Quelli che scorrono sotto l’imperversare del virus più maligno e arcigno (maligno come il più incallito bugiardo e arcigno come il più quotato odiatore) sono giorni tutti uguali: grigi e bigi, pandemici, fatti di attese e di cifre che dicono e disdicono, di esperti che annunciano liberazioni e di altri che predicono maledizioni. Sono giorni a volte gialli, altre arancioni, altre ancora rossi. Da soli esprimono umori diversi – un filo di gelosia, un grumo di turbamento, un pugno nello stomaco -, insieme, più che una bandiera fanno un fondo-scena adatto a ospitare, alle cinque della sera, l’ultimo grido del toro nell’arena. Chi i colori li ha presi in prestito per raffigurare la precaria e mutevole salute del Paese, non immaginava certo che li avrebbe anche condannati a essere imperituro emblema di noia soffusa, di precarietà incombente e di rabbia estesa. L’alternanza dei colori – ahimè e ahinoi -, regola le nostre libertà. E se per caso siete daltonici, se cioè percepite questo ma non quell’altro colore, procuratevi occhiali adatti e non invocate clemenza. Infatti, qui e adesso vale la norma che Martin Luther King mise al vertice del suo impegno, quella che dicendo “la mia libertà finisce dove incomincia la tua” prefigurava l’avverarsi del suo sogno di uguaglianza e di rispetto per tutti, senza distinzione di razza o di colore. Il mio amico Giacobbe (c’è ancora qualcuno che si chiama così e che di tale nome va fiero), inguaribile ottimista, dice che su questa barca instabile con la quale stiamo cercando una riva sicura a cui approdare, chiamata giustappunto Libertà, ci sono “cristiani e mussulmani, atei e anarchici, profeti e reazionari, individualisti e idealisti, gesuiti, benedettini e francescani, preti e suore, politici e impolitici, dotti e ignoranti: tutti potenziali vittime e tutti potenziali costruttori di futuro”. Al circolo della lavatrice (convivio di pensionati impegnati a far passare il tempo) commentando i giorni che verranno e mugugnando sui mugugni scatenati dalle nuove norme antivirus e del Natale che non assomiglierà di certo al Natale immaginato, hanno sentenziato che non essendo colpa di nessuno è colpa di tutti e che per andare oltre lo sconfortante panorama è necessario riprendere le fila dei discorsi della stalla, quelli in cui i problemi di qualcuno diventavano i problemi di tutti e il tanto o il poco disponibile era di tutti e per tutti.
Oggi, 20 dicembre, quando mancano soltanto cinque giorni a Natale, forse per caso o forse perché non c’era altra data disponibile, si celebra nel mondo la Giornata della Solidarietà, che salvo travisamenti geopolitici o pretese lessico-sovraniste raffigura una virtù (chiamata Solidarietà: perfetta sintesi dei precedenti discorsi della stalla), senza la quale il mondo intero andrebbe facilmente a rotoli e rotoloni. La solidarietà, che in questo 2020 così travagliato è stata evocata come non mai, secondo lo spirito della Giornata voluta dall’Onu, è il mezzo per risolvere i problemi economici, sociali, culturali, sanitari o umanitari internazionali. Nella Dichiarazione adottata dagli Stati membri nel 2000, la solidarietà è infatti definita come uno dei valori fondamentali che devono sostenere le relazioni internazionali insieme alla libertà, all’uguaglianza, alla tolleranza, al rispetto della natura e alle responsabilità condivise.
Non è roba da poco, tanto più se si pensa che tra cinque giorni sarà Natale, la festa che misteriosamente unisce sacro e profano trasformandolo in bontà, vera per qualcuno casuale per altri, apparente per troppi impegnati soprattutto a star bene da soli. A seconda dei casi, Natale è un bel mistero in cui lo Spirito prevale o, al contrario, è soltanto un grande affare che purtroppo dura poco. Però, se è vero quel che sempre abbiamo creduto, quel Natale che annulla le distanze e rende tutti migliori è tutti i giorni. E allora, perché preoccuparsi se un virus si intromette e cerca di mettere la festa dietro le quinte e le quinte di traverso così che nessuno possa avventurarsi tra le sue pieghe?
In effetti, si preoccupa chi al Natale non chiede soltanto un’esplosione di luce che ravvivi ciò che è sciupato, che illumini il cammino di coloro che faticosamente procedono nella ricerca dell’infinita letizia – quella che per i cristiani è tuttora annunciata nel cielo di Betlemme quando gli angeli gridarono al mondo che in una stalla era nato il Salvatore – e che aiuti gli umani a riconoscere il miracolo della vita che ogni giorno si rinnova. Chi non lascia spazio alle paure e ai distinguo, al credo o non credo perché vedo o non vedo e si lascia semplicemente avvolgere e travolgere dalla luce di una stella, fa il Natale più vero, cioè fa una festa riunendosi attorno al Mistero, che appunto perché grande e unico tutto avvolge e tutto riunisce pur accettando che le limitazioni facciano il loro corso; un Mistero che chiama vicini e lontani, ovunque siano e qualunque sia la regola che li tiene lontani, a sentirsi ospiti graditi dell’umile stalla, straordinario centro di speranza per tutti gli uomini e le donne di buona volontà.
Qualcuno sta pensando che è la solita predica di un buonista in libera uscita? E’ vero: ma c’è forse in giro per città e paesi qualcosa di più grande, di più coinvolgente, di più amato e di più atteso del Natale? Certo, ho ben presente quel che lo scienziato interrogato sul Natale rispose. “Non sento il mistero che lo avvolge – disse – ma vedo la luce che brilla negli occhi di mio figlio e improvvisamente non ho più ragioni che sostengono la mia ritrosia. Allora mi immergo nei suoi pensieri, nelle sue emozioni, nella sua beata incoscienza… E incomincio a credere che qualcosa di più grande di me, della scienza e dei mille modi di dire Natale, c’è ed è reale”.
Poi ecco lo scettico, lontano dichiarato ma ancora propenso a concedere un avvicinamento al mistero. Costui, che si chiama Michele Serra e fa lo scrittore, dice: “Ho sempre considerato il Natale – quello massificato, festaiolo, tutto vetrine, luminarie, abbuffate, pubblicità melense con canzonette melense – uno scoglio da superare senza troppi danni, per poi imboccare felicemente le porte del nuovo anno… Mi piace l’altro Natale, quello intimo, di poche persone e pochi e sentiti regali, meglio se nevoso, con buona musica e buoni film che riscaldano la mia casa… E una capatina alla Messa di mezzanotte, da ateo che ama fraternizzare, la faccio volentieri, visto che poi di questo si tratterebbe, festeggiare una nascita, e la speranza che ogni nascita porta in dono… Capisco che a qualcuno mancheranno le adunate allargate, le tombole e i cenoni… A me basterà il presepio, e l’affetto anche a distanza delle persone che amo e che mi amano, per sentirmi in pace”.
Natale, un mistero. Poi, per atavica tradizione anche “il decoro piccolo-borghese, la tradizione del sedersi a tavola” per mangiare alla vigilia, almeno dalle mie parti, anguilla marinata, casoncelli, salame cotto, ciambella e torrone, per gustare l’odore delle bucce di mandarino o arancia usate per segnare i numeri della tombola. Su tutto, l’accorato sforzo per tenere sempre l’armonia in famiglia. Scrive Antonio Polito, e non posso dargli torto: “E’ strano il Natale: uno sente il bisogno di una tradizione purchessia, anche se non è la sua”. D’altronde parliamo da settimane di come salvare lo shopping e lo sci, che pure con la nascita di Gesù bambino c’entrano come il cavolo a merenda. Però, è bello poter far dire e anche ai più scettici che sì, il presepe piace anche a noi”.
Poi, i riti moderni: la televisione che rimpinza il cervello di storie melense e di visioni irreali; la corsa ai regali belli e in utili; lo scambio di auguri quasi mai spontanei, quasi sempre insinceri; i gesti di bontà sollecitati dal perbenismo dominante piuttosto che dalla carità intelligente; le promesse di buon futuro soprattutto per sé, alla faccia di chi sta peggio e si dibatte nella miseria; il film da vedere o rivedere, come quello (intitolato “La vita è meravigliosa”) rispolverato e ogni anno riproposto almeno due volte, che a esser buoni “è quell’impasto protestante di pietà e bontà, generosità e lealtà, senso del dovere e di amore per la comunità, che porterà il protagonista dalla disperazione di un tentato suicidio fino al riscatto suo e dell’intero paese quando un angelo custode gli farà vedere quanto brutto sarebbe stato il mondo se lui non fosse mai nato, quanta differenza il bene può fare, spronandolo alla rivincita contro il cinismo e l’avidità di un cattivo…”. Finale con lacrima e applausi. Poi, per un attimo, il cielo di Natale sarà sopra di noi, ma si allontanerà imbronciato, in fretta, precipitosamente. Allora, ecco che s’avanza l’altro cielo, quello in cui gli angeli cantano “pace in terra agli uomini che egli ama”. E sono i pastori, i poveri, i derelitti, gli affamati, i malati, i disperati, gli esclusi… Eppure è Natale. E se è il Natale che penso io, allora meriterebbe più attenzione, più rispetto, più gioia, più amore e più misericordia. Altrimenti sarà un giorno come un altro, E sarebbe una vera perdita di tempo.
Intanto domani, 21 dicembre, quando a Natale mancheranno soltanto quattro giorni, scorrerà senza suscitare paginate di encomio e ricordo il settantunesimo anniversario della morte di un poeta raro e caro agli umili, tale Trilussa, che nella Roma del suo tempo era considerato al pari di una pulce che pizzicando e infastidendo procurava divertimento ai popolari e smarrimento ai dignitari. Secondo Paolo Mattei, un attento cantore di cose romane, il Trilussa “instancabilmente intento a raccontare il proprio tempo ridicolizzandone i fanatismi, depotenziandone le parole d’ordine, canzonandone gli astratti furori ideologici”, ha osservato dal cielo, in un volo assolutamente poetico, i “big” della terra (quelli di ieri e anche quelli di oggi) e li ha raccontati per quel piccolo che comunque apparivano. Infatti, scriveva, «da quel’artezza nun distingui mica / er pezzo grosso che se dà importanza: / puro un Sovrano, visto in lontananza, / diventa ciuco come una formica».
LUCIANO COSTA