C’era una volta un mondo in cui tutti sognavano di poter vivere felici e contenti… Allora chiesi ad alta voce: “Per favore, ditemi dov’è quel mondo, voglio abitarlo!”. Mi risposero: “C’è posto soltanto per i pazzi e per gli illusi”. “No – ribattei -, non può essere che un mondo così vario, bello e variabile sia solo per pochi pazzi e illusi”. Eppure, era proprio così che andavano le cose. Poi vennero un virus, due carestie, tre guerre, quattro dittatori, cinque stupidi idioti capaci soltanto di dire no, sei o seicento o seimila terroristi… e tutte le certezze di quel mondo fatato crollarono lasciando spazio alla disperazione: con la gente costretta a combattere qualcosa di invisibile, con popoli affamati, con gli assordanti fragori della guerra allineati per incutere paura, con villani usurpatori di dignità e libertà, con ignoranti padroni di un nulla da vendere come scienza novella e risolutiva, con vili dispensatori di morte… E poi, mamme costrette a lanciare i loro bimbi oltre il muro di cinta di un aeroporto per sottrarli al destino di miserabili infelici schiavi e invece, oltre il muro, immaginarli vivi e capaci si essere protagonisti del loro futuro; ragazzi già morti che cercando ancora di vivere si aggrappano al carrello di un aereo in partenza resistendo in quella disperata posa fatta di ingenua speranza solo il tempo di accarezzare il cielo per poi precipitare da dove si erano allontanati.
Ecco, questo “è il collasso di una visione del mondo, di un’idea di futuro” di cui siamo spettatori attoniti, incapaci di profferire anche solo una parola di conforto. E il mondo felice? “Non c’era prima, non c’è adesso e non ci sarà neppure domani – ha sentenziato Bastiano -, soprattutto perché un mondo felice disturba chi da quel mondo vuole solo estrarre soldi, soldi e ancora soldi…”. In un mondo siffatto, ha scritto ieri Mauro Bonazzi “chi può corre o forse scappa; chi non può si adegua…” Ma è davvero questo il modello di comunità che cerchiamo?
Ieri ho visto arrivare a Edolo, cittadina della Valle Camonica, cento disperati fuggiti dall’Afghanistan e dai talebani che l’hanno conquistato: non avevano sorrisi e neppure parole; sono scesi dai bus serrando tra le mani il foglio che li definiva perseguitati politici e che li classificava ospiti temporanei, tenendo vicini bimbi e bimbe spaesati e incapaci di capire quel che stava succedendo. Vicino all’ingresso della struttura destinata ad accoglierli qualcuno aveva lasciato giocattoli, altri sciarpe e magliette, altri ancora scatole di riso (poco o niente rispetto ai bisogni, ma tanto, tantissimo per dire agli sconosciuti che erano benvenuti…) subito rimossi, forse per impedire contagi o forse perché l’ordine era quello di impedire qualunque cosa che potesse turbare, o anche solo alterare, il senso dell’ospitalità concessa. ““La montagna insegna a esercitare solidarietà senza chiedersi per chi e nemmeno per come – mi ha detto allora un pensionato -. Qui infatti abbiamo spazio. Quindi, cento afgani in cerca di futuro ci stanno e sono benvenuti”.
Passeggiando tra file interminabili di automobili dirette in su e in giù e poi costeggiando il fiume che si allontana portando a valle tutto quel che ha raccolto a monte, ancora commosso dal silenzio e dal rispetto che aveva circondato l’arrivo dei profughi afgani (che se non fosse stato per l’andirivieni frenetico degli automezzi della forza pubblica poteva essere semplicemente parte di una vacanza programmata) mi sono trovato a immaginare di quale futuro si sarebbero ammantati quei cento appena arrivati. Ho immaginato cieli e terre disposti ad accoglierli, ma anche l’incontrario, cioè cieli e terre negati lasciando spazio alla paura, all’incertezza, al nulla che sarebbe venuto dopo il tutto concesso sull’onda delle emozioni, all’impossibilità di disegnare il futuro dentro una vita degna d’essere vissuta… Ho allora ripensato alle domande messe in bella vista da Michela Mazzano (“chi di noi vive davvero la vita che vorrebbe? chi, talvolta, non è costretto a fare compromessi oppure a elaborare il lutto di ciò che non ha avuto, non ha, e non avrà mai?”) e alle risposte allineate in altrettanto bell’ordine (“probabilmente nessuno, anche semplicemente perché nessuna persona riesce a ottenere tutto quel che desidera; e anche coloro che sembrano apparentemente raggiungere o possedere esattamente ciò che vorremmo avere noi, spesso hanno tutto, tranne quello che avrebbero desiderato e che noi magari abbiamo senza aver fatto niente di particolare per ottenerlo”) per dirmi e dire a chiunque che un conto sono i sogni irrealizzati e altro “è fare una vita in cui non si crede e continuare a farla solo per orgoglio, solo per non apparire perdenti”.
Mi sono allora sentito non più giovane, anzi, vecchio, invecchiato, capace di pensare ma non di adeguarsi ai rap, ai tic, ai gulp, ai croc, ai smart e ai vaffa dominanti, tal quale ai tanti che Mario Postizzi, intelligente facitore di aforismi, colloca tra i cultori della “malinconia che fa cadere all’indietro le lancette trafitte del tempo”, uno che “fa di tutto per diventare attore non protagonista della sua biografia”. Però, i son detto, invecchiare, e invecchiare pensando, invecchiare scrivendo, è una bella fortuna: o, se preferite, una vera grazia di Dio. “Alla nostra età, anche quando si è riusciti (con o senza nostro merito) ad evitare altre possibili paure – ha scritto un saggio pensatore -, ci resta comunque da affrontare la Grande Compagna del Genere Umano”, cioè il resto della vita che ci resta da vivere, magari abbracciando e tenendo ben stretto il coraggio che serve per non avere paura di avere coraggio.
Poi, sul finire dei pensieri, mi sono imbattuto in un tale che gridava al vento: “C’era una volta un gallo…”. Magari, ho pensato, proprio quello al quale Filelfo, scrittore di illusioni e affabulatore dell’improbabile oppur vera assemblea degli animali, dice “annuncerai l’arrivo del giorno che pone fine all’oscurità delle notti; ricorderai al mondo che il ciclo delle albe e dei tramonti non è che lo specchio del grande ciclo del Brahman, che non esiste buio senza luce, aurora senza crepuscolo, sonno senza veglia, e che la vita è sogno, come i sogni, sogni sono”, ma anche istruisce dicendogli “sia il tuo canto compassionevole, poiché difficile è per tutti, specie per gli umani, levarsi ogni mattina e riprendere a far girare la pesante ruota del divenire, perché ogni risveglio porta con sé il rimpianto del sonno che si è appena lasciato e altro non è che il ricordo sbiadito di quando ciascuno era tutt’uno con Brahman; sia il tuo squillo acuto come lo shanai, ma echeggi gentile come il sitar, poiché deve guidare nel transito dall’uno all’altro mondo, quello del sonno e quello della veglia, e vi si nasconde il segreto dell’illuminazione”. Chicchirichi è il suo grido. ”E quel suo richiamo rituale ricorda che tutti obbediamo alle stesse leggi di natura, poiché in lei tutti abbiamo origine”. Però, agli umani non importa se “non potranno mai cantare l’inno del mondo dato che essi hanno dimenticato l’onore che si riserva ai musici e ai messaggeri”. Ecco, “gli umani sono andati troppo lontano e il loro viaggio verso le terre del tramonto è più lungo e più oscuro…”.
Chicchirichi! Io sono il gallo, “primo araldo del paradiso, sentinella della luce che ha avuto l’onore di dare inizio ai lavori dell’ultima assemblea degli animali, in cui si è discusso a lungo della malattia dell’uomo, non questa nuova epidemia che lo opprime, ma quella più antica: l’oblio, l’avere dimenticato di essere parte di un unico mondo, di un’unica anima. Il mio canto vi giunge da dove non c’è notte né aurora. Sono morto pochi giorni fa, perché voi festeggiaste con la mia carne le ferie di agosto, inconsapevoli della vostra crudeltà, addormentati nell’indifferenza del vostro ventre sazio. Ma mentre voi dormite, il mio cuore ancora veglia”.
Scusate il disturbo. E dalle storielle raccolte alla rinfusa e qui raccontate prendete ciò che serve e buttate il resto alle ortiche.
LUCIANO COSTA