Spinto da irrefrenabile desiderio di dare una spolverata ai ricordi, ieri sera mi sono mischiato ai tanti arrivati per vedere lo spettacolo che raccontando la storia di un poverello (d’Assisi, mica di qualche sperduto anfratto di periferie malsane o di stazioni dove si dà appuntamento l’umanità smarrita), sicuramente pazzo la sua parte ma forse e soprattutto per questo un santo di fronte al quale è giusto togliersi il cappello e piegare le ginocchia, regalava a chi avesse orecchie per intendere, occhi per vedere e cuore aperto agli altri (lì per lì sconosciuti, ma destinati a diventare in fretta compagni di un magnifico viaggio) lezioni di vita e argomenti a cui aggrapparsi per passare dalla paura alla gioia.
Cosa non facile, ma possibile. Infatti, in scena non c’era un qualsiasi e triste “Gobbo…”, o un raffinato “Cats”, o un presuntuoso “West side story…”, ma quel “Forza venite gente…” che al solo apparire (il calendario segnava l’anno 1981 e Roma era ancora patria desiderata di artisti e novellatori) aveva stupito ed esaltato gli umili, infervorato la gioventù e gettato nello scompiglio i facitori di commedie buone per far solletico agli occhi, stimolare appetiti e arricchire le orecchie con refrain il cui senso era impercettibile ma comunque idoneo a restare ben impresso nella memoria dei commensali. Nel gran teatro di Brescia (una volta Palatenda, adesso Morato) eravamo in tanti. E appena il sipario svelò la scena, sollecitati dalla musica, ci siamo ritrovati insieme a cantare “forza venite gente che in piazza si va…”, a seguire a memoria la recita, a far tesoro delle lezioni portate fin lì da “sorella Provvidenza”, a immaginare quel mondo nuovo in cui le pietre portate a Francesco diventavano casa e chiesa di tutti, dove il pane era buono come e più di qualsiasi tordo o beccaccia esibiti sulla tavola del ricco Bernardone, dentro il quale la pazzia era un vanto e la normalità un peso, qualcosa molto affine all’idea della povertà che è bellissima se scelta ma amarissima se imposta, una realtà da circondare di pace piuttosto che di pugnali (che ai tempi del Poverello non mancavano) e di fucili (di cui oggi siam fieri produttori e venditori incoscienti).
Cantando e aspettando il resto del musical mi son ritrovato, per un attimo soltanto, a pensare all’effetto che avrebbe fatto gridare ai fautori di guerre (chiamateli come volete, son loro, ben identificabili dalla furia che mettono nel gridare al vento le loro presunte ragioni e dalla incapacità di pronunciare correttamente non già discorsi e lectio magistralis inneggianti alla concordia, ma semplici parole di pace) “forza, venite, che in piazza si va…” per chiedere ai lupi di diventare agnelli, per cantare la gioia, per abbracciarsi e sentirsi finalmente fratelli, per dimostrare che siamo diversi ma uguali, per mettere in chiaro che la pace e non la guerra è il futuro dei popoli, per colorare d’azzurro ciò che il tempo ha reso grigio, di rosa quel che i violenti hanno sciupato e lordato, di verde ciò che l’odio ha cancellato, di rosso tutto quel che era amore e che l’insipienza umana ha mercificato e banalizzato… Era bello pensare che di lì a poco le ragioni della pace avrebbero invaso il campo minato da interessi e voglie malsane di potere illimitato… Bello e impossibile, almeno fin quando, tutti insieme, non fossimo riusciti a mettere fiori nei cannoni e a pronunciare parole di benvenuto per chiunque si avvicinasse…
Invece, eravamo a teatro e sul gran teatro del mondo (ri)andava in scena quel “forza venite gente…” che quarantun anni prima aveva regalato speranza, sogno, gioia, voglia di fare per dare all’essere e al divenire sembianze nuove, entusiasmo e granelli di umanità con cui condire la propria avventura. Quarantun anni prima il musical era in scena in uno dei primi Palatenda di Roma, sulla via Cristoforo Colombo. Parlava di Francesco, il poverello d’Assisi, e lo faceva in maniera spensierata, mischiando fratello sole e sorella luna con la poesia e quel filo di mistica fatto apposta per appassionare giovani e non più giovani. Cantava “forza, venite gente, che in piazza si va…”, e Francesco spiegava a frate Leone che cosa era la “perfetta letizia” mentre la Cenciosa diceva che se la povertà era di tutti, allora era vera ricchezza…
Quella sera Roma, dove mi aveva trascinato il direttore del giornale che pubblicando i miei scritti mi assicurava anche pane e companatico, invitava a sedute in trattoria. Invece proposi a don Mario Pasini, direttore e coraggioso giornalista allora in prima linea nel comunicare e promuovere occasioni di incontro, di confronto e di cultura, di andare a vedere-sentire-gustare e magari a valutare se era possibile portarlo a casa quel “Forza venite gente di cui si diceva un gran bene ma che nessuno dei grandi media del tempo si occupava. Fu amore a prima vista. “Questa è musica e insieme lezione e riflessione sull’esistenza e sul vivere condividendo felicità e letizia…”, disse il prete. Per portare lo spettacolo a Brescia non ci fu bisogno di trattive, bastarono una stretta di mano e un ci vediamo alla tal data detto in trattoria con Michele Paulicelli e Mario Castellacci (il primo autore e anche attore nei panni di Francesco, il secondo autore e sceneggiatore), con Silvio Spaccesi (il mitico e pacioso Pietro di Bernardone) e Oreste Lionello (fantastico all’occorrenza nel fare il cencioso al posto della Cenciosa) – più o meno tre quarti del mitico Bagaglino -, che vedevano nella trasferta bresciana l’inizio di una grande avventura.
E fu davvero una grande avventura. “Forza venite gente” trovò ospitalità a Brescia non una e nemmeno due o tre volte, ma oltre diciotto volte, e ogni volta con repliche che occupavano lunghi fine settimana e giorni feriali per consentire alle scuole di partecipare. Ogni volta era una festa, col Palatenda che seppur senza una sede stabile era costantemente esaurito, con decine di ragazzi e giovani che facevano la fila per chiedere se e come potevano prendere il musical e “fabbricarlo a casa loro”, con attori inventati e scene costruite con cartone e pura fantasia. Don Pasini era il punto di riferimento per tutti; noi ci mettevamo l’anima.
Con gli attori e gli autori che a Brescia tornavano sempre volentieri fu amicizia, di quelle vere, che ogni volta si rinnovava e invocava occasioni per conoscere meglio la gente e la bellezza di una citta e di un territorio ospitali e forse, per loro almeno, unici. E più di una volta capitò che Oreste e Silvio, trascinando Michele e Mario e tre quarti della compagnia, finito lo spettacolo chiedessero di salire alla Madonna della Stella per respirare aria buona e benedetta e vedere la città illuminata e i paesi adagiati sulla grande pianura.
Che tempi!
Brescia si beava di quei giullari che cantavano e ballavano, che recitando regalavano emozioni e lezioni di vita buona. In tanti, ogni volta disposti ad applaudire e a invocare che la scena si ripetesse, restavamo rapiti dalle parole che scendevano dal palco come acqua fresca, capace di stravolgere i luoghi comuni, a rimettere al centro l’idea della santa pazzia come dono e non come danno, (“se Francesco dice che una cosa la vuole Dio – argomenta la Cenciosa -, tutti dicono che è matto; se invece si mettono in mille a dire che Dio lo vuole, tutti gli vanno dietro e diventano un milione; ma allora… per non essere matti bisogna essere in tanti… ) e a considerare la povertà una scelta virtuosa piuttosto che un peso (“peggio di tutti stanno i poveri – sentenzia Bernardone –, che sono degli spendaccioni tremendi, golosi di lupini, castagne secche, semi di zucca… addirittura di frittelle, quando c’è fiera; io – aggiunge fiero e tronfio – semi di zucca non ne ho mai comprati, per questo sono ricco; e ricco non è chi guadagna tanto, è chi non spende nulla… la povertà, signori miei, è quella lontana parente che tu fai di tutto per dimenticare, che la sfuggi se la incontri al mercato, perché sai che tanto ti tira la stoccata…
io non riesco a capire che gusto ci sia a essere poveri e a insistere, al pari di questi stupidi, a essere poveri…”).
Che tempi!
Tempi di festa, irripetibili, con repliche infinite (forse cento e più solo in città, ma quasi quattromila in Italia e poi in giro per il mondo chissà quante altre, come chissà quante sono state quelle fatte in casa e recitate su piazze e palchi improvvisati (ne ricordo una serie messa in scena dagli studenti del liceo linguistico Piamarta di Brescia, via Cremona: straordinaria e ancora adesso parte di un vissuto che i giovani di allora, ora genitori felici e professionisti affermati, portano quale esempio di un impegno che li aveva estasiati).
Ora che “Forza venite gente…” è tornato anche a Brescia (rinnovato ma ancora saldamente aggrappato a ciò che era stato), chissà che quei tempi tornino a dirci che si può fare buon teatro anche cantando le opere e i giorni di san Francesco, il poverello di Assisi, tempi capaci di farci gridare “forza venite gente che in piazza si va…” per chiedere pace e concordia… Ovviamente, per il mondo intero.
LUCIANO COSTA