Si chiama cancel colture e pare sia l’arte preferita dei fanatici integralisti, dei tronfi dittatori e, cosa non secondaria, anche dei cosiddetti intellettuali minimali, cioè minimi indipendentemente dalla loro taglia e dal pensiero solitamente vacuo che possiedono. Non che una cancellatura sia sempre fuori posto (conoscevo un tale che si lamentava perché veniva ridotto all’osso il suo ipotetico magistrale pensiero, ma che si rallegrava quando, riletto il pezzo accomodato, doveva ammettere che era decisamente migliore dell’originale), però, insomma, sottomettere a cancel colture la musica, lo sport al femminile, ogni espressione di bellezza autentica (tutte cose che i talebani saliti nuovamente al potere stanno facendo) e poi (ma questa volta per mano di prestigiose università americane) il greco, il latino e addirittura l’Odissea scritta da Omero, è come dire che la civiltà greca e latina non è mai esistita e che Omero più che un letterato capace di mettere al principio della storia quel “parlami, o Musa, dell’uomo versatile e scaltro che andò vagando tanto a lungo, dopo che ebbe distrutto la sacra roccaforte di Troia; egli vide le città di molti uomini e ne conobbe i costumi: soffrì molte traversie in mare cercando di salvar la sua vita e il ritorno dei compagni; ma neppure così i compagni li salvò, sebbene lo desiderasse e volesse…” che sottintende mirabili avventure e ancor più strabilianti sottigliezze narrative, se tutto va bene, è un ciarlatano venditore di fumo, balle e palle.
Non cancellerei un rigo di Omero, però cancellerei le corbellerie con cui quel tale che emulando Paneroni (un tenero e loquace laqualunque della Bassa bresciana che alla faccia della scienza e del sapere andava per fiere e mercati gridando “la terra non gira o bestie” ricevendo in cambio applausi e quartini di vino) si sbraca-agita-contorce sostenendo che “è il vaccino a generare le varianti omicide del virus tuttora circolante”. Ieri un fedelissimo del citato imbonitore di palle e propagatore di balle, ha ammesso che non lo capisce più quel suo capo che “scambia lucciole per lanterne” e che “mette in circolo panzane che non fanno ridere neppure i polli più polli del pollaio”. Ciononostante, sempre ieri, il ragguardevole “Corriere della Sera” pubblicava i risultati del sondaggio dedicato all’orientamento di voto degli italiani che assegnavano al vociante venditore di fumo, balle e palle “voti e consensi”, spero suggeriti più dai mal di pancia diffusi che da una ponderata pesatura delle idee e dei pensieri da lui posseduti.
Se questa tendenza che assegna voti e consensi a uno che se ne frega di riconoscere alle parole il valore che possiedono sia frutto di normale stupidità o di stupidità ricercata non lo so. So per certo (me lo ha insegnato Ennio Flaiano, sublime principe dell’aforismo applicato al vivere quotidiano) che una parola di troppo e magari mal usata “serve a nascondere il pensiero”, che a sua volta proverà “a nascondere la verità” ben sapendo che “la verità fulmina chi osa guardarla in faccia”. In attesa di veder cadere fulminato ai piedi della verità il citato venditore di fumo, balle e palle, benché sappia (me lo ha detto Karl Kraus con i suoi “detti e contraddetti”) che “l’aforisma non coincide mai con la verità” essendo palese che “o è una mezza verità o una verità e mezzo”, spero nella rivincita dell’intelligenza sulla stupidità. Però, credetemi, è tremendamente difficile misurare la stupidità. A volte è palese e la vedi; altre è velata da finta intelligenza e non la distingui se non dopo attento esame; altre ancora è travestita da finta-tontezza, semi-disattenzione o presunta auto-giustificazione. Sempre e comunque è stupidità, frutto di menefreghismo e di non conoscenza spacciata come sapere definito.
Antidoto alla stupidità è certamente quella “bella solitudine” con cui dialoga senza veli e remore Eugenio Borgna, fine scrittore e certo esperto di anime sospese e animi turbati. “La solitudine – dice il professore – è comunione, apertura agli altri, e non c’è comunicazione che non abbia come premessa la solitudine che dia ali alle parole, e le riempia di contemplazione e silenzio”. La solitudine, aggiunge, “è esperienza interiore che aiuta a dare un senso alla vita di ogni giorno, e che consente di distinguere ciò che è essenziale da ciò che non lo è”. Se questo è vero, e non ho motivo di dubitare, il venditore di fumo, palle e balle è spacciato: durerà quanto un raglio d’asino e poi, di lui e dei suoi lunghi e melensi proclami (forse) si perderanno le tracce… O no?
Etty Hillesum, giovane ebrea olandese morta ad Auschwitz, libera pensatrice che ha patito gli orrori del lager nazista, ha scritto: “Io detesto gli accumuli di parole: in fondo, ce ne vogliono così poche per dire quelle quattro cose che veramente contano nella vita”. Etty ha ragione, ma i venditori di fumo, palle e balle troveranno sempre il modo di aggiungere alle quattro cose che veramente contano nella vita, otto-dodici-sedici-trentadue inutili cose, pensate per far sorridere i gonzi (che sono sempre tanti, così tanti che è ormai impossibile contarli) compreso quello che si delizierà di ridere da solo attirando gli sguardi perplessi degli occasionali vicini di strada o di banco.
Storie di ordinaria follia e di insostenibile leggerezza sono quelle raccontate, con straordinaria “giocoleria verbale”, da un certo Ivan Talarico (che mi piacerebbe incontrare per discettare su nomi e loro intelligenti storpiature), cantautore, poeta e teatrante “i cui giochi di prestigio in pillole danno voce e struttura narrativa a ossessioni, malintesi, litigi innescati da motivi inesistenti e per questo difficilissimi da debellare, pretese completamente sproporzionate ai parametri della realtà, riti sociali assurdi ma consolidati dall’abitudine, capaci di distruggere il legame più solido”. Così, dentro quel susseguirsi di “giocoleria verbale”, tal quale ai giochi di prestigio inscenati dal venditore di fumo, palle e balle, lo slittamento dalla normalità alla follia è costante. Ecco allora avanzare la storia di “Edoario e Pizia, che incuranti dei rischi – non si conoscono, non si piacciono, non si amano, non sanno che cosa è la politica e neppure conoscono il valore dei voti e dei consensi – iniziano a progettare una vita insieme”. La storia di Edoario e Pizia (non a caso intitolata Abitudine) assomiglia a quella di Attima e Secondo, che si sposano perché l’irruenza di lui non le permette di spiegarsi, o di Cuola e Donio, che vivono confinati in un’eterna colazione. Poco più in là Lelia e Sausto sognano di partire insieme per una nuova vita e scelgono l’Australia, ma capiscono di aver solo spostato la loro banalità di circa sedicimila chilometri. Simile disavventura capita a Cilippo e Starda, che si conoscono per puro caso in un gruppo di innamorati anonimi indotti dal caso e dal mal di pancia a dar credito e sostegno, almeno a mio parere, al solito venditore di fumo, balle e palle.
Allora, leggendo dotte disquisizioni sull’essere e il divenire, vedo un mondo che si è fatto ingannare da un illusorio senso di sicurezza fondato sulla fame inesauribile di guadagno; vedo un modello di vita economica e sociale caratterizzato da tante disuguaglianze ed egoismi in cui un’esigua minoranza della popolazione mondiale possiede la maggioranza dei beni; vedo uno stile di vita che non si prende abbastanza cura dell’ambiente che lo circonda e che chiede d’essere preservato; quindi, valuto ciò che ho visto e il giudicare ciò che ho visto e vissuto mi sprona a fare passi in avanti cercando alleati, perché nella crisi pandemica nessuno si salva da solo. Penso anche che chi non agisce spreca le opportunità di cui dispone; sono poi convinto che agire, di fronte alle ingiustizie sociali e alle emarginazioni, richiede un modello di sviluppo che pone al centro “ogni uomo e tutto l’uomo” secondo l’etica della solidarietà e della carità politica. Se non fosse per le mille contraddizioni che simile modo di pensare presuppone, direi che la strada è segnata e che basta seguirla per vedere il mondo cambiare e diventare terra di tutti e di ciascuno. Lo so “la chiacchiera scivola da un rubinetto che perde, non da un fiume che scorre”. Però, lasciatemi almeno sognare mentre “faccio di tutto per diventare attore non protagonista della mia biografia”.
E’ questa la domenica che segue il giorno anniversario della carneficina con cui, l’11 settembre di vent’anni fa l’ignobile follia dei terroristi seminò morte e terrore laddove libertà e democrazia avevano trovato cittadinanza. Oggi, dove una volta c’erano due torri abitate da uomini e donne che volevano vivere e sperare giorni di pace, c’è il memoriale di Ground Zero su cu troneggia la scritta Never Forget, “mai dimenticare”: è lì per dire a ciascuno che la memoria non può e non deve venire meno. Di nuovo, per la ventesima volta, mi chiedo: che cosa resta di quell’11 settembre? A vent’anni di distanza, resta e risuona il motto United We Stand, “Uniti stiamo in piedi”, che divenne, anche visivamente attraverso bandiere e cartelloni issati nelle strade di Manhattan, la risposta spontanea dei cittadini di New York all’orrore vissuto. Negli anni, quel motto ha assunto un significato sempre più ampio e profondo, quello dello stare in piedi insieme nonostante i tentativi di “buttare giù” la nostra comune umanità. Anche adesso, quell’appello all’unità e alla “fraternità umana” diventa l’unica strategia vincente. Una strategia che richiede lungimiranza, coraggio e pazienza nella convinzione, come Giovanni Paolo II sottolineò subito dopo gli attentati, che “se anche la forza delle tenebre sembra prevalere, il credente sa che il male e la morte non hanno l’ultima parola”.
LUCIANO COSTA