A qualcuno interessa che una (la presentatrice e soubrette Michelle Hunziker) se la goda ai Cappuccini di Cologne e l’altra (la principessa degli infuencer Chiara Ferragni) riposi al grand’Hotel Villa Feltrinelli di Gargnano? In teoria non dovrebbe interessare altri se non i diretti interessati e cioè loro due, in pratica interessa a tanti, così tanti da spingere un quotidiano a dedicare righe e fotografie proprio al loro dolce soggiorno in terra bresciana. E’ la cronaca, bellezza! E bisogna raccontarla. “Ma dai – dice il vecchio eterno Bortolo brontolone -, si può vivere anche non sapendo che questa o quella vanno a miracolo mostrare in giro per il mondo conosciuto…”. Vero. Però, vuoi mettere l’importanza che di lì in avanti le mille e i mille “casalinghe/casalinghi di Voghera” (niente altro che un modo per raffigurare l’universo che si ritrova nei giornali che vivono di pettegolezzi e amori, veri finti o sussurrati, purché famosi e fumosi) attribuiranno i luoghi resi celebri dalle affascinanti visitatrici?
E’ domenica, per di più è la prima domenica che gode di una certa libertà di movimento, e quel che passa il convento è davvero straordinariamente vario e abbondante. Se non bastano le due bellone messe in pagina, può essere di conforto sapere che in Giappone hanno inventato un semaforo da tavola, che messo sul desco mentre si pranza al ristorante e magari si alza il tono della voce, prima manda segnali verdi, poi rossi. E se anche dopo i segnali colorati il tono non si abbassa, arriva il solerte cameriere per dire che così non va, che bisogna abbassare i toni, che la voce deve essere usata con educata emotività. Il piccolo semaforo da tavola si chiama Shisuka gozen (che tradotto significa Principessa del silenzio) ed è prodotto da una ditta il cui nome, tradotto in italiano, significa forte. Fate voi: o la capite con le buone di abbassare la voce quando siete al ristorante, oppure ci pensa il semaforino, magari con l’aiuto di qualcuno veramente forte.
Se interessano cose più serie (ma in verità non so quanto più serie) un aiuto lo offre il giuoco dei personaggi, però non gli attuali più in vista, bensì quelli che usciti dal grande circo mediatico a causa delle variabilità intervenute a scombinare il quadro, adesso vivacchiano in attesa di (si spera) improbabili ritorni al passato. Senza ordine e senza alcuna priorità, metti lì, per esempio, un Vito Crimi, che da nessuno qual era, sic et sempliciter divenne deus ex machina dei “Cinque Stelle”. A Brescia, il Viti che improvvisamente veniva proiettato tra le (cinque) stelle, era considerato un dipendente del Tribunale locale. Invece, altrettanto all’improvviso, diventò un baciato dalla politica (esatta rappresentazione dell’uno vale uno), poi uno che si poteva prendere ed esibire in caso di bisogno, di crisi improvvisa o di necessità, giusto per tappare un buco provocato dal cattivo uso della cosiddetta politica on line.
Oppure, metti Umberto Bossi, il primo vero celodurista, che avendo base vacanziera a Ponte di Legno, ogni anno aggiungeva amici alla casta degli amici nascosti e fidati… Dentro il vortice vacanziero c’ero anch’io e non certo per questioni politiche. Però, il fatto che dirigessi un’emittente locale, prima negli ascolti e dentro il corso delle cronache, mi rendeva appetibile agli occhi di quei novelli peones in cerca di visualità. Con Bossi non avevo né legami né aspirazioni. Però, una notte, dopo che il suo ministro Vito Gnutti (uno sconosciuto salito in alto per il solo fatto di essere un piccolo industriale dentro il sistema leghista) mi aveva presentato sottolineando che ero il più grande nemico della Lega e ricevendo in cambio un “meglio un nemico vero che un amico falso”, bevendo quel che il convento del Mirella offriva, mi disse che avrebbe volentieri appoggiato la mia candidatura a più alto incarico. Gli risposi che stavo bene dove ero, libero di commentare il becero-finto-cafonesco-deprimente rivoluzionismo suo e dei suoi fidi.
Se poi aggiungi Pier Luigi Bersani, (“un ragioniere al quale affiderei a occhi chiusi il portafoglio” disse un suo collega di partito più propenso a frenarlo che ad agevolarlo nella corsa elettorale appena intrapresa) ti accorgi in fretta che la storia è incapace di prendere di qua per mettere di là in giusta misura, che insomma è maligna sia nel propiziare ascese, sia nel provocare cadute improvvise. Bersani, destinato a fare qualcosa di sinistra in un Paese che allora stava privilegiando cose di destra, non capì gli umori degli italiani e perse la sfida. Allora diventò censore dei suoi compagni di viaggio, ospite più o meno fisso del caravanserraglio mediatico disposto a tutto e al contrario di tutto pur di ottenere audience e diritto di esistere, ideologo delle cose di sinistra da fare mantenendole però in sintonia con le cose di destra preferite dal grande pubblico. Martinazzoli, nel bel mezzo dei un congresso democristiano che si celebrava a Sirmione, definì i sostenitori delle cose di sinistra da fare come se fossero cose di destra, “novelli e sfacciati interpreti di una sinistra politica che impunemente ingrassa alla corte della destra economica”. E perché fosse chiaro il concetto, rivolgendosi a un collega di partito, gli ricordò la metafora dell’albero da scuotere e del cestino pronto per raccogliere impunemente le pere cadute. Bersani, diventato nel frattempo emblema di ciò che resta di una sinistra che invoca cose di sinistra da fare per sembrare di sinistra, della metafora martinazzoliana interpreta adesso la parte meno spinosa, quella che sostiene sia “arrivato il momento di raccogliere impunemente le pere cadute”, nel frattempo certamente diventate voti elettorali in libera uscita.
Fuori dal giochino c’è adesso Enrico Letta, segretario del Partito Democratico, che incurante dei rischi ha gettato nella mischia la spinosa questione della tassa di successione, una cosa di sinistra che secondo l’interpretazione mediatica dominante, palesemente di destra, vuole togliere ai ricchi per darlo ai poveri. Secondo Michele Serra “la tassa di successione è di sinistra perché in un Paese come il nostro, che ha un ricambio sociale lentissimo, niente è più iniquo della conservazione di patrimoni che premiano non il merito, ma la nascita”. In una ricerca sociologica da poco pubblicata ho letto che “nell’arco di tempo che va tra il 1995 e il 2016, la quota di ricchezza posseduta dal 50% meno benestante degli italiani adulti (circa 25 milioni di persone) è calata dal 11,7% al 3,5% del totalenazionale. Nel contempo i 50mila cittadini più facoltosi (pari allo 0,1% della popolazione) aumentavano la loro fetta di torta dal 5,5% al 9,3%”. La ricerca (è intitolata The concentration of personal wealth in Italy) si basa su una nuova fonte di dati, i registri delle imposte di successione, che permettono di osservare la consistenza e la distribuzione dei patrimoni partendo dall’osservazione dei trasferimenti di ricchezza che intervengono alla morte dei titolari. Non so se Enrico Letta abbia preso spunto da questa ricerca per formulare la proposta a favore della dote ai diciottenni, di certo so che intendeva fare una cosa di sinistra. Per esempio, indurre i resti del glorioso partito democratico a confrontarsi sull’identità di sinistra costruendo/ricostruendo il rapporto con i giovani. Secondo Stefano Folli “è una mossa che deriva dal progressivo inaridirsi della proposta del Pd, la cui tendenza a esistere soprattutto come ceto politico conservatore di se stesso è il segno più tangibile del declino”.
Da Cetto La Qualunque ha sicuramente preso spunto l’ex ministra dei “cinque stelle” Lucia Azzolina per lanciare i suoi strali contro la decisione di restituire il godimento della pensione all’ex presidente della Regione Lombardia e poi senatore della Repubblica Roberto Formigoni. Come rammenta Aldo Grasso sul Corriere Della Sera, al suo avversario politico, il prode Cetto diceva “io non ti sputo se no ti profumo”; al beatino Formigoni ritornato titolare della sua pensione la Azzolina (quella che da Ministra della Pubblica Istruzione voleva combattere il Covid nella scuola con gli inutili e inutilizzati banchi a rotelle) ha detto che il suo ritorno alla pensione equivale allo “scatarrare sui cittadini onesti”.
Da non so chi, qualcuno ha preso spunto per dirmi “non sei degno di parlare di Battiato”, quasi che il diritto di parlare e scrivere di qualcuno andato avanti ubbidisca a classifiche precompilate e non a emozioni e ricordi conservati: senza essere nella cerchia dei suoi amici ero un amico occasionale che apprezzava quel suo modo di essere sincero e anticonvenzionale. Così, questo sentirmi comunque suo amico mi ha spinto a leggere quel che in tanti hanno scritto. A sinistra hanno ritirato fuori antichi improperi (quelli di Matteo Salvini che definiva il menestrello cantore di infinito “piccolo uomo”) e a destra gli sprezzanti commenti (scritti da uno di destra-destra) ai testi delle sue canzoni.
Secondo Mattia Feltri, da tali argomentazioni si possono trarre due insegnamenti: non si può più parlare male dei vivi perché un giorno saranno morti; siamo tutti colpevoli in attesa di essere scoperti (perché questo sembra riservarci quel cumulo di detriti conservato nelle memorie artificiali, laddove basta aver scritto da sedicenne americana un “negro” occasionale per essere espulsa a vent’anni dal college appena conquistato). Battiato avrebbe sorriso e invitato a pensare alla maniera dei monaci buddisti che nel suono prodotto dallo strofinio della campana trovano ristoro. Oggi, nuovamente immersi nel troppo traffico (di pensieri, parole, uomini e donne che si muovono disordinatamente) a fatica riusciamo a sentire la sua voce sussurrarci che “ci vuole un’altra via”, che non è più il tempo della “morale all’ora dell’aperitivo”, che “la vita è magica e la gente che ignora questo si perde molto, perché gli esseri umani non muoiono (“ci si trasforma – diceva -, e io non posso affermare di non avere paura della morte, tutt’al più posso dire che sto lavorando per essere degno di questo passaggio”), che si può pregare, pensare e meditare in musica…
LUCIANO COSTA