Il dovere di raccontare senza essere letti…

Quella volta che mi capitò di entrare nel gran barnum del salone del libro allestito a Torino rimasi esterrefatto di fronte alla enorme spirale formata da libri messi uno accanto all’altro col gravoso compito di sorreggersi a vicenda, così che l’opera rimanesse in piedi e dettasse la sua lezione. Allora dominava la scena il dibattito sulla morte del libro, forse per incuria e mancanza di lettori, o forse per l’avvento di tecnologie tanto avanzate e strombazzate da rendere credibile che il cartaceo fosse destinato semplicemente al macero. Roba da non credere, eppure verosimile, ben più di un’ipotesi. In effetti, almeno allora, il rischio era evidente. Però, chi poteva si ribellava al tal fato e sceglieva carta piuttosto che videate illuminate da internet. Oggi Torino dice che per il libro stampato su carta c’è ancora futuro. Un commentatore, anche ieri, si è stupito che vi siano in circolazione donne e uomini che scrivono ancora libri. Lo confesso: faccio parte del gruppo che scrive (per questo blog, per qualche giornale, per minimi eppur coraggiosi editori…) e pubblica per raccontare persone, fatti e memorie, coltivando la segreta speranza che conoscendoli sia anche possibile apprezzarli. In fondo, perché non credere, alla maniera di Umberto Saba, che “d’ogni male mi guarisce un bel verso”? In attesa che il verso guarisca e che le pagine scritte trovino lettori, ahimè, cresce il numero dei no lett, dei non lettori.

Secondo la ricerca, appena ultimata e resa pubblica, dedicata a “leggere in pandemia”, negli ultimi mesi “la lettura è cresciuta, però solo tra i lettori abituali mentre è crollata tra quelli più deboli, svantaggiati e certo del tutto incolpevoli”. Venerdì al Salone si è discusso di presente e futuro dell’informazione: un presente in cui i giornali di carta sopravvivono riadattandosi; un futuro indefinibile, in cui la verità delle news sarà oscurata dalla prepotenza delle fake news lanciate a tutte le ore alle quali i giornali di carta potranno rispondere soltanto se e come avranno lettori disposti a ragionare e riflettere attorno a parole scritte e pensate. Dal dibattito è emerso che per i giornali di carta l’unico modo per opporsi al fiume impetuoso delle notizie che scorrono sul web è diventare “biglietti da visita, carte d’identità, depositi dove trovare sapere conoscenza informazioni di qualità, approfondimenti indispensabili per alzare la testa sopra il livello dell’acqua e non annegare, travolti da quel fiume impetuoso…” destinato a scorrere ancora a lungo. Tra le righe è affiorata però anche la solita domanda – chi paga e pagherà l’informazione di qualità? – a cui è seguita la solita risposta: “Diamine, la pubblicità, oppure i giganti del web, che in questo mercato si muovono come pirati”.

Secondo i partecipanti al circolo sabatino l’informazione di qualità resterà una delle belle intenzioni proclamate ma non attuate. “Come può un giornale, o anche una televisione o radio – ha chiesto il vecchio brontolone – a rifiutare le scemenze richieste dal mercato per mettere in circolo idee degne d’essere lette e ascoltate ma destinate ad avere assai scarsi lettori e uditori?”. Appunto, “la pubblicità esige lettori e uditori in gran numero, mica quattro strampalati sognatori…”. Eppure, appena ieri, Alfonso Berardinelli ha scritto che “non si può negare, ahimè, che la pubblicità, per contenuto, forma, funzione e presenza, sia da tempo un ramo fra i più robusti della cultura di massa. In essa, mercato e cultura di massa coincidono: le merci diventano valore estetico, persuasione, mentalità. La pubblicità agisce con la sua onnipresenza, non ha bisogno di essere consapevolmente creduta. È una specie di inconscio sociale creato per esigenze di mercato”.

Se ho capito bene l’antifona “la pubblicità, come le mode, può essere letta come una specie degradata di filosofia della vita” quella che “tende ormai a volere tutto subito, senza fatica né impegno e al grado massimo di soddisfazione”. Almeno fin che dura, si instaura “una legge che attraverso l’efficienza non umana ma tecnologica diventa abitudine: la legge del desiderio soddisfatto”, immancabilmente subito. Spettatore di tale scempio è “un pubblico di esseri umani, consumatori di merci abbondanti, disposti a tutto”, anche a “essere ciò che non si è, o di non essere ciò che si è, al di là della propria natura, come se la natura in sé e la natura umana in noi esistessero solo in quanto vincoli repressivi da spezzare”. Così “il mercato è un dogma pratico e la pubblicità è l’oppio dei popoli”, con tanti saluti all’informazione di qualità.

Restano per fortuna le eccezioni. Una la racconta quel pazzo di Bergonzoni mettendo in chiaro la sua vocazione a stupire con versi strampalati ma arguti. Dice questo menestrello dell’utopia moderna: “Passeggio per il bosco, non per me. / Cerco un riparo per la notte, non per me. / Per il momento è tutto. / Per il momento, non per me”. Lo segue quell’altro che gira e rigira il mondo conosciuto cercando appigli a cui attaccarsi per vedere luce dove staziona il buio. Allora anch’io leggo e medito sul fatterello, però mica tanto fatterello, che mette in luce la regola e il suo contrario.

Secondo la regola, se sei nel mezzo del campo sportivo e giochi a calcio, sebbene tu si costretto a sentire un grido razzista – tipo “sporco negro…” – non puoi alzare la voce, nemmeno per dire “basta”; secondo il suo contrario, dicendo ragionevolmente al tizio che ha alzato la voce per profferire un grido razzista “sei un ignorante”, proclami una verità sacrosanta, e cioè che il tizio urlante ignora il significato delle parole che sta pronunciando. Nonostante ciò è benché fosse palese l’ignoranza del vociante, il giocatore di calcio e capitano della squadra, sulla base della norma che impedisce a qualunque giocatore di zittire-ammonire-apostrofare-redarguire-consigliare chi sta fuori dal campo col titolo di spettatore, è stato espulso. L’arbitro, poveretto, ha applicato il regolamento e ha fatto quel che doveva vergognandosi in cuor suo di dover dar ragione all’energumeno sugli spalti. Il resto, lodevolmente, lo hanno fatto i compagni di squadra dell’espulso, decidendo tutti quanti di auto-espellersi, mettendo fine alla pantomima e obbligando i tutori delle norme a ripensare il valore delle regole imposte. “Come dire – ha scritto nel suo manuale di sopravvivenza Stefanio Massini – che in fondo l’unica mossa per sopravvivere è far saltare il banco, e davanti a una norma platealmente astrusa rifiutarsi di giocare. Certo, la squadra verrà penalizzata per abbandono del campo. Ma vuoi mettere la soddisfazione?”. Se capitate a Vittorio Veneto cercate qualcuno del San Michele Salsa e ditegli che avete apprezzato il gesto compiuto.

Anche questa è una domenica speciale: si vota per dirimere la questione di chi e come deve governare; si piange sulla stupidità che impedisce di vedere la salvezza oltre la condanna strombazzata dal virus pandemico; si invoca il prevalere della ragione su qualsiasi rigurgito fascista; si compra il solito quotidiano chiedendogli lumi sull’esistenza; si ascoltano le solite televisioni e radio immaginando siano voci amiche piuttosto che voci solo interessate a far quadrare i bilanci. Poi, succede anche che chi onora il suo essere cristiano partecipando alla Messa, invece di gridare la grandezza del gesto e l’importanza delle parole messe in circolo, prende la predica e, con poco riguardo, la mette in tasca, in attesa di eventuali ma improbabili verifiche. Cercando tracce delle prediche dettate dal mio amico don Giacomo, ho sbattuto il naso contro un foglio avuto in dono chissà quando e rimasto lì ad accumulare polvere piuttosto che attenzione.

Si tratta di un manoscritto datato 1692, trovato a Baltimora nell’antica chiesa di san Paolo, che improvvisamente mi ha rasserenato regalandomi le risposte mancanti all’umana quotidiana avventura. Dice: “Va’ serenamente in mezzo al rumore e alla fretta e ricorda quanta pace ci può essere nel silenzio… Finché possibile senza doverti arrendere conserva i buoni rapporti con tutti. Dì la tua verità con calma e chiarezza, e ascolta gli altri, anche il noioso e l’ignorante, anch’essi hanno una loro storia da raccontare. Evita le persone prepotenti e aggressive, esse sono un tormento per lo spirito. Se ti paragoni agli altri, puoi diventare vanitoso e aspro, perché sempre ci saranno persone superiori e inferiori a te. Rallegrati dei tuoi risultati come dei tuoi progetti. Mantieniti interessato alla tua professione, benché umile; è un vero tesoro nelle vicende mutevoli del tempo. Sii prudente nei tuoi affari, poiché il mondo è pieno di inganno. Ma questo non ti impedisca di vedere quanto c’è di buono; molte persone lottano per alti ideali, e dappertutto la vita è piena di eroismo. Sii te stesso. Specialmente non fingere di amare. E non essere cinico riguardo all’amore, perché a dispetto di ogni aridità e disillusione esso è perenne come l’erba. Accetta di buon grado l’insegnamento degli anni, abbandonando riconoscente le cose della giovinezza. Coltiva la forza d’animo per difenderti dall’improvvisa sfortuna. Ma non angosciarti con fantasie. Molte paure nascono dalla stanchezza e dalla solitudine. Al di là di ogni salutare disciplina, sii delicato con te stesso. Tu sei un figlio dell’universo, non meno degli alberi e delle stelle; tu hai un preciso diritto a essere qui. E che ti sia chiaro o no, senza dubbio l’universo va schiudendosi come dovrebbe. Perciò sta in pace con Dio, comunque tu lo concepisca, e qualunque siano i tuoi travagli e le tue aspirazioni, nella rumorosa confusione della vita conserva la pace con la tua anima. Nonostante tutta la sua falsità, il duro lavoro e i sogni infranti, questo  è ancora un mondo meraviglioso. Sii prudente. Fa di tutto per essere felice”.

LUCIANO COSTA

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