Che cosa resta del nobile discorso pronunciato dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella a conclusione dell’anno 2023? Certo parole di elogio, dichiarazioni ammirate, consensi illimitati, partecipazione convinta all’enunciato… Ma anche mugugni irriguardosi, parole improvvisate e lontanissime da pensieri pensati, distinguo senza altro senso se non quello suggerito dal non mettersi a confronto con la storia, bisbigli sibilati per confondere e irridere… Sono passati sette giorni e ognuno ha purtroppo confermato (salvo eccezioni): che la sera del pronunciamento a reti unificate i più erano già distratti dal cenone; che appena dopo, benché il nobile discorso fosse pubblicato sui siti istituzionali, sulle pagine web e sui siti online dei giornali, pochissimi si son presi la briga di leggerlo; che alla maggioranza di politici e politicanti in circolazione bastava la sintesi offerta dai media e non l’insieme di ammonimenti e pensieri contenuti nel messaggio; che assai pochi comuni mortali avevano smesso faccende e feste per prestare orecchio alle parole del Presidente…
Però, appena dopo la diretta, ecco che da parte dei reggitori delle sorti italiche (dal più alto al più basso) s’è sparso l’effluvio di consensi e ammirazione… Vale a dire: tutti con il Presidente, tutti consapevoli che le sue parole erano lezione di vita, tutti disposti a giurare che su quella strada indicata dovevano consumarsi le future fatiche. “Tutte balle”, sentenziò allora Sandrone il brontolone, “balle che dureranno il tempo di un sospiro…”. In effetti, pensai, se le parole del Presidente fossero pane e companatico quotidiano, questa non sarebbe l’Italia litigiosa e stramba che appare, bensì un vero e proprio Paese in cui tutto concorre a rendere felici i suoi abitanti. Non ho dubbi: una buona-lenta e attenta lettura del discorso del Presidente rimetterebbe in circolo la buona politica (che è partecipazione, condivisione e servizio piuttosto che rendita e interesse di parte), confermerebbe che solo il bene ben fatto è quel “Bene” che scavalca steccati e costruisce ponti su cui far transitare libertà e democrazia, spingerebbe chiunque a scrollarsi di dosso l’io per vestire il noi… Provare per credere. Con cuore, mente e passione dettate dagli anni e dalla voglia di vedere quel mondo finalmente in pace auspicato dal Presidente, ho suggerito ad amici presidi, direttori didattici, insegnanti, docenti, maestri e professori di portare domani in classe, alla ripresa delle lezioni, il testo del discorso e di leggerlo, farlo leggere e discuterlo. Ho ricevuto in cambio larghi sorrisi ma poche assicurazioni. Infatti, mi hanno spiegato, la norma scolastica non ammette divagazioni e chi siede in cattedra deve solo ubbidire. Ieri sera, tra le mille proposte televisive, c’era quel film che con sottile ironia e fortissima passione civile insegnava ai giovani di andare oltre le pagine per cogliere l’attimo fuggente, quel “carpe diem” intriso di verità e di cieli nuovi da esplorare. Quel professore venne licenziato, ma i suoi studenti, in piedi sui banchi, lo difesero rivendicando la prevalenza del pensiero pensato sull’effimero dilagante.
Quintessenza dell’effimero, spiegava il direttore ai noi giovani ambiziosi vogliosi di sentirsi giornalisti, è la conferenza stampa in cui la “cartella stampa” preparata dagli “uffici stampa” contiene il dritto e il rovescio della storia. Più in là nel tempo la solita “conferenza stampa”, con l’avvento delle televisioni e radio libere, divenne una vera e propria vetrina delle vanità, un tempo per dire “ci siamo, facciamo, proponiamo, auspichiamo, denunciamo, inventiamo, immaginiamo”, ovviamente tutto a favore di microfoni e telecamere. Altri tempi? Chissà chi lo sa! Se vi sfiora il dubbio che il richiamo all’antica “conferenza stampa” (magari a quella che alla fine diventava un felice happy hour condito con apposito cadeau) sia pretesto per entrare a piedi uniti sulla annunciata-riannunciata e reiterata “conferenza stampa” di fine anno della Giorgia presidente del Consiglio, siete nel giusto. Ho sacrificato tre ore del mio tempo e ho ascoltato. Ma sebbene fossi munito delle migliori intenzioni (fossi cioè disposto ad accettare per buone le parole pronunciate in ossequio alle fatiche consumate nel primo anno di governo targato Giorgia, niente altro che Giorgia), alla fine ho avuto la netta impressione di aver assistito alla solita commedia (decidete voi quella che più vi aggrada).
Fu a allora che osservando le penne disposte in circolo e pronte all’uso, decisi di proporre la loro abolizione e l’immediata sostituzione con normali matite, buone per disegnare e raccontare sapendo che alla bisogna una semplice gomma avrebbe cancellato ogni loro traccia. In effetti, vista la massa di proclami-promesse-editti-parole e pensieri altisonanti ma contorti e impraticabili, tutti suscettibili di trasformazioni e pentimenti, chi meglio di una scrittura a matita (facilmente cancellabile) poteva giustificarli?
Poi ho anche pensato che questo è il tempo in cui l’attesa è… l’attesa continua di qualcosa – buono cattivo mediocre ottimo rallegrante preoccupante, non importa di quale portata – che deva accadere. Poco più di settant’anni fa, un tale che si chiamava Samuel Beckett, scrisse una “bazzecola” intelligente e dotta, intitolata “En attendent Godot” (Aspettando Godot), che nonostante le premesse intelligenti e dotte dovette aspettare il 1952 per essere pubblicata. Cosa che avvenne non in Inghilterra, donde proveniva il poeta, ma in Francia, che nel bene e nel male era (ed è) rifugio dei “maledetti”. Allora, critici e storici, non riuscendo a decifrarla secondo i canoni letterari del tempo, la collocarono in un faldone contrassegnato dalla scritta “teatro dell’assurdo”, che di assurdo, visto il numero di “assurdità” circolanti, aveva soltanto le sembianze. Così, nel groviglio di pensieri che stava animando il dopo conferenza stampa della presidente Giorgia, la storia dei cinque personaggi, uno più strano dell’altro e saggi uno meno dell’altro, che si ritrovano sotto l’albero a chiacchierare e filosofare aspettando l’arrivo dell’immaginifico Godot (secondo gli esperti un coacervo lessicale inglese che accumuna Dio – “God” – a piccolo – “ot”) è stata rimessa in circolo col solo fine di dimostrare che cinque radunati attorno a un albero in attesa dell’arrivo dell’immaginifico personaggio in grado di dare risposte a tutto, non erano cinque pendoli qualunque e qualunquemente invitati, ma cinque ingranaggi dell’orologio destinato a battere le ore.
Così è la vita: un’attesa infinita inframezzata da lampi che rischiarano e se ne vanno come sono arrivati. In questi susseguirsi di reale e immaginario l’Italia aspetta tempi nuovi e aiuti ragguardevoli, il prevalere della Costituzione – questa sì degna d’osservanza e onori – sugli interessi di parte, una ventata onesta che si porti via marciume accumulato e stupidità incancrenite, che annulli velleità usate come specchietto per le allodole e, magari, rimetta al centro l’idea di quella mondialità in cui non contano le provenienze e il colore della pelle ma solo le persone… Parimenti l’Europa aspetta di essere una Nazione unitaria, uguale, unanime, aperta ai problemi dei deboli, in grado di far camminare Popoli e Stati diversi in un’unica direzione; l’America un tempo che la sollevi dalle paure e dal “dovere” di essere rimedio a qualsiasi guasto o indigestione; il Papa – proprio questo Francesco che sta girando il mondo come acclamato pellegrino di pace e di giustizia per i poveri, gli oppressi e i perseguitati – di potersi affacciare alla finestra di Piazza San Pietro e dire che non ci sono più chiese, sinagoghe, moschee, templi o bicocche devozionali, ma solo una Capanna, tanto grande ed ospitale da poter accogliere tutti, abbracciare tutti, comprendere tutti.
Dentro queste attese colloco le speranze e le utopie che si chiamano: ritorno alla “Politica” come mezzo di dialogo e di confronto finalizzati a rendere visibile e abitabile una degna “Città dell’uomo” (quella che mette in sintonia le diversità, rende agnelli i lupi, cancella i razzismi, crea lavoro, semina concordia, emargina i violenti e i predicatori di sventure, che scrive Pace e mai guerra….); uscita dall’immobilismo in cui dominano veti e contrapposizioni; inizio di una stagione in cui il sì e il no siano chiari, motivati, difendibili; conferma di impegni che al dovere della buona amministrazione aggiungano solidarietà evidenti e coraggiose; ricerca di motivi e di occasioni per far “camminare insieme” popoli e nazioni, operai e padroni, poveri e ricchi, belli e brutti, cristiani e laici, preti e vescovi, religiosi e laici, neri e bianchi… Tutti alla ricerca della Pace, tutti contro la guerra, tutti per il bene comune… Propositi scritti con inchiostro indelebile e non con matite la cui scrittura è soggetta agli umori di una semplice gomma.
Stamani all’alba, tra mille carte quasi del tutto dimenticate, ho trovato “gli esclamativi di Forattini”, nulla più che dieci cartoncini disegnati a matita e datati fine anni Novanta, dedicati ai personaggi allora “dominus” incontrastati del tempo: da Andreotti ad Agnelli, Craxi e coetanei, fino a papa Giovanni Paolo II. E un’altra volta mi sono detto: “Erano altri tempi”. Tempi in cui la “matita” era pensosa, acutamente morbida e sottilmente audace: quella di Giorgio fulminante, specchio di ogni vizio e di qualsiasi virtù; quella del Cecco vagante, sempre sospesa tra il possibile e l’impossibile; quella di Ellekappa contorta, aggrovigliata, pestifera; quella di Emilio acida, corrosiva; quella di Sergio rannuvolata e filosofeggiante; quella di Albert paciosa, spavalda e riflessiva; quella di Charles colorata, tenue, sottile, umana; quella di Chappatte tetra, nera, da “morts de rire”, morir dal ridere; quella dei non citati utile come solo quelle delle maestrine sanno esserlo. Ognuno di loro la esibiva, a suo modo e a piacimento, ora compagna di viaggio, domani moglie fedele, fidanzata occasionale, giocattolo fumante, gingillo scacciapensieri, ammennicolo insostituibile, arnese di lavoro, arma impropria, carezza urticante…
Tutti la chiamavano “Matita”, per tutti era bella, slanciata, libera, romantica, arrabbiata, dolce, irriverente, ossequiosa, spavalda, appuntita, provocante, sottomessa, manomessa, ferma, scorrevole, muta, urlante, fantastica, cosciente, incosciente, pensosa, irriverente, mobile, immobile, piacevole, trasgressiva, detestabile, amabile, religiosa, laica, lontana, agnostica, definita, indefinita, blasfema, ideologica, logica, illogica, offensiva, provocatrice, provocatoria, irrispettosa, detestata, amata, corretta, scorretta, blasfema, orante, relativa, spirituale, umana, immonda, pura, vergine, schiava, puttana, ruffiana, gesuitica, papista, maomettistica, profetessa, fanatica, razionale, irrazionale, razzista, antirazzista, superstiziosa, ignara, integralista, possibilista, tenera, dura, ignorante, orante, intelligente, islamica, cristiana, luterana, protestante, buddista, maronita, ebrea, palestinese, araba, latina, greca, ortodossa, bianca, negra, meticcia, gialla, albina, stupida, salace, colta, imbecille, arrivista, servizievole, benefica, ubriaca, sobria, intonsa, drogata, dopata, pulita, pervicace, promotrice, provocante, dogmatica, teologica, prezzolata, gratuita, benevola, avvincente, desolante…
Ma era sempre lei, la signorina Matita, nera, bianca, grigia, rossa, blu, verde, gialla, viola, azzurra, carnosa, cannibale, vegana, vegetariana, combattente, guerrafondaia, pacifista, innocua, inadatta, adatta, scorrevole, arcigna, vagabonda, pensante, possente, innocente, irrilevante, cittadina, paesana, mondialista, terzomondista, globale, satellitare, stellare, crepuscolare, radiosa, tramontata, giornalista, cronista, scrittrice, affabulatrice, silente, mormorante, urlante, affettuosa, scontrosa, presente, assente, civile, incivile, pudica, impudica, spudorata, neutrale, venduta, comprata, dignitosa, indignata, fanatica, varia, avariata, permissiva, equivoca, normale, subnormale, gay, etero, viva, moribonda, allegra, pensosa, pungente, intrigante, lasciva, virtuosa, cronica, sincronica, anonima, anodina, anarchica, violenta, arrendevole, pacifista, godibile, sensuale, arbitraria, fideistica, scandalosa, bivalente, bifronte, biforcuta, acuta, critica, avanguardista, indietreggiante, dissacrante, cattiva, feroce, umanistica, umorale, morale, immorale, filosofa, sarcastica, ironica, spiritosa, lagnosa, arruffata, sciolta, contenta, scontenta, monda, immonda, censurabile, irrinunciabile, complicata, coraggiosa, vile, indifesa…
Ma sì, si chiamava semplicemente Matita e ricordava a tutti noi che il valore della libertà, della pace e delle idee non è negoziabile, nemmeno se e quando a chiederlo è un vile “che impugna mitragliatrici per sterminare matite”, oppure un pusillanime (uno qualsiasi) che al posto della ragione usa il fucile, o anche un imbecille, che (purtroppo) fa parte del paesaggio, ma che al paesaggio non è degno di reggere neppure il pendaglio.
Così, alla raccomandazione di scrivere promesse e progetti con matite (la cui scrittura è facilmente cancellabile) aggiungo la speranza di veder presto matite impegnate a disegnare i potenti di turno nella loro essenza: punti esclamativi soggetti agli umori delle folle e mai punti fermi di una coscienza collettiva che vuole e cerca il bene di tutti.
Se ho esagerato sappiate che è solo il sette di gennaio, giorno che casualmente celebra un certo san Luciano vissuto parecchie centinaia di anni fa… Nulla a che vedere col solito firmatario del “domenicale”.
LUCIANO COSTA
“Il discorso di Mattarella”
Questa sera ci stiamo preparando a festeggiare l’arrivo del nuovo anno. Nella consueta speranza che si aprano giorni positivi e rassicuranti.
Naturalmente, non possiamo distogliere il pensiero da quanto avviene intorno a noi. Nella nostra Italia, nel mondo.
Sappiamo di trovarci in una stagione che presenta tanti motivi di allarme. E, insieme, nuove opportunità.
Avvertiamo angoscia per la violenza cui, sovente, assistiamo: tra gli Stati, nella società, nelle strade, nelle scene di vita quotidiana.
La violenza.
Anzitutto, la violenza delle guerre. Di quelle in corso; e di quelle evocate e minacciate.
Le devastazioni che vediamo nell’Ucraina, invasa dalla Russia, per sottometterla e annetterla.
L’orribile ferocia terroristica del 7 ottobre scorso di Hamas contro centinaia di inermi bambini, donne, uomini, anziani d’Israele. Ignobile oltre ogni termine, nella sua disumanità.
La reazione del governo israeliano, con un’azione militare che provoca anche migliaia di vittime civili e costringe, a Gaza, moltitudini di persone ad abbandonare le proprie case, respinti da tutti.
La guerra – ogni guerra – genera odio.
E l’odio durerà, moltiplicato, per molto tempo, dopo la fine dei conflitti.
La guerra è frutto del rifiuto di riconoscersi tra persone e popoli come uguali. Dotati di pari dignità. Per affermare, invece, con il pretesto del proprio interesse nazionale, un principio di diseguaglianza.
E si pretende di asservire, di sfruttare. Si cerca di giustificare questi comportamenti perché sempre avvenuti nella storia. Rifiutando il progresso della civiltà umana.
Il rischio, concreto, è di abituarsi a questo orrore. Alle morti di civili, donne, bambini. Come – sempre più spesso – accade nelle guerre.
Alla tragica contabilità dei soldati uccisi. Reciprocamente presentata; menandone vanto.
Vite spezzate, famiglie distrutte. Una generazione perduta.
E tutto questo accade vicino a noi. Nel cuore dell’Europa. Sulle rive del Mediterraneo.
Macerie, non solo fisiche. Che pesano sul nostro presente. E graveranno sul futuro delle nuove generazioni.
Di fronte alle quali si presentano oggi, e nel loro possibile avvenire, brutalità che pensavamo, ormai, scomparse; oltre che condannate dalla storia.
La guerra non nasce da sola. Non basterebbe neppure la spinta di tante armi, che ne sono lo strumento di morte. Così diffuse. Sempre più letali. Fonte di enormi guadagni.
Nasce da quel che c’è nell’animo degli uomini. Dalla mentalità che si coltiva. Dagli atteggiamenti di violenza, di sopraffazione, che si manifestano.
È indispensabile fare spazio alla cultura della pace. Alla mentalità di pace.
Parlare di pace, oggi, non è astratto buonismo. Al contrario, è il più urgente e concreto esercizio di realismo, se si vuole cercare una via d’uscita a una crisi che può essere devastante per il futuro dell’umanità.
Sappiamo che, per porre fine alle guerre in corso, non basta invocare la pace.
Occorre che venga perseguita dalla volontà dei governi. Anzitutto, di quelli che hanno scatenato i conflitti.
Ma impegnarsi per la pace significa considerare queste guerre una eccezione da rimuovere; e non la regola del prossimo futuro.
Volere la pace non è neutralità; o, peggio, indifferenza, rispetto a ciò che accade: sarebbe ingiusto, e anche piuttosto spregevole.
Perseguire la pace vuol dire respingere la logica di una competizione permanente tra gli Stati. Che mette a rischio le sorti dei rispettivi popoli. E mina alle basi una società fondata sul rispetto delle persone.
Per conseguire la pace non è sufficiente far tacere le armi.
Costruirla significa, prima di tutto, educare alla pace. Coltivarne la cultura nel sentimento delle nuove generazioni. Nei gesti della vita di ogni giorno. Nel linguaggio che si adopera.
Dipende, anche, da ciascuno di noi.
Pace, nel senso di vivere bene insieme. Rispettandosi, riconoscendo le ragioni dell’altro. Consapevoli che la libertà degli altri completa la nostra libertà.
Vediamo, e incontriamo, la violenza anche nella vita quotidiana. Anche nel nostro Paese.
Quando prevale la ricerca, il culto della conflittualità. Piuttosto che il valore di quanto vi è in comune; sviluppando confronto e dialogo.
La violenza
Penso a quella più odiosa sulle donne.
Vorrei rivolgermi ai più giovani.
Cari ragazzi, ve lo dico con parole semplici: l’amore non è egoismo, possesso, dominio, malinteso orgoglio. L’amore – quello vero – è ben più che rispetto: è dono, gratuità, sensibilità.
Penso alla violenza verbale e alle espressioni di denigrazione e di odio che si presentano, sovente, nella rete.
Penso alla violenza che qualche gruppo di giovani sembra coltivare, talvolta come espressione di rabbia.
Penso al risentimento che cresce nelle periferie. Frutto, spesso, dell’indifferenza; e del senso di abbandono.
Penso alla pessima tendenza di identificare avversari o addirittura nemici. Verso i quali praticare forme di aggressività. Anche attraverso le accuse più gravi e infondate. Spesso, travolgendo il confine che separa il vero dal falso.
Queste modalità aggravano la difficoltà di occuparsi efficacemente dei problemi e delle emergenze che, cittadini e famiglie, devono affrontare, giorno per giorno.
Il lavoro che manca. Pur in presenza di un significativo aumento dell’occupazione.
Quello sottopagato. Quello, sovente, non in linea con le proprie aspettative e con gli studi seguiti.
Il lavoro, a condizioni inique, e di scarsa sicurezza. Con tante, inammissibili, vittime.
Le immani, differenze di retribuzione tra pochi superprivilegiati e tanti che vivono nel disagio.
Le difficoltà che si incontrano nel diritto alle cure sanitarie per tutti. Con liste d’attesa per visite ed esami, in tempi inaccettabilmente lunghi.
La sicurezza della convivenza. Che lo Stato deve garantire. Anche contro il rischio di diffusione delle armi.
Rispetto allo scenario in cui ci muoviamo, i giovani si sentono fuori posto. Disorientati, se non estranei a un mondo che non possono comprendere; e di cui non condividono andamento e comportamenti.
Un disorientamento che nasce dal vedere un mondo che disconosce le loro attese. Debole nel contrastare una crisi ambientale sempre più minacciosa. Incapace di unirsi nel nome di uno sviluppo globale.
In una società così dinamica, come quella di oggi, vi è ancor più bisogno dei giovani. Delle loro speranze. Della loro capacità di cogliere il nuovo.
Dipende da tutti noi far prevalere, sui motivi di allarme, le opportunità di progresso scientifico, di conoscenza, di dimensione umana.
Quando la nostra Costituzione parla di diritti, usa il verbo “riconoscere”.
Significa che i diritti umani sono nati prima dello Stato. Ma, anche, che una democrazia si nutre, prima di tutto, della capacità di ascoltare.
Occorre coraggio per ascoltare. E vedere – senza filtri – situazioni spesso ignorate; che ci pongono di fronte a una realtà a volte difficile da accettare e affrontare.
Come quella di tante persone che vivono una condizione di estrema vulnerabilità e fragilità; rimasti isolati. In una società pervasa da quella “cultura dello scarto”, così efficacemente definita da Papa Francesco.
Cui rivolgo un saluto e gli auguri più grandi. E che ringrazio per il suo instancabile Magistero.
Affermare i diritti significa ascoltare gli anziani. Preoccupati di pesare sulle loro famiglie; mentre il sistema assistenziale fatica a dar loro aiuto.
Si ha sempre bisogno della saggezza e dell’esperienza. E di manifestare rispetto e riconoscenza per le generazioni precedenti. Che, con il lavoro e l’impegno, hanno contribuito alla crescita dell’Italia.
Affermare i diritti significa prestare attenzione alle esigenze degli studenti, che vanno aiutati a realizzarsi. Il cui diritto allo studio incontra, nei fatti, ostacoli. A cominciare dai costi di alloggio nelle grandi città universitarie; improponibili per la maggior parte delle famiglie.
Significa rendere effettiva la parità tra donne e uomini: nella società, nel lavoro, nel carico delle responsabilità familiari.
Significa non volgere lo sguardo altrove di fronte ai migranti.
Ma ascoltare significa, anche, saper leggere la direzione e la rapidità dei mutamenti che stiamo vivendo. Mutamenti che possono recare effetti positivi sulle nostre vite.
La tecnologia ha sempre cambiato gli assetti economici e sociali.
Adesso, con l’intelligenza artificiale che si autoalimenta, sta generando un progresso inarrestabile. Destinato a modificare profondamente le nostre abitudini professionali, sociali, relazionali..
Ci troviamo nel mezzo di quello che verrà ricordato come il grande balzo storico dell’inizio del terzo millennio. Dobbiamo fare in modo che la rivoluzione che stiamo vivendo resti umana. Cioè, iscritta dentro quella tradizione di civiltà che vede, nella persona – e nella sua dignità – il pilastro irrinunziabile.
Viviamo, quindi, un passaggio epocale. Possiamo dare tutti qualcosa alla nostra Italia. Qualcosa di importante. Con i nostri valori. Con la solidarietà di cui siamo capaci.
Con la partecipazione attiva alla vita civile.
A partire dall’esercizio del diritto di voto.
Per definire la strada da percorrere, è il voto libero che decide. Non rispondere a un sondaggio, o stare sui social.
Perché la democrazia è fatta di esercizio di libertà.
Libertà che, quanti esercitano pubbliche funzioni – a tutti i livelli -, sono chiamati a garantire.
Libertà indipendente da abusivi controlli di chi, gestori di intelligenza artificiale o di potere, possa pretendere di orientare il pubblico sentimento.
Non dobbiamo farci vincere dalla rassegnazione. O dall’indifferenza. Non dobbiamo chiuderci in noi stessi per timore che le impetuose novità che abbiamo davanti portino soltanto pericoli.
Prima che un dovere, partecipare alla vita e alle scelte della comunità è un diritto di libertà. Anche un diritto al futuro. Alla costruzione del futuro.
Partecipare significa farsi carico della propria comunità. Ciascuno per la sua parte.
Significa contribuire, anche fiscalmente. L’evasione riduce, in grande misura, le risorse per la comune sicurezza sociale. E ritarda la rimozione del debito pubblico; che ostacola il nostro sviluppo.
Contribuire alla vita e al progresso della Repubblica, della Patria, non può che suscitare orgoglio negli italiani.
Ascoltare, quindi; partecipare; cercare, con determinazione e pazienza, quel che unisce.
Perché la forza della Repubblica è la sua unità.
L’unità non come risultato di un potere che si impone.
L’unità della Repubblica è un modo di essere. Di intendere la comunità nazionale. Uno stato d’animo; un atteggiamento che accomuna; perché si riconosce nei valori fondanti della nostra civiltà: solidarietà, libertà, uguaglianza, giustizia, pace.
I valori che la Costituzione pone a base della nostra convivenza. E che appartengono all’identità stessa dell’Italia.
Questi valori – nel corso dell’anno che si conclude – li ho visti testimoniati da tanti nostri concittadini.
Li ho incontrati nella composta pietà della gente di Cutro.
Li ho riconosciuti nella operosa solidarietà dei ragazzi di tutta Italia che, sui luoghi devastati dall’alluvione, spalavano il fango; e cantavano ‘Romagna mia’.
Li ho letti negli occhi e nei sorrisi, dei ragazzi con autismo che lavorano con entusiasmo a Pizza aut. Promossa da un gruppo di sognatori. Che cambiano la realtà.
O di quelli che lo fanno a Casal di Principe. Laddove i beni confiscati alla camorra sono diventati strumenti di riscatto civile, di impresa sociale, di diffusione della cultura. Tenendo viva la lezione di legalità di don Diana.
Nel radunarsi spontaneo di tante ragazze, dopo i terribili episodi di brutalità sulle donne. Con l’intento di dire basta alla violenza. E di ribellarsi a una mentalità di sopraffazione.
Li vedo nell’impegno e nella determinazione di donne e uomini in divisa. Che operano per la nostra sicurezza. In Italia, e all’estero.
Nella passione civile di persone che, lontano dai riflettori della notorietà, lavorano per dare speranza e dignità a chi è in carcere.
O di chi ha lasciato il proprio lavoro – come è avvenuto – per dedicarsi a bambini, ragazzi e mamme in gravi difficoltà.
A tutti loro esprimo la riconoscenza della Repubblica.
Perché le loro storie raccontano già il nostro futuro.
Ci dicono che uniti siamo forti.
Buon anno a tutti!