioni diverse che onora Torino e l’Italia); dall’altra i predicatori di sventura e i venditori di fumo che qui e altrove seminano ortiche anziché grano; dall’altra ancora i cantori della guerra, risolutiva per nessuno ma arricchente per pochi (o tanti?); più in là e in qua gli odiatori-negatori-affossatori di sogni e speranze di chi, malconcio e disperato, vaga per mari agitati in cerca di un approdo che li faccia sentire persone piuttosto che cose sbattute dalle onde impazzite e strapazzate dalle logiche che gridano “ciascuno a casa sua”, ovviamente meno coloro che con sé portano ricchezza, agio, visibilità, notorietà, lustro, bellezza,soldi, allegria, divertimento, calcio, coppe, scudetti, vittorie e sorrisi larghi larghissimi infiniti dipinti su volti magari colorati eppure graditi.

Poi, in fondo ma visibili ancora, ho visto i neutri-disimpegnati-equidistanti da tutto e tutti, tronfi del loro distacco e ansiosi di accumularne altro e ancor più consistente e spesso. Ho aguzzato la vista per vedere se, altrove se non proprio lì, ci fossero gli altri: quelli di servizio, che cercano ogni giorno di dare spessore al bene comune, alla verità, alla libertà; quelli che onorano il loro e nostro tempo intriso di vera (ma anche solo presunta) democrazia assumendo incarichi onerosi, senza nulla chiedere in cambio;quelli che aiutano gli storpi (diversamente abili, così si deve argomentare) a salire le scale, i malati a vivere almeno un altro giorno, i bambini (chiunque essi siano) a nascere circondati da tenerezze, gli alluvionati a trovare argini che li sollevino oltre il fiume di lacrime già versato, i paurosi a vedere oltre il buio, i potenti a redimersi, i ricchi ad avere misericordia per i poveri e i poveri ad avere uguale misericordia per i ricchi, io e voi ad “avere la capacità di difendere le proprie ragioni senza calpestare quelle degli altri, anche se diverse e contrastanti con le loro.

Infine, stanco ma ancora illuso di incontrare qualcuno disposto a cercare insieme sprazzi di luce, ho inciampato nella figura ideale di uomo/donna, politico/politica, sindaca/sindaco, prete/suora, papa/pope, stupido/stupida, incolta/colto, filosofo/filosofa… un chicchessia capace però di “vedere il futuro e di disegnarlo secondo realtà”, senza badare a chi, magari la metà di coloro che lo ascoltano, rifletta all’incontrario, notando l’ombra e mai io dito che la proietta”. Uno di questi “chicchessia si chiamava Aldo Moro, che a causa delle sue idee e i suoi ideali di pace, giustizia, democrazia, fede e verità venne rapito e ucciso da banditi imbevuti di odio, vili, senza ragione e senza anima, belve piuttosto che persone. Tutto questo accadeva quarantacinque anni fa, ma ricordandolo l’altro ieri, venerdì, a Borgosatollo (paese dell’immediata periferia di Brescia dove un gruppo di coraggiosi tiene vivo il suo ricordo) insieme a Giorgio Balzoni (giornalista che gli fu allievo e collaboratore e che per questo gli ha dedicato due libri: uno per ribadire che egli fu davvero “il professore” di vita e di pensiero, l’altro per ragionare sul calvario subito per mano delle “brigate rosse) e a Paolo Terzi (giovane dell’Università Cattolica, dottorando in studi umanistici), ho di nuovo risentito il peso delle emozioni vissute commentando lo strazio e aspettando giorni migliori.

Era mattino, ma dalle finestre già aperte di una casa vicina mi giungeva il canto di un “miserere”, quello amaro dolce riflessivo e carico di speranza che due menestrelli illustri – tali Pavarotti e Zucchero – innalzarono alla luna pregandola d’essere, anche lei, misericordiosa. Diceva: “Miserere, misero me. / Però brindo alla vita! / Ma che mistero, è la mia vita / che mistero. / Sono un peccatore dell’anno ottantamila / un menzognero! / Ma dove sono e cosa faccio / come vivo? / Vivo nell’anima del mondo / perso nel vivere profondo! / Miserere, misero me. / Però brindo alla vita! / Io sono il santo che ti ha tradito / quando eri solo / e vivo altrove e osservo il mondo / dal cielo / e vedo il mare e le foreste. / Vedo me che… / Vivo nell’anima del mondo / perso nel vivere profondo!/ Miserere, misero me. / Però brindo alla vita! / Se c’è una notte buia abbastanza / da nascondermi, nascondermi… / se c’è una luce, una speranza, / sole magnifico che splendi dentro di me /
d
ammi la gioia di vivere che ancora non c’è. / Miserere, miserere. / Quella gioia di vivere che forse / ancora non c’è”.

Che altro era quella canzone cantata alla luna se non quella “fenomenologia dell’altruismo” a lungo cercata e sognata? Soprattutto, che significato aveva quel gridare alla “fenomenologia dell’altruismo” quasi fosse lei e non altra la panacea di tutti i mali? Esattamente non lo so. Però, immaginando, ho dedotto che comunque doni, se il dono è sincero, appartieni al fenomenale, cioè sei capace di prendere qualcosa di tuo e di metterlo a disposizione di uno sconosciuto.Poi, cercando spiegazioni meno approssimative e intuitive, ho trovato l’altra risposta, supportata dal pensiero di Mauro Bonazzi, filosofo che le lezioni le scrive e le pubblica, quella che dice come la fenomenologia dell’altruismo” racconti le avventure della coscienza, che rinunciando alle proprie convinzioni inziali raggiunge un punto di vista assoluto sulla realtà, comprendendola per quello che è e non per quello che appare allo sguardo limitato di un osservatore. Chiaro? Non proprio e non per tutti. Infatti, chi per primo, o comunque appena dopo il primo o il secondo per non dire il millesimo o milionesimo, accetterebbe di incominciare a cercare gli altriper formulare una risposta definitiva al bisogno essenziale e non limitabile di fare insieme o almeno concorrere al bene comune?”. L’altro ieri avrei risposto pochi o nessuno. Ieri, vista tanta gioventù mettersi in fila, pronta a spalare fango e acqua per dare sollievo alle popolazioni colpite dall’alluvione, mi sono ricreduto e la risposta s’è modificata: fare insieme è possibile, basta volerlo, basta smetterla di sentirsi fuori dalla mischia, basta smetterla di stare alla finestra vedendo la gente che passando sulla via chiede un contratto, una casa, un lavoro, una dignità, un posto asciutto e generoso di vita, un soldo per vivere-studiare-amaresenza sentire l’impeto della partecipazione.

Eppure, tre per quattro, è così che funziona questo bislacco mondo. Invece, dice il filosofo “abbiamo bisogno gli uni degli altri, perché abbiamo bisogno di vedere noi stessi riflessi nell’altro, riconosciuti e apprezzati dagli altri per quello che siamo e per quello che facciamo, riconosciuti e amati nella nostra dignità. Altrimenti, senza gli altri non siano in grado di ritrovare noi stessi”. Può sembrare un paradosso, ma è così. Parola di un filosofo, non di un santo prete, o di una beata suora, o di un laico illuminato e impastato di vangelo… Basta guardarsi intorno per capire la forza di questa idea, per rendersi cinto come questa rabbia crescente, che attraversa la nostra società, nasca proprio dal mancato riconoscimento di persone, magari prossime-vicine-amiche-dirimpettaiecasalinghe-comuni-simili e similmente appassionate al bene, che si vedono respinte ai margini, sempre meno integrate… Per uscire dal grezzo spazio eretto a difesa del proprio io, servirebbe ricreare un senso di comunità condivisa. Equesta sarebbe davvero la sfida a cui trovare in fretta una risposta…

Solo parole? Può darsi, non lo nego. Eppure, ancora sono disposto a dare a ciascuna di loro credibilità e onorabilità. Soprattutto perché le parole che fanno il dialogo, che allietano i cuoritimorosi, che spiegano l’arcano, che illuminano gli oscuri androni dove si rifugiano i negatori del dialogo e del confronto, che fanno la differenza tra l’esser veri e lieti e l’esser tristi e falsi, proprio loro, parole ben dette, sono la soluzione e non la negazione del possibile. “Ma dai – mi ha chiesto appena un minuto fa la venditrice di pane domenicale -, come si fa a dar credito a parole mai così tanto sprecate e mal pensate?”.

Tanta spicciola ma saggia filosofia mi ha fatto pensare, auspice la scienza e il genio del fu e rimpianto Umberto Eco, a quel tale,Paul Guldin, che nel 1622, mica ieri, in un trattato dedicato al“problema delle cose combinabili” (libera traduzione, perdonatela) calcolava quante parole avrebbero potuto essere prodotte con le 23 lettere dell’alfabeto, usate all’epoca, combinandole a due a due, a tre a tre e così via, fino a considerare parole di ventitré lettere, senza tenere conto delle ripetizioni ma senza preoccuparsi se le parole generabili fossero dotate di senso e pronunciabili, arrivando a una cifra superiore ai settanta miliardi di miliardi (provate a scriverle se ne n e siete capaci e se ci riuscite: io no) “per scrivere le quali sarebbero occorsi più di un milione di miliardi di miliardi di lettere. Per non dire delle passioni combinatorie suggerite da quell’altro, tale Marin Marsenne, che in un’illusaarmonia universale” datata 1826, inducendo a considerare non solo le parole pronunciabili in francese, greco, ebraico, arabo, cinese e ogni altra lingua possibile, ma anche le sequenze musicali generabili, dimostravache per notare tutti i canti producibili sarebbero occorsi più rismedi carta di quante non ne servano a colmare la distanza tra la terra e il cielo. Poi, ecco Gottfried Wilhelm von Leibniz, scritto alternativamente – in tedesco ed in francese – Leibnitz e conosciuto anche come Leibnitius in latino e Leibnizio in italiano, che è stato un matematico, filosofo, logico, teologo, linguista, glottoteta, diplomatico, giurista, storico e magistrato tedesco, chenel suo “orizzonte della dottrina umana”, chiedendosi quale fosse il numero massimo di enunciati, veri falsi o persino insensati, si possono formulare con un alfabeto finito fissato a ventiquattro lettere e mettendo in conto la possibilità di formare parole di trentun lettere (lui trovò esempi in greco e in latino, molti altrineppure in dialetto), risponde che “un enunciato può essere lungo come un libro e che la somma degli enunciati, veri o falsi, che un uomo può leggere nel corso di una vita, calcolando che legga cento fogli al giorno e che ogni foglio sia di mille lettere, è di 3.650.000.000. Se pure quest’uomo vivesse mille anni… il numero di tutte le verità, falsità o periodi enunciabili e leggibili, pronunciabili o non pronunciabili, significativi o meno, saràimmenso, illeggibile e impensabile. Immagino ai più, tra i quali volentieri e ansiosamente m’accomodo.

Fantasie dove la matematica sfiora la metafisica? Vero. Però in “centomila miliardi di poemi” Raymond Queneau dice che sfogliandoli tutti si possono combinare in modo diverso i quattordici versi di un sonetto, in modo da comporre centomila miliardi di poesie. Dubito, quindi esisto e sono. Però, come combino parole enunciati e poesie con quel bisogno di fare insieme di cui disquisivo qualche riga fa?

Wislawa Szymborska, poetessa insigne, mentre canta il compleanno, chiede: “Non è troppo per me il sole, l’aurora? / Che cosa può fare l’umana creatura? / Sono qui un istante, un solo minuto: / del dopo non saprò, non l’avrò vissuto. Come distinguere il tutto dal vuoto? / Dirò addio alle viole nel viaggio affrettato. / Pur la più piccola – è una spesa folle: / lo scialo di stelo, petali e pistillo / una volta, a caso, in questa vastità, / con sprezzo è precisa, di altera lievità”.

Nel frattempo leggo anche proclami scritti su fogli striminziti e certo solo conditi con quattro fili di spago, così, tanto per non disunirli e consegnarli poi intonsi ai babbei che credono ancora di poter prendere il nulla e di trasformarlo in qualcosa. Come se unire due terre – Calabria e Sicilia – con un sol ponte sia roba da niente; come se far tacere le armi e far finire la guerra siano un gioco e non la traduzione del fare insieme; come se accettare e dare accoglienza a cento o centomila disperati sia impossibileperché dominano i rancorosi e gli avari; come se il bene comune fosse comune a pochi e non a tanti o addirittura a tutti.

E’ il classico gioco delle scatole cinesi o delle russe matrioske: ne togli una e ne trovi un’altra più piccola, sempre più piccola, invisibile agli occhi e forse anche al cuore. Che se ben ci pensi equivale al gioco del disimpegno, esattamente l’opposto della “fenomenologia dell’altruismo”. Così, a caso, per gioco, per fare in modo che il giorno schiarisca e abbia fortuna degna d’essere condivisa, leggo Aristotele. E lo trovo eloquente-divertente-suadente, sempre, sebben e comunque filosofo assolutamente.Imbastendo “racconti meravigliosi” il massino filosofo dice che “in Egitto i trochili volino fin dentro le fauci dei coccodrilli e ne puliscano i denti, estraendo con il becco le carni che si sono conficcate loro all’interno della bocca; i coccodrilli ne traggono giovamento e non fanno ad essi del male; dice anche che i ricci a Bisanzio siano in grado di percepire quando soffiano i venti di borea e quelli di noto e di conseguenza cambino subito i loro rifugi: quando soffia noto, praticano buchi nel pavimento, quando soffia borea nei muri”; aggiunge che “le capre di Cefalonia non bevono, a quanto pare, come gli altri quadrupedi, ma ogni giorno volgono il muso verso il mare e spalancando la bocca fanno entrare aria”; informa che “a Cilene, in Arcadia, e in nessun altro luogo, i merli siano bianchi, che emettano suoni dalle molte sfumature, e che volino in direzione della luna… e se qualcuno si imbatte in essi durante il giorno, difficilmente riesce a catturarli”.

Libero lui di dire e noi di essere d’accordo o in disaccordo. In ogni caso, liberi e sazi di libertà, di cui volentieri scrivo il suo nome, così che tutti sappiano quel che Paul Eluard (pseudonimo di Eugène Émile Paul Grindel, poeta francese, tra i maggiori esponenti del movimento surrealista) scrisse nel 1945 al fiorire del nuovo immaginato e atteso mondo, E cioè che in virtù d’una parola / ricomincio la mia vita. / Sono nato per conoscerti / per chiamarti / libertà”. Poi e infine, per dare senso compiuto alla “fenomenologia dell’altruismo” di cui s’è inzuppato questo domenicale, rimetto al centro le ultime quattro righe della letterainfarcita di se e ma che Rudyard Kipling scrisse al figlio. Quelle che dicono se riuscirai a riempire l’attimo inesorabile e a dar valore a ognuno dei sessanta secondi (immagino ancora a sua disposizione), il mondo sarà tuo allora, con quanto contiene e – quel che è più – tu sarai un Uomo, ragazzo mio!”.

Torno a cantare alla luna. Chissà, forse mi ascolta. E insieme a Winnie the Pooh mi dice:Arrivi giusto in tempo per il momento più bello della giornata: quello in cui tu e io diventiamo noi”.

LUCIANO COSTA

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