Fine dei giochi…

Fine dei giochi: prima quelli olimpici, che hanno esaurito il loro corso regalando all’Italia indubbie soddisfazioni, poi quelli vacanzieri e parolai, che lasciano il posto ai classici quindici giorni di relax totale e lontano dal solito tran-tran, di seguito quelli politici, che trovando il Parlamento chiuso per ferie dovranno cercare altri palcoscenici (spiagge, bar, piazze, salotti, sentieri, baite, ville, barche e quant’altro sia capace di ospitare qualcuno) su cui esibirsi. Detto oggi, questo fine dei giochi ha il sapore della sfida. Potrebbe infatti significare che da qui in avanti si fa sul serio, si cambia, si ricomincia, si riparte, si corre verso qualcosa che si vorrebbe bello-nuovo-interessante-gioioso-soddisfacente e, soprattutto, pieno di salute. Per essere sicuro di appartenere a questo auspicio sono corso a guardare il mio green-pass, quello conservato nelle spire del cellulare e quello cartaceo, che per la teoria del non si sa mai tengo a portata di mano, pronto all’uso e a dimostrare che i vaccini han trovato degna ospitalità. Verificata la mia appartenenza al popolo dei vaccinati (il green-pass è in fondo fatto apposta per questo) e ritenendomi fortunato, mi sono azzardato a immaginare che anche la pandemia fosse giunta alla fine dei giochi. Invece… Invece i numeri dicono il contrario. Quindi, sarà il caso di non abbassare la… mascherina se si vuole impedire alla perfida madama di farla ancora da padrona. E poi, come dice il mio amico alpino, “bisogna ricominciare a correre, con passi svelti e ben cadenzati se possibile, altrimenti con parole ben spese, regalando consigli, spianando sentieri, facendo in modo che nessuno sia escluso dalla corsa, magari lasciando anche spazio alle emozioni”. Ho letto da qualche parte che “emozionarsi vuol dire correre” perché è correndo che la vita acquisisce l’intensità desiderata, sale di grado, smette di essere precaria e diventa preziosa, cioè tutta da vivere…

Tutto facile? Non scherziamo. Nella migliore delle ipotesi, sullo sfondo del personale vissuto quotidiano, prenderanno forma crucci e problemi, attese inevase, domande senza risposta, speranze deluse, incontri indesiderati, parole senza senso, nostalgie accantonate… Eccolo il pericolo più evidente: la nostalgia. Nostalgia, cioè il dolore del ritorno, un impasto ordinato di dolore e di dolcezza, “un protendersi indefinitamente – come scrive il filosofo – verso ciò che è lontano, forse perduto”. In questo tempo di giochi olimpici ha ascoltato gli inni nazionali che salutavano ogni medaglia d’oro conquistata, ho osservato i volti dei vincitori, misurato la loro felicità e anche il loro smarrimento. Ho allora pensato che molti di loro oggi sono eroi, ma domani… Infatti, nonostante l’alone di parità e fratellanza steso sull’Olimpiade, restano evidenti le disuguaglianze… Da una parte chi ha troppo, dall’altra chi ha troppo poco. E le parole non bastano per spiegare come ciò sia possibile e continui ad accadere. Eppure le parole, unico strumento che abbiamo per fare ordine nella realtà e per trovare il senso e il valore nelle cose e in noi stessi, dovrebbero contare, fare la differenza, diventare pietre capaci di arginare i soprusi e risposte precise ai venditori di fumo e ai predicatori di sventura. Magari anche preziose alleate nella ricerca di antidoti efficaci alla nostalgia, a quel dolore di ritorno che non smette mai di bussare alla porta.

Personalmente ho però nostalgia, questa volta intesa come rimpianto di qualcosa di utile e buono, di quel tempo in cui le differenze venivano annullate dalla capacità di condividere, la solidarietà era parte del quotidiano e l’accoglienza uno stile che incominciava dalle porte lasciate aperte e proseguiva con l’offerta di quel che c’era in cucina o nella madia. Mi mancano, e per questo ne ho nostalgia, parole e gesti pensati-buoni-sinceri-schietti-immediati. “Sembra che sforzarsi di essere buoni – ha detto Julio Velasco nel bel mezzo delle chiacchiere imbastite attorno alle Olimpiadi – sia diventato un difetto. Per cui – ha aggiunto – se uno qualsiasi cerca il bene, passa per idiota: un buonista, un falso. Non è così. L’educazione si basa sul reprimere certi impulsi che possono far male agli altri…”. Sembra una predica, ma è invece, come ha scritto Gramellini nel suo caffè quotidiano “il grido di dolore con cui un mite denuncia l’incarognimento collettivo favorito da una comunicazione social che premia l’insulto frontale”.

Tale e quale a quella esibita dal Principe dei Celoduristi, che ci eravamo illusi di averlo ritrovato se non nuovo almeno rinnovato nel pensiero e nello stile mentre invece restava irrimediabilmente lo stesso: un boiardo intento a menar colpi, uno al cerchio e l’altro alla botte, in modo da restare sempre a galla, illuso, felice, impunito e, ahimè, forse anche premiato dal voto che verrà. Ha ragione il Sergio Staino che nella sua vignetta olimpica mostra il Principe dei Celodurista incazzato che monologa dicendo: “C vengono a portare via il lavoro, a portar via le donne… e non contenti, anche le nostre medaglie”.

Siamo di fronte all’illimitato, al superamento dei limiti, che sul piano politico è anche adesso riassumibile leggendo Montesquieu, laddove dice che “perché non si abusi del potere, il potere deve fermare il potere”. Quindi, per noi, la Costituzione deve garantire la separazione dei poteri. Infatti “è sovrano chi non ha bisogno di un padrone, perché è padrone di se stesso”. Il rischio, infatti, è che “quando la sicurezza non è garantita da una legge uguale per tutti, gli uomini non hanno altra scelta che giurare fedeltà al più forte”. Per andare oltre questo pericolo serve allora esercitare e vivere la solidarietà. “A differenza dell’assistenza o della carità – ha scritto un professore francese – , la solidarietà non divide il mondo tra chi dona senza ricevere e chi riceve senza donare. Tutti contribuiscono secondo le proprie capacità e ricevono secondo i propri bisogni. Dovrebbe essere uno strumento potente per passare da una logica della globalizzazione, che mette in competizione tutti contro tutti, a una logica della mondializzazione, cioè di solidarietà tra nazioni rispettose della diversità delle loro storie e culture. Così, ad esempio, la questione della migrazione non sarà risolta né dalla costruzione di muri né dall’abolizione dei confini, ma dalla solidarietà tra i paesi del nord e del sud, in modo che tutti i giovani africani non siano costretti all’esilio per poter sperare di vivere con un lavoro decente”.

Fine dei giochi. E, ovviamente, buona domenica a tutti.

LUCIANO COSTA

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