Ogni volta che incrocio una “giornata particolare”, come quella di oggi, dedicata alla Carità, che celebrandola e indicandola come parte essenziale dell’esistenza umana chiede a chiunque di misurarsi con mistero-grandezza-scandalo-rivoluzione-miracolo e chissà quant’altro porta con sé, mi chiedo perché sia necessario invitare a riflettere e ad agire quando dovrebbe essere normale, cioè pane quotidiano, riflettere sul problema posto al centro dell’attenzione e agire per trasformarlo in gesti e azioni capaci di garantire il necessario per passare dalla condizione di disperati, figli di un dio minore, a quella di persone, abitanti un mondo in cui a ciascuno siano riconosciute pari dignità e pari opportunità. Alla domanda, ogni volta, rispondo promettendo un particolare impegno per abolire tutte le giornate particolari, essendo chiaro che tutte le giornate sono particolari e che i problemi che portano con sé sono di tutti i giorni e non di un giorno solo.
No, oggi non è semplicemente una giornata particolare! Infatti, oggi è la Giornata internazionale della Carità non a caso concomitante con l’anniversario della morte di Madre Teresa di Calcutta (se ne andò in cielo ventiquattro anni fa: era il 5 settembre 1997 e il mondo s’accorse che la piccola suora, da sola, aveva scombussolato il suo quieto vivere) nel 2016 innalzata dalla Chiesa alla gloria degli altari col titolo di Santa, il cui nome è un costante richiamo all’attenzione dovuta agli ultimi, all’amore incondizionato per i poveri e al dovere di rendere testimonianza alla Carità. Però, quanto è difficile definire la Carità! Per il vecchio amico che ogni volta mi augurava di parlare con voce chiara e forte per dire e ribadire in quella televisione che allora guidavo alla ricerca di spazio in cui collocare la sua voglia di essere cattolica-popolare-libera e, quindi, anche nuova che un mondo migliore era possibile, la carità non era di questa o quella parte – “essa è fiume inarrestabile” diceva – ma mia e tua, nostra e vostra, di tutti… Per il libero pensatore, dichiaratamente proletario e comunista, carità era un’invenzione dei preti, “fatta apposta per offuscare la solidarietà del popolo”. Per un certo Paolo di Tarso la Carità, senza la quale noi saremmo nessuno o tutt’al più veri cembali stonati, è paziente, benigna, non invidia, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto ma si compiace della verità; non tollera semmai tutto crede tutto spera tutto sopporta; e non verrà mai meno…
Il vocabolario dice che carità (in latino carĭtas, derivazione di carus-caro) significa «affetto, amore» (quello che secondo il concetto cristiano unisce gli uomini con Dio), che in termini comuni significa amore attivo per il prossimo capace di dimostrarsi tale soprattutto attraverso le opere di misericordia, che a loro volta sarebbero l’esercizio umano che dispone a soccorrere chi ha bisogno del nostro aiuto materiale. Il vocabolario non lo dice, ma è chiaro che la carità (o chiamatela come volete) non è di qualcuno o di qualche chiesa particolare, ma una libertà esercitabile da chiunque abbia la possibilità di prendere quel che gli è superfluo per metterlo a disposizione di chi purtroppo è costretto a vivere soltanto anche del suo superfluo.
Chi ha preso il superfluo di tanti e lo ha usato trasformandolo in pane e speranza quotidiani per altrettanti e forse assai di più, è stata Madre Teresa di Calcutta, piccola-grande sorella di sordi ciechi muti poveri disperati indignati affamati assetati ammalati costretti ad esistere senza essere, mandati a resistere senza neppure un bastone a cui appoggiarsi…, donna di immensa carità, che usa la canzone di John Lennon (uno dei Beatles) per dire anche adesso: “Immaginate che non ci sia alcun paradiso / se ci provate è facile / nessun inferno sotto di noi / sopra di noi solo il cielo. / Immaginate tutta la gente / che vive solo per l’oggi. / Immaginate che non ci siano patrie / non è difficile farlo; / nulla per cui uccidere o morire / ed anche alcuna religione. / Immaginate tutta la gente / che vive la vita in pace. / Si potrebbe dire che io sia un sognatore / ma io non sono l’unico; / spero che un giorno vi unirete a noi / ed il mondo sarà come un’unica entità. / Immaginate che non ci siano proprietà, / mi domando se si possa, / nessuna necessità di cupidigia o brama / una fratellanza di uomini. / Immaginate tutta la gente / condividere tutto il mondo…”. E si potrebbe allora dire che il mondo è dei sognatori, che più sono meglio è…
Oggi è la giornata internazionale della Carità e di chi, come Madre Teresa di Calcutta, l’ha praticata senza mettere distinguo o esigere reciprocità o pretendere riconoscenza. Ho conosciuto Madre Teresa, l’ho avvicinata, le ho parlato, ho sentito il calore della sua mano che si faceva carezza e diventava invito a portarla oltre i confini dell’ovvio. Accadde nel 1977, quando la piccola-grande suora venne a Milano, stadio di San Siro per una volta imprestato alla carità, per gridare al mondo il suo amore per la vita. Era un giorno qualsiasi di quarantaquattro anni fa e nel grande stadio, di fronte a centomila riuniti per pregare e cantare il diritto alla vita, Madre Teresa di Calcutta, piccola e immensa “sorella” della carità, era lì a rappresentare la moltitudine di uomini, donne e bambini costretti al silenzio dalla indifferenza dei popoli ricchi prima ancora che dalla indigenza, dalle malattie e dalla povertà. Vestiva il saio bianco orlato di azzurro, teneva le mani unite attorno al rosario, camminava lentamente sfiorando le migliaia di mani giovani che chiedevano una carezza per segnare il principio di una nuova era. Le avevano riservato un posto al centro del grande terreno di gioco: un minuscolo punto bianco verso sul quale si concentravano le attenzioni e i cuori di tutti.
Non era ancora il tempo delle mille televisioni a caccia di immagini sensazionali e la radiofonia privata, già liberalizzata, stava ancora attrezzandosi per invadere l’etere. Giornali e riviste si erano occupati di Madre Teresa dopo che Papa Paolo VI, in visita a Calcutta, l’aveva abbracciata ed indicata al mondo come “sublime esempio di amore e dedizione ai poveri, umile e preziosa Ancella del Signore”. Per molti giovani tentati in parti uguali sia dalla “rivoluzione” che dal “disimpegno” – i due poli allora di moda -, la “piccola suora” che tra i morti di Calcutta cercava persone alle quali offrire un piccolo soffio di vita e un rimasuglio di speranza, rappresentava l’unica alternativa credibile.
Anche a Brescia e provincia, dove ero accasato, tanti giovani erano alla ricerca di una alternativa credibile alla cultura dello sfascio. E allora, neppure per una piccola e, forse, ancora insignificante “RadioVoce”, la radio libera della Diocesi, che tentava qualche escursione nuova nel generale piattume delle proposte radiofoniche allora esistenti, era impossibile mancare a quell’appuntamento. Insieme a Fiorenzo Petrogalli, (unico tecnico capace di far funzionare al meglio il nuovissimo registratore portatile) e a Oreste Alabiso (valoroso fotografo del settimanale “La Voce del Popolo”), rischiando di andare e di restare fuori dalla porta del grande stadio dato che a Milano nessuno ci aveva garantito l’accesso alla grande platea di San Siro, andai convinto di incontrare Madre Teresa di Calcutta. E quella convinzione giustificava la trasferta.
Per chissà quale felice coincidenza ci presentammo ai cancelli proprio mentre Mimmo Sparano, il giornalista del “Gazzettino Padano” al quale la Curia milanese aveva chiesto di essere lo speaker della manifestazione, scendeva dall’automobile della RAI. Era talmente evidente la nostra voglia di esserci che Mimmo, senza troppe formalità, ci prese sotto braccio e ci consegnò al prato di San Siro con la sola raccomandazione di “non disturbare e di fare un buon servizio”. Il “buon servizio” incominciò con le voci e i canti provenienti dagli spalti, proseguì con il boato che accolse Madre Teresa, si arricchì della sua parola e delle parole pronunciate dal Cardinale.
Potevamo fare di più? Era davvero impossibile arrivare fino alla piccola suora per chiederle un messaggio particolare da far ascoltare ai bresciani? Madre Teresa ci era passata accanto, avremmo voluto abbracciarla e chiederle come spendere le tante “buone intenzioni” custodite in saccoccia. Ma il suo posto era più in là, verso il centro dello stadio. Forse senza saperlo e volerlo, quando già si annunciava la conclusione della imponente manifestazione, anche io e Fiorenzo ci trovammo al centro dello stadio, a due passi da Madre Teresa. Allora, allungando il microfono e facendo ricorso ad un inglese meditato e provato in segreto per tutto il pomeriggio, le chiesi: “Ma è davvero possibile immaginare un mondo senza ingiustizie e senza povertà?” Lei pose le sue mani sulla mia – e mi è ancora facile sentire la delicatezza e la forza di quel naturalissimo gesto -, sorrise e incominciò a ripetere: “Yes, yes, yes, yes…Se Dio vuole, se tutti noi vogliamo, se io e te vogliamo faremo un mondo nuovo”. Le dissi anche che però i giovani parlavano di rivoluzione e che troppa gente diceva che Dio era morto, che non c’erano più profeti, che non serviva lottare per la vita… Lei, stringendomi la mano, mi disse: “Dio è con noi e ci guida per le strade del mondo. I poveri di Calcutta aspettano da noi un segno di misericordia. A chi ci deride noi dobbiamo dare amore, a chi ci critica dobbiamo mostrare la gioia del Vangelo…”. Quando la rividi, forse nel 1983, mi disse che ricordava San Siro e quel tale che le porgeva il microfono chiedendole soltanto una parola che servisse a rincuorare e a sperare… Quel tale ero io e lei mi aveva riconosciuto.
Ripensando a quei giorni mi sono sempre sentito un privilegiato, però indegno di aver avuto accesso a tale privilegio. Ma, forse per giustificare e sentirmi giustificato, continuo a chiedermi chi può dirsi privilegiato per qualcosa che gli è stato concesso di vivere? Probabilmente nessuno. “Anche semplicemente perché –come ha insegnato un maestro di varia umanità – nessuna persona riesce a ottenere tutto quel che desidera. E anche coloro che sembrano apparentemente raggiungere o possedere esattamente ciò che vorremmo avere noi, spesso hanno tutto, tranne quello che avrebbero desiderato e che noi magari abbiamo avuto senza aver fatto niente di particolare per ottenerlo”.
Se però l’abbiamo ottenuto, allora è adesso il tempo di tradurlo in gesti di autentica Carità. E se non sapete come definirli questi gesti, andate a rileggere la lettera ai Corinzi, quella firmata da Paolo di Tarso, laddove innalza al cielo l’inno alla Carità.
LUCIANO COSTA