Il Domenicale

Festa dei nonni, festa di un mondo senza fine…

Se ne stava appollaiata sul fianco di un cassonetto per la raccolta dei rifiuti, sembrava messa lì per avvisare di non fare scherzi, di mettere la spazzatura dentro e non fuori. Invece era una massima di quelle imperdibili, qualcosa in più di una semplice e accorata perorazione di civismo, era una vera e propria lezione di stile e di vita, una svolta nel modo di intendere le relazioni umane. Diceva: “La gente che ti parla va bene, ma la svolta è solo quando trovi la gente che ti ascolta”. Era vera quella frase, bella davvero, anche solenne, pure sognante il giusto, magari provocante, però ripiena di quella buona filosofia che spiega chi siamo o come dovremmo essere se appena fossimo interessati al bene comune piuttosto che allo star bene da soli. Non solo. Quella frase appesa al cassonetto dell’immondizia, luogo di arrivo per tutto ciò che gli umani considerano rifiuto, metteva in chiaro che la vita è bella, ma che lo è di più e meglio se qualcuno è disposto ad ascoltare. Invece, sempre più spesso, sembra che nessuno ascolti…

Ieri, vigilia della festa dei nonni (si celebra oggi 2 ottobre), i ragazzi delle elementari di una scuola cittadina hanno chiesto e ottenuto di avere i nonni vicino a loro, per una festa insieme, piccola ma importante, per il tempo di scambiare sorrisi e abbracci, per vedere che effetto avrebbe fatto mettere in fila ragazzini e ragazzoni per farli camminare in uno splendido girotondo. Stamani all’alba, ripensando a quei ragazzini e ragazzoni in girotondo, non sono riuscito a trattenere quella furtiva lacrima che, impertinente, fa la differenza. Così, tal quale a un menestrello sognante poesie buone per condire e aggraziare il tempo dei nonni (che poi sarebbe anche il mio e, spero, di tanti altri) ho scritto a Viola, Massimo, Vittoria Celeste, Riccardo, Matilde, Maria, Mario, Giuseppina, Luigi, Camilla, Enrico, Agnese, Luca, Beatrice, Andrea, Irene, Francesco, Concetta, Enrico, Lisa, Paolo e Concettina… (insomma a tutti i bimbi del mondo, quale sia il loro nome)  per dire non abbiate vergogna o timore a cercare i nonni, dite a ciascuno “guarda che ti voglio bene, che sei importante, che non importa se ti muovi come un bradipo (così si è espressa la signorinella mentre abbracciava il nonno, così riferisco), importante è che tu esista, che tu sorrida, che tu condivida il tuo tempo con me, che tu mi parli perché io sono disposta ad ascoltarti…”.

Ovviamente il seguito ha messo in circolo un’altra lacrimuccia, che seppur furtiva possedeva tutte le emozioni del mondo. Allora ho fato mio quel che avevo letto prima su fogli sparsi e dimenticati e l’ho messo in bella evidenza. “Noi, persone anziane – diceva quel pezzo di giornale scampato alla distruzione – abbiamo spesso una sensibilità speciale per la cura, per la riflessione e per l’affetto. Siamo, o possiamo diventare, maestri della tenerezza. Abbiamo bisogno, in questo mondo abituato alla guerra, di una vera rivoluzione della tenerezza!”. Ho il sospetto che l’abbia s critto Francesco, il papa che vuole rendere possibile anche l’impossibile, quello che tra le righe del suo dire ha spiegato che “la vecchiaia è un dono di maturità e di saggezza per tutte le età della vita” che “essere anziani è altrettanto importante e bello che essere giovani”, semplicemente, o soprattutto, perché gli anziani trasmettono la storia, custodiscono la fede…”.

E questo dimostra che il mondo ha bisogno di “giovani forti” e di “vecchi saggi” e anche che “la vita dell’anziano è un congedo lento, ma gioioso…”. Qualche anno fa, davanti a un gruppo di suore invitate per raccontarmi la loro storia, per farmi partecipe delle loro idee, per spiegarmi di che pasta son fatte le donne che invece dell’abito da sposa hanno scelto quello della religiosa in perenne servizio ai poveri e ai disperati del mondo, ho provato l’amarezza del sapiente che improvvisamente scopre di essere ignorante… Credevo di possedere sensibilità, acutezza, capacità di comprendere e condividere… Credevo, invece ero uno-nessuno-centomila che nulla sapeva pur pretendendo di sapere qualcosa. Eppure, scoprivo tra le parole pronunciate da quelle pie, vecchie, anziane, vetuste, longeve donne, semplicemente e solo diversamente giovani, l’essenza della felicità. E non mi stupii quando una di loro, sussurrandomi un saluto, mi disse: “Ogni sofferenza umana contiene in sé il germe della felicità, basta saperla ascoltare con disponibilità”. E se a volte sembra che nessuno ascolti più, non preoccupatevi: di sicuro nel giardino dell’esistenza c’è e ci sarà sempre un albero, oppure un fiore, o una coccinella, magari una farfalla o una formica, un cane o un gatto disposti ad ascoltare, a prendervi sul serio, a mettere le vostre e nostre idee ed i nostri e vostri sentimenti al primo posto, avendo certezza che, in definitiva, ciò che abbiamo da dire ha un valore immenso. Però, anche se può sembrare paradossale, proprio nell’epoca della comunicazione globale e della connessione virtuale continua, le persone non hanno mai fatto così tanta fatica a capirsi fra loro. Tutta colpa della presunzione, dei facili pregiudizi, dell’incapacità di conoscere, capire ed integrare la realtà che ci circonda?

“Parlare è un bisogno – ha scritto Goethe -, ascoltare è un’arte”. Il bisogno di ascolto è una delle cose che non si dicono, perché dire cose di quel genere può sembrare una pretesa, un chiedere impetrare o pretendere qualcosa che pochi o nessuno sono disposti a concedere. “Questo – secondo un piacevolissimo e sconosciuto poeta di strada – rende bene l’idea di una esigenza di cui è stracolmo questo periodo storico contraddistinto dal tuismo”, nulla più di un neologismo che sta a significare che molti danno del tu a tutti senza troppe distinzioni di ceto, professione o età, che lo fanno in un tempo in cui va di moda il ciao caro, il ciao bella o bello, il come va, caro dove quel caro molto usato non significa proprio niente. Sta infatti lì a significare l’occasionale incontro, occasionale e solo di cortesia… Buono per sembrare ottimisti e benevoli, non per dare valore alla virtù dell’ascolto, che è mitezza e scienza accavallate fino a diventare un’unica realtà, Così, si parla, di sé stessi, dei propri problemi o ambizioni senza dare ascolto a chi abbiamo di fronte, magari vecchio e sdrucito, però persona… Disposti a parlare, ma solo in rarissimi casi ad ascoltare. Ragion per cui l’ascolto resta sospeso, spesso sconosciuto.

“In un’epoca in cui molti ostentano un ego ipertrofico e ripetono una serie infinita di io, io, io… – ha declamato il più tenero e illuso dei filosofi stradaioli – sono rari coloro che usano l’attenzione di ascoltare, anche col cuore, il prossimo, l’interlocutore”. Un prete amico sostiene che bisogna mettere amicizia anche dove l’amicizia è sconosciuta, anche tra chi vive ai margini della società, anche tra chi non ha tetto e casa, anche tra chi gli affetti è stato costretto a metterli in disparte. Invece, sarebbe bello ripetere e dare consistenza al vecchio adagio popolare che diceva “chi trova un amico trova un tesoro” e, ancor di più, spiegava che chi trova un amico disposto ad ascoltare veramente trova un grande tesoro. Perché, come insegna il poeta, “a un vero amico, se vecchio ancor meglio, non c’è bisogno di dire neanche grazie”.

I nonni, adorabili amabili conosciuti e sconosciuti abitanti di un Paese che li vede senza considerarli parte fondamentale dell’essere e del divenire… I nonni, se non ci fossero bisognerebbe inventarli. La loro, infatti, è una stagione della vita che più di altre si presta a dimostrare la fondatezza e la praticabilità della solidarietà. E’ quella che i sociologi definiscono “terza” e la gente normale “anzianità”. Non è la stagione più facile, ma certo la più completa. Essa, infatti, dimenticati e subito sostituiti gli ardori e le pretese della fase intermedia con la pacatezza del giudizio e con la tenerezza dei sentimenti, consente di vedere al di là della personale sfera dei bisogni per considerare quelli dell’altro preminenti e perciò degni della massima attenzione.

I nonni, portatori di valori e di sorrisi. Ma che cosa possiede di così straordinario il tempo di “quei valori vissuti e distribuiti, di sorrisi regalati e ripetuti?”. Raccontano le cronache del tempo che fu, che nelle  domeniche primaverili a cavallo del tempo dedicato alla benedizione delle campagne centinaia di persone – nonni, uomini, donne, giovani, bambini e ragazzi – vestite con l’abito della domenica e fiere della loro professione, si ritrovarono in chiesa per rendere grazie a Dio del bene ricevuto e poi in cascina per consumare in allegria quel che le donne rurali avevano amorevolmente e sapientemente cucinato. Erano domeniche speciali. E quell’incontro che riuniva vecchi, nonni, giovani, ragazzi e bambini, mamme e zie, preti e suore, santi e peccatori era il segno di una solidarietà vissuta e condivisa. E aveva connotati inconfondibili: paesaggio sul quale emergevano imponenti i campanili delle parrocchie, terra da rendere fertile ed amica, gente fiera del lavoro e dei calli maturati manovrando badili, forche e zappe, fedeltà alle tradizioni e forte attaccamento alla chiesa dentro la quale ci pareva d’essere tutti finalmente uguali. Anche i problemi erano sempre gli stessi: vivere e aiutare a vivere, figli da allevare, nipoti da accompagnare e, allora, da mandare, se possibile, a scuola.

Eppure, si viveva meglio. Ci si accettava per quello che si era. Solo raramente si sprangavano le porte. C’era sempre una scodella di minestra calda per il mendicante e una paletta di farina per il povero. Attorno al mucchio di pannocchie maturavano amori e si esercitava il “mutuo soccorso”. Al tepore della stalla, uguale per tutti, prendevano forma i progetti e si consolidavano le speranze. Nella canonica del vecchio parroco si componevano le liti e sul campetto dell’oratorio si esaltava la pacifica convivenza. Tutto sotto lo sguardo vigile dei nonni, testimoni del tempo, pietre di paragone, amici con cui confidarsi avendo certezza di essere ascoltati.

Ma era ieri! E oggi? Volendo tutto è ripetibile. Intanto, per non far passare la festa, dite ai nonni che sono la cosa più tenera che esista e anche che se non ci fossero bisognerebbe inventarli.

LUCIANO COSTA

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