Il Domenicale

Il rischio di dimenticare a memoria…

Che memoria resta da celebrare se quella di ieri, inserita in una giornata che la metteva in evidenza con preghiera di prestarvi attenzione e rispetto, è stata offesa da schiamazzi indegni-inaccettabili-fuorvianti-ingiusti e tali da rendere cupo-tragico-irrespirabile e indegno di una società che vorrebbe essere considerata civile il tempo ancora concesso perché agli offesi (milioni di offesi e uccisi perché diversi…) fossero restituite dignità, verità e memoria? Tornano attuali le parole lette su un foglio incollato al cancello del campo di sterminio di Gusen, laddove Andrea Trebeschi e mille altri come lui innamorati della verità e della libertà erano stati trucidati dal boia a cui l’insipienza e l’odio per coloro che rifiutavano di allinearsi alle orrende teorie dei dominatori e usurpatori aveva consegnato la mannaia decapitante e assassina (la stessa che s’accanì su Kurt Huber, mite professore e guida dei giovani della “Rosa Bianca”) e la riserva di gas da usare contro la massa di ebrei, di  cristiani-cattolici, di ortodossi, di protestanti, e poi di politici, di migranti, di testimoni di Geova, di omosessuali, di malati psichici, di asociali, di rom, di sinti, di disoccupati… destinati al macello perché, secondo gli aguzzini nazisti, “sgorbi e indegni della loro razza“ . Tempi bui, tempi in cui la parola innocente era considerata stolta e una fronte distesa voleva dire insensibilità; tempi amarissimi e violenti in cui, scriveva Bertolt Brecht, “chi ride, la notizia atroce non l’ha ancora ricevuta”.

Ieri, perché la giornata celebrata non restasse preda di voci alimentate solo da odio ignoranza e disprezzo, ho chiamato Wolfgang, il figlio del professor Kurt, per dirgli “non sei solo”, per assicurargli che il ricordo mi avvicinava a lui e che il pensiero del sacrificio immane compiuto dal babbo era e restava stimolo a mettere pensieri di pace-concordia e fratellanza al posto di quelli che scelleratamente infangano i giorni che ancora si ostinano a chiedere di essere vissuti. Francesco, papa tribolato e coraggioso, sempre ieri ha auspicato che “il ricordo e la condanna dell’orribile sterminio di milioni di persone ebree e di altre fedi, avvenuto nel secolo scorso, aiuti tutti a non dimenticare che la logica dell’odio e della violenza non si può mai giustificare, perché nega la nostra stessa umanità”. All’alba ho ricordato quel che Giorgio La Pira, con l’incoscienza che gli derivava dal mettere il Vangelo davanti alle stoltezze e alle atrocità che offuscavano il suo Cielo, aveva scritto perché nessuno si sentisse esentato dal ricercare il Bene. Annotava il mite La Pira: “Siamo di fronte a un nuovo crinale apocalittico, in alcune zone del mondo sembra divenuta impossibile non soltanto la convivenza, ma persino la vicinanza”. Subito dopo, in un angolo di pagina invitante a ricordare, ho scoperto che la Memoria dovuta a chi la vita l’ha sacrificata perché libertà e verità fossero cittadine del mondo, se non coltivata e insegnata, si dissolve irrimediabilmente. Un sagace inventore di battute, abbastanza anziano per aver conoscenza di ciò che è stato messo al centro della Giornata della Memoria, di fronte al rischio di dimenticare, ha profferito così questa illuminante e disarmante sentenza: “Il segreto è dimenticare a memoria”.  E mentre lui sentenziava, in piazza c’era chi gridava “contro il sistema la gioventù si scaglia, boia chi molla il grido di battaglia”, con seguito di  “Duce! Duce! Duce!”. Ma come, ancora lui?

Preoccupato, e non poco, ho mestamente riconosciuta la mia incapacità di imparare. Credevo infatti di aver esiliato il fascismo e la sua orrenda storia, il nazismo e l’orribile sua funzione di taglia teste innocenti (ricordo l’orrenda fine imposta a Kurt Huber, papà del mio amico Wolfgang, decapitato per aver insegnato ai giovani della “Rosa Bianca” il valore della libertà, della democrazia e della verità); sotterrato il comunismo e i suoi attuali rimasugli, cantori superstiti ciechi e sordi alla verità (uno di costoro, aggressore evidente e malvagio eppur capace di invocare la fine della guerra, ma altrove e non nell’Ucraina proditoriamente invasa, dove lui, da settecento e quindici giorni sta seminando morte e devastazione – se interessa costui è quel Putin che chiedendo la fine della guerra a Gaza interpreta l’assurdo che cammina in un mondo assurdo e assurdamente proteso a al peggio… uno che non ha pudore e neppure vergogna, un dittatore, il peggio del peggio -; cancellato il ricorso alla  odiosa cerimonia della colpa attribuita senza averla rivestita della verità che sola rende liberi; messo al bando chi vede la pagliuzza ma non la trave che l’ha generata… Credevo, e invece tutto o gran parte di quel tutto era ancora lì a dirmi che la storia non aveva insegnato nulla e che dietro l’angolo il peggio era ancora in agguato.

Allora ho guardato ai potenti in funzione e li ho trovati “superbamente ricoli!” Tal quali a Puck, quello che abita nel “sogno di una notte di mezza estate”, a cui l’autore – W. Shakespeare – fa dire: “Se noi ombre vi abbiamo offeso, per poterci dare il perdono fate conto di aver dormito, mentre queste visioni appaiono e che, a mostrarvi paesaggi immaginari sia stato un sogno. Signori, non ci rimproverate”. Credo che il riferimento abbia poca consonanza con la Memoria richiamata e celebrata. Però, “siccome Puck, spiritello dispettoso e assai poco metodico – ha scritto un tale che sebbene sconosciuto merita apprezzamento -, che non ne fa una giusta e per questo mette in mostra tutta la sua ambiguità, l’ambivalenza, la confusione e la pazzia, dimostra come siano proprio il caso e il caos, e dunque la confusione, a dominare anche l’orizzonte umano… sempre più imbrattato da spiritelli umbratili”, lo metto in riga perché sia monito a non seguirlo. “Sarà anche vero – ammonisce il filosofo Mauro Bonazzi -, ma chi è disposto a giurare che sia proprio così” che cioè “pensiamo, ragioniamo, parliamo, che usiamo la testa, insomma?”. Però, facciamo anche altro. Come ha scritto Hannah Arendt, “agiamo, e anche di questo, di quello che facciamo nelle nostre giornate e nelle nostre vite, dobbiamo occuparci, con buona pace dei filosofi, che si interessano solo di ragionamenti”.

Rileggo e rimetto in pagina quel che Wolfgang Huber (figlio di Kurt, il professore che aveva guidato i giovani della “Rosa Bianca” alla rivolta pacifica contro il nazismo, docente universitario e prezioso custode delle memorie paterne), mi confidò dopo aver incontrato Cesare Trebeschi, allora sindaco di Brescia. Con evidente commozione mi disse: “Costui appartiene con diritto alla cerchia di coloro ai quali la tracotanza del dittatore ha strappato il padre, ma non il suo affetto, la sua memoria e il suo esempio”. Poi, quando capitò di ragionare sul senso della rivolta portata avanti dai ragazzi della Rosa Bianca, sul ruolo dei maestri che li avevano aiutati a opporsi alla dittatura, sul valore della libertà, sul significato di resistenza, sulle ragioni che sovrastavano le perverse ideologie, Cesare mi disse che preferiva il silenzio, “perché è nel silenzio – mi spiegò con evidente sofferenza –che la memoria diventa lezione per il presente e per il futuro”.

In quel silenzio rivedo l’anima più vera dell’amico (salutandomi prima di incamminarsi al Cielo, mi raccomandò di avere memoria per coloro che erano morti innocenti a causa delle idee malvage di qualcuno; di quella raccomandazione conservo l’attualità e la valenza), un’anima linda e disposta alla misericordia, semplice e aperta alla speranza, splendente e disponibile ad accogliere chiunque. A quel punto non mi interessava sapere per filo e per segno quel che era stato, ma solo che non era accaduto invano. Anche don Giacomo Vender, prete di strada, fratello degli sfrattati bresciani e dei poveri in cerca di futuro, quando gli chiesi di parlarmi di Andrea Trebeschi (papà di Cesare, arrestato, torturato e ucciso dalla barbarie nazista nel campo di concentramento di Gusen il 24 gennaio 1945, quando la campana della Liberazione aveva già incominciato a far sentire i suoi rintocchi), che considerava il suo prossimo più prossimo nella ricerca della libertà e nel promuovere l’autentica giustizia e della sua straordinaria avventura di cristiano impegnato a costruire un mondo migliore, mi pregò di non chiedere a lui quello che potevo trovare scavando nei ricordi della gente e nelle parole dei testimoni.

Allora rilessi quel che don Cencio, nome di battaglia di don Giacomo Vender durante la Resistenza, aveva scritto in ricordo dell’amico trucidato a Gusen. Le sue parole erano un canto libero invocante giustizia e pietà per coloro ai quali, come ad Andrea, la vita era stata orrendamente strappata. “Il grido della sua fedeltà al programma (ben riassunto nell’affermazione “ama il tuo Dio e ama il tuo prossimo”) – scrisse don Cencio a conclusione del ricordo per l’amico – fu più alto della più alta colonna di fumo dei diabolici forni”. Cesare, che alla scuola di don Vender aveva appreso il valore dell’amore dato agli ultimi, agli oppressi, ai perseguitati, agli sfrattati dalla città dell’uomo, assegnò al dovere di fare memoria, di circondare d’affetto coloro che erano stati costretti ad andare avanti e di innalzare al cielo la preghiera di suffragio, un valore universale. Così, ogni anno, puntuale, giungeva il suo invito, racchiuso in una cartolina arricchita da una fotografia del campo di sterminio nazista e da una frase invitante a pregare insieme “per suo padre Gian Andrea Trebeschi, ucciso il 24 gennaio 1945 nel campo di concentramento nazista di Gusen, per tutti i morti dei lager (ebrei, cristiani – cattolici, ortodossi, protestanti –, politici, migranti, testimoni di Geova, omosessuali, malati psichici, asociali, rom e sinti, disoccupati…), per i morti a causa della violenza e della negazione della fratellanza, morti perché vincesse la ragione e tacessero le armi”, per dire a ciascuno che “non basta essere contro qualche cosa, che è invece necessario imparare a impegnarsi per qualche cosa di importante.”. Ma guai a farlo senza umiltà. Perché “anche quando l’umiltà non ci salva dall’inferno, almeno ci salva dal ridicolo”; perché “l’umiltà è una virtù nascosta, per sua natura non risulta appariscente, non ama farsi avanti e in ogni occasione di visibilità rimane un passo indietro”; perché “l’umiltà è l’opposto di superbia, ossia il peggiore dei vizi, il peccato capitale per eccellenza, quello che domina gli altri e che ha fatto precipitare nell’inferno Lucifero, che ne è divenuto capo azienda”. Questo lo ha scritto Nicolás Gómez Dávila (scrittore, filosofo e aforista colombiano), morto nel 1994 e per fortuna mai dimenticato.

Con l’umiltà messa in circolo come modello di vita, Gómez Dávila spiega ancora adesso il senso del ridicolo, di cui pochi conoscono i confini, ne precisa i contorni e argomenta sulla pochezza di chi dicendosi immune, di fatto è il primo a vestirsi di ricolo. Così, come è successo ancora ieri con l’intenzione di celebrare la Giornata della Memoria, quando in televisione scorrono le immagini in bianco e nero, leggermente accelerate, dei grandi e malefici dittatori del Novecento (non chiedete a me i loro nomi, li conoscete e li conosce la storia: sono stati strumenti di odio e di morte, spieghiamolo ai ragazzi e ai giovani che faticosamente sono alla ricerca di un Bene capace di cancellare le ingiustizie di regalare Pace al mondo intero), cioè coloro che hanno precipitato l’umanità in una tragedia dalla quale avevamo coltivato la speranza di essere usciti definitivamente, insieme al popolo che ricorda e ricordando immagina cieli e terre nuovi, mi stupisco della credibilità che tali figure hanno avuto, del fatto che quasi nessuno abbia colto il lato ridicolo del loro modo di muoversi e gesticolare.

Sergio Valzania scrive che “mentre le guerre in corso si estendono ogni giorno, i responsabili politici del mondo non sembrano attenti all’immagine che di sé danno, alla mancanza di umiltà e disponibilità che manifestano, in definitiva al rischio che corrono: quello di cadere in un tragico ridicolo”. Quando le trombe della contestazione sessantottina suonavano a distesa (io c’ero e da cronista implume raccontavo miserie e assai poche nobiltà…), ai potenti di turno era dedicato un ammonimento severissimo, quello che dicendo “una risata vi seppellirà” decretava il loro declino. Prima di allora, all’arrogante duca di Napoli (uno dei tanti, tale Alfonso Maria di Sant’Agata dei Fornari) il popolo assai poco ossequiente aveva riservato un pernacchio, o pernacchia se preferite, offesa e lezione per gli arroganti e i superbi. Oggi, in un tempo di stupefacenti scoperte e mirabolanti novità (penso all’IA, l’intelligenza artificiale, che qualcuno già considera la panacea di tutti i mali, ma che vista con gli occhi di un ignorante qual mi reputo e sono, induce a cattivissimi pensieri: che ne sarà degli umani? chi impedirà all’intelligenza artificiale di diventare idiozia avanzata? chi e come colorerà d’azzurro il cielo, di blu il mare e di verde le montagne e di rosso le albe e i tramonti?), nella cerchia degli umani, che si confermano più stupidi che intelligenti, n on è raro e neppure difficile trovare incivili disposti a tutto pur di apparire.  Tra costoro ho ieri scoperto un giovanotto, bullo di primordine e zoticone non da poco, noto alle masse, più stupide che intelligenti, per la sonorità e l’ampiezza dei suoi rutti: sì, proprio i rutti, soffi che dalle viscere salgono fino al collo per poi eruttare dalla bocca tal quale al suono emesso da tromboni stonati e così diffondere nell’aere che lo circonda l’inconfondibile olezzo della sua stupidità e della sua evidente maleducazione. Potete non crederci, ma tutto ciò è realmente accaduto a Roma (fino a ieri “caput mundi”, oggi non si sa), davanti al Parlamento, con tanto di immortale ricordo raccolto dal cellulare-fotocamera, che essendo inanimato di certo non poteva dolersi di stare di fronte a un portatore di tanta stupidità.

Quando finirà questo scempio? Forse mai, o forse quando avremo smesso di “dimenticare a memoria”.

LUCIANO COSTA

 

Ci salverà Mattarella….

“La storia della deportazione e dei campi di concentramento non può essere separata dalla storia delle tirannidi fasciste in Europa: ne rappresenta il fondamento condotto all’estremo, oltre ogni limite della legge morale che è incisa nella coscienza umana”. Con queste parole, un sopravvissuto all’inferno di Auschwitz, Primo Levi, scolpiva, nel 1973, il giudizio sulle radici e sulle responsabilità prime dello sterminio organizzato e programmato ai danni di donne e uomini definiti di razze inferiori, il più grave compiuto nella storia dell’umanità.

Il più abominevole dei crimini, per gravità e per dimensione –  il genocidio di milioni di persone innocenti –  commesso a metà dello scorso secolo nel cuore della civile Europa, dove già da molto tempo gli ideali di libertà, di rispetto dei diritti dell’uomo, di tolleranza, di fratellanza, di democrazia si erano diffusi, e venivano proclamati e largamente praticati.

Il senso di incredulità registrato di fronte a quanto accaduto in quegli anni sventurati, accanto al pudore dei sopravvissuti, rinchiusisi, in un primo momento, nel silenzio, traeva la sua origine anche da una concezione ottimistica della Storia e della natura dell’uomo.

L’uomo del Novecento – immerso nel tempo della ragione, della fiducia incondizionata nell’avanzamento della scienza, della cultura, della tecnica – mai avrebbe pensato di trovarsi di fronte a un tornante così tragico; mai avrebbe concepito la possibilità di una simile regressione: mentre si confidava – come veniva conclamato – in un’alba radiosa per l’umanità, si trovò improvvisamente precipitato nelle tenebre più fitte.

Auschwitz spalancava – e spalanca tuttora – i suoi cancelli su un abisso oltre ogni immaginazione. Un orrore assoluto, senza precedenti – cui null’altro può essere parificato – ideato e realizzato in nome di ideologie fondate sul mito della razza, dell’odio, del fanatismo, della prevaricazione. Un orrore che sembrava inconcepibile tanto era lontano dai sentimenti che normalmente si attribuiscono al genere umano.

Eppure Auschwitz e tutto il meccanismo di sterminio –  che ha inghiottito milioni di ebrei, e anche appartenenti al popolo Romanì, omosessuali, dissidenti, disabili, testimoni di Geova –   sono stati concepiti e realizzati da menti umane. Menti che, per quanto perverse, hanno sedotto, attratto e spinto alla complicità centinaia di migliaia di persone, trasformate in “volenterosi carnefici” secondo la lucida definizione di Daniel Goldhagen.

Eppure le ideologie di superiorità razziale, la religione della morte e della guerra, il nazionalismo predatorio, la supremazia dello Stato, del partito, sul diritto inviolabile di ogni persona, il culto della personalità e del capo, sono stati virus micidiali, prodotti dall’uomo, virus che si sono diffusi rapidamente, contagiando gran parte d’Europa, scatenando istinti barbari e precipitando il mondo intero dentro una guerra funesta e rovinosa.

“Siamo uomini – ammoniva ancora Primo Levi – apparteniamo alla stessa famiglia umana a cui appartennero i nostri carnefici”, dimostrando “per tutti i secoli a venire quali insospettate riserve di ferocia e di pazzia giacciano latenti nell’uomo dopo millenni di vita civile.”

Nel buio più fitto, nella lunga e oscura notte dell’umanità, prendendo a prestito un’immagine di Elie Wiesel, tante piccole fiammelle hanno indicato una strada diversa dall’odio e dalla oppressione.

Sono stati i “Giusti”, secondo una terminologia cara al popolo ebraico perseguitato. Persone che, per motivazioni diverse, hanno rischiato la propria vita e talvolta l’hanno perduta per mettere in salvo cittadini ebrei dalla furia omicida nazifascista. Un lungo elenco di nomi, quasi ottocento – come abbiamo ascoltato – quelli finora accertati in Italia, una costellazione di luci e di speranza che continua a rassicurare sul destino dell’umanità.

Persone tra le più disparate: donne e uomini, laici e religiosi, partigiani, appartenenti alle forze dell’ordine, funzionari dello Stato, intellettuali, contadini. Accomunati dal coraggio, dalla rivolta contro la crudeltà, dal senso di umanità.

C’è chi ha nascosto e protetto, chi ha falsificato documenti e liste, chi ha aiutato a espatriare. Migliaia di gesti, grandi e piccoli, di ribellione contro il conformismo e contro l’ideologia imperante.

Abbiamo ricordato quest’oggi qualche nome: da Giorgio Perlasca a Gino Bartali e gli altri che, nel video e nelle letture, sono stati riproposti alla nostra riconoscenza.

Desidero citarne alcuni altri che hanno condiviso il tragico destino della deportazione delle persone che hanno tentato di salvare.

Odoardo Focherini, amministratore del giornale cattolico Avvenire d’Italia; Torquato Fraccon, partigiano, morto a Dachau insieme al figlio; il domenicano, padre Giuseppe Girotti; Calogero Marrone, capo ufficio anagrafe del comune di Varese, Giovanni Palatucci, reggente della questura di Fiume; Andrea Schivo, agente di custodia nel carcere San Vittore di Milano. Scoperti e arrestati dai nazifascisti hanno concluso la vita nei lager tedeschi.

Di fronte alla barbarie, di fronte all’ingiustizia, tutte queste persone non hanno girato la testa, non hanno volto lo sguardo altrove.

Hanno sconfitto, innanzitutto dentro loro stessi, la paura, l’inerzia complice, l’indifferenza che è la più perniciosa delle colpe.

I “Giusti” hanno dimostrato, a rischio della propria vita e di quella delle loro famiglie, che il senso di umanità, se rettamente coltivato, resiste in ogni condizione e supera persino i confini del tempo e della morte. Ci hanno insegnato, anche di fronte a tragedie immani, il valore salvifico dei gesti di coraggiosa solidarietà. Perché, per ripetere anch’io questa mattina il celebre detto del Talmud, “chi salva una vita salva il mondo intero.”

L’esempio dei Giusti rischiara la nostra via e il nostro percorso. E consente di ritessere quella trama di fiducia nel genere umano che con la costruzione dei campi di sterminio sembrava per sempre distrutta.

Tuttavia, di fronte a questi esempi di altruismo, di coraggio, di abnegazione, risaltano ancor di più i crimini commessi da altri uomini e altre donne, in nome di regimi dittatoriali e brutali.

Celebrare doverosamente i Giusti non deve far dimenticare i tanti, troppi ingiusti: i pavidi, i delatori per denaro, per invidia o per conformismo; i cacciatori di ebrei; gli assassini; gli ideologi del razzismo.

Non c’è torto maggiore che si possa commettere nei confronti della memoria delle vittime che annegare in un calderone indistinto le responsabilità o compiere superficiali operazioni di negazione o di riduzione delle colpe, personali o collettive.

Non si deve mai dimenticare che il nostro Paese, l’Italia, adottò durante il fascismo – in un clima di complessiva indifferenza –  le ignobili leggi razziste: il capitolo iniziale del terribile libro dello sterminio; e che gli appartenenti alla Repubblica di Salò collaborarono attivamente alla cattura, alla deportazione e persino alle stragi degli ebrei.

Un portato inestinguibile di dolore, di sangue, di morte sul quale mai dovremo far calare il velo del silenzio. I morti di Auschwitz, dispersi nel vento, ci ammoniscono continuamente: il cammino dell’uomo procede su strade accidentate e rischiose.

Lo manifesta anche il ritorno, nel mondo, di pericolose fattispecie di antisemitismo: del pregiudizio che ricalca antichi stereotipi antiebraici, potenziato da social media senza controllo e senza pudore.

La nostra Costituzione dispone con chiarezza: tutti i cittadini sono portatori degli stessi diritti.

La presenza ebraica è stata fondamentale per lo sviluppo dell’Italia moderna e nella formazione della Repubblica.

Le comunità ebraiche italiane sanno che l’Italia è la loro casa e che la Repubblica, di cui sono parte integrante, non tollererà, in alcun modo, minacce, intimidazioni e prepotenze nei loro confronti.

Anche ai nostri giorni, la ruota della storia sembra talvolta smarrire la sua strada, portando l’umanità indietro, a tempi e stagioni che mai avremmo pensato di dover rivivere.

Le conquiste della pace e delle libertà democratiche sono esaltanti e vanno salvaguardate di fronte a risorgenti tentazioni di risolvere le controversie attraverso il ricorso alla guerra, alla violenza, alla sopraffazione.

Parole d’ordine, gesti di odio e di terrore sembrano di nuovo affascinare e attrarre, nel nostro Continente ma anche altrove.

Su questo occorrerebbe compiere un’approfondita riflessione: indagando le motivazioni che spingono numerose persone a coltivare in modo inaccettabile simboli e tradizioni di ideologie nefaste e minacciose, che hanno portato all’umanità soltanto dolore, distruzione, morte.

Va richiamata, a questo riguardo, l’importanza decisiva della cultura, dell’istruzione. Di quanto – ad esempio – sono preziose le collaborazioni di studio e ricerca tra le Università, sempre positive; sempre fonte di avanzamento di civiltà, al di sopra di ogni frontiera. Sempre affermazione del carattere della cultura, che unisce e non può separare.

Il fanatismo, religioso o nazionalista, che, mosso da antistoriche e disumane motivazioni, non tollera non soltanto il diritto ma neppure la presenza dell’altro, del diverso, ritiene di poter imporre la sua visione con la forza, la guerra e la violenza, violando i principi fondamentali del diritto internazionale e della civiltà umana.

Siamo di fronte a un nuovo “crinale apocalittico” per usare un’espressione cara a Giorgio La Pira.

In alcune zone del mondo, in un’epoca così travagliata come la nostra, sembra divenuta impossibile non soltanto la convivenza, ma persino la vicinanza.

Assistiamo, nel mondo – ripeto -, a un ritorno di antisemitismo che ha assunto, recentemente, la forma della indicibile, feroce strage antisemita di innocenti nell’aggressione di terrorismo che, in quella pagina di vergogna per l’umanità, avvenuta il 7 ottobre, non ha risparmiato nemmeno ragazzi, bambini, persino neonati. Immagine di una raccapricciante replica degli orrori della Shoah.

Siamo convinti che i giacimenti di odio siano stati ingigantiti da parole e atti spietati, persino blasfemi. Il sogno di una pace, sancita dal reciproco riconoscimento e rispetto delle tre religioni monoteiste figlie di Abramo, appare lontano – forse come non è mai stato in tempi recenti – ma rimane l’orizzonte di un riscatto di questa parte del mondo, e non soltanto di questa.

Guardiamo a Israele come Paese a noi vicino e pienamente amico, oggi e in futuro, per condivisione di storia e di valori. Siamo e saremo sempre impegnati per la sua sicurezza.

Sentiamo crescere in noi, di giorno in giorno, l’angoscia per gli ostaggi nelle mani crudeli di Hamas.

L’angoscia sorge anche per le numerose vittime tra la popolazione civile palestinese nella striscia di Gaza.

Anzitutto per l’irrinunziabile rispetto dei diritti umani di ciascuno, ovunque. E anche perché una reazione con così drammatiche conseguenze sui civili, rischia di far sorgere nuove leve di risentimenti e di odio.

Può accrescere gli ostacoli per il raggiungimento di una soluzione capace di assicurare pace e prosperità in quella regione, così centrale nella storia dell’umanità e così martoriata.

Coloro che hanno sofferto il turpe tentativo di cancellare il proprio popolo dalla terra sanno che non si può negare a un altro popolo il diritto a uno Stato.

Ci ostiniamo a rimanere fiduciosi nel futuro dell’umanità. Nella convinzione profonda che un futuro intriso di intolleranza, di guerra e di violenza, non sia il desiderio iscritto nelle coscienze delle donne e degli uomini.

I Giusti, con il loro coraggio, con la loro speranza e il loro sacrificio ci indicano la direzione e ci esortano ad agire, con determinazione e a tutti i livelli, contro i predicatori di odio e contro i portatori di morte.

I Giusti italiani sono tra le radici migliori della nostra Repubblica. Per questo li celebriamo e li onoriamo, tutti insieme, come popolo italiano e come comunità, oggi, nel Giorno della Memoria.

La Giornata internazionale in memoria delle vittime dell’olocausto, che ricorre il 27 gennaio, ricorda il giorno del 1945 in cui le truppe sovietiche hanno liberato il campo di concentramento e di sterminio nazista di Auschwitz-Birkenau. Da allora sono trascorsi 79 anni. Uno sguardo al mondo attuale sembra portare inevitabilmente alla conclusione che alcune delle forze dietro a quel genocidio non sono molto cambiate. Perdura l’odio bigotto contro gli ebrei e contro molti altri che in qualche modo sono “diversi”. I coraggiosi sforzi di pensatori, insegnanti, istituzioni e organizzazioni internazionali di ogni genere non sono riusciti a curare o a prevenire la piaga della disumanità, che avvelena i sentimenti, i pensieri e le azioni di troppi. Sembra che la specie umana sia schiava di passioni egoistiche che non è in grado di dominare.

La mancanza di sensibilità nei confronti degli altri esseri umani, l’incapacità di provare compassione per quanti soffrono, l’eccessiva ambizione di potere e di possesso e l’egocentrismo sono sintomatici di civiltà malate. Parafrasando Ezechiele 36, 26, direi che gran parte dell’umanità ha bisogno di sostituire il suo cuore di pietra con un cuore di carne.

Sebbene ogni individuo abbia tratti genetici, culturali e sociali unici che ne formano il carattere, una tesi centrale della Bibbia è che tutti dispongono del libero arbitrio per migliorarsi, cambiare la propria visione e diventare più empatici. Deuteronomio 30, 19 è il locus classicus di tale assioma: «Prendo oggi a testimoni contro di voi il cielo e la terra: io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza». Secondo Maimonide (La guida dei perplessi, iii , capitolo 17; Mishneh Torah, Hilchot Teshuvah 6), negare la responsabilità umana per le proprie scelte e azioni egoistiche non porta solo miseria. Va anche di pari passo con il negare il Dio che esige che le persone agiscano con giustizia e misericordia.

La morsa della disumanizzazione può e deve essere spezzata. Un modo per farlo è coltivare la memoria. Il ricordo che gli esseri umani sono capaci di grande male ci avverte che la cattiveria è sempre in agguato, ponendo una sfida perenne a tutti gli sforzi per costruire un mondo umano.

Sebbene esista una ricca biblioteca di studi, documenti e altro materiale sulla Shoah, la cui raccolta è iniziata ancor prima che la maggior parte delle persone venisse a conoscenza della carneficina nazista, il significato perenne di quanto è accaduto sembra estraneo alla coscienza della maggior parte delle persone. Perché non è ovvio per tutti che dobbiamo essere tutti più umani, che dobbiamo scegliere la vita? Perché l’impegno a collaborare per raggiungere questo obiettivo non è stato abbracciato da tutti con passione? Perché le ingiustizie sociali e le disuguaglianze, per non parlare dell’apparente prosperare di regimi totalitari, persistono e addirittura aumentano?

Libri, testimonianze e tutto ciò che contribuisce a una memoria viva non possono restare meri dati registrati da qualche parte. Né la memoria può avere un impatto se la si ricorda a parole solo uno o due giorni l’anno. Per essere davvero significativa, la memoria deve essere parte integrante della cultura vivente. Altrimenti non è altro che una curiosità o un argomento di dibattito accademico.

Quando i Figli d’Israele uscirono dalla schiavitù in Egitto, Mosè gridò loro: «Ricordati di questo giorno» (Esodo 13, 3), sicché quel momento continua a essere inciso nella memoria delle persone. Deuteronomio 16,3 stabilisce che nei giorni in cui si celebra Pesach si può mangiare solo pane non lievitato, abolendo tutto quello che è lievitato. Ciò inculca un’abitudine che incoraggia fisicamente il ricordo di quel che significa essere oppressi in modo disumano. Questa e altre pratiche correlate, imprimono nella coscienza delle persone, ogni giorno della loro vita, la necessità di essere libere.

Nella tradizione ebraica, l’uscita dall’Egitto è intesa come la prima redenzione d’Israele (Esodo 6, 6). Da allora, gli ebrei hanno mantenuto la convinzione che Dio li condurrà verso una redenzione finale, insieme a tutti i popoli. Fintanto che il popolo ebraico serberà il ricordo della prima redenzione, la speranza di una redenzione futura e finale continuerà a vivere nel suo essere. Fintanto che l’umanità serberà, giorno dopo giorno, il ricordo dell’orrore e s’impegnerà a bandire le forze che l’hanno prodotto, il mondo che Dio vuole, quello che i profeti hanno preannunciato come giorno di redenzione per tutti, un giorno diventerà realtà.

di Abraham Skorka

poi….

Il giorno dopo. Dipende da cosa e come si è vissuto quello prima. Se è stato il “Giorno della Memoria”, il giorno dopo inizia il problema: come non dimenticare. Perché aveva ragione il poeta: «e involve Tutte cose l’oblio nella sua notte». A questa legge non si sottrae neanche una ricorrenza che fa del ricordare il suo stesso contenuto. Certo, non un ricordo qualsiasi, ma quel ricordo: la Shoah. La Shoah stessa è intrisa fin dal suo orribile concepimento della dinamica dell’oblio: fu un’idea di eliminazione dall’umanità di un gruppo di persone, appunto la cancellazione dalla memoria di milioni e milioni di persone “per la sola colpa di essere nati”. Fu un’azione che confidava nell’oblio, la sua radice maligna si nutriva di alcuni componenti costitutivi della persona umana: dimenticare, rimuovere, adattarsi.

Circa il dimenticare non può certo consolarci la forza della tecnologia che promette di rendere “eterni” i ricordi. Quanto alla rimozione Sigmund Freud ce lo ha svelato irrevocabilmente: ciò che ci dà angoscia tendiamo a rimuoverlo. Considerando la forza formidabile ma ambivalente dell’adattamento, conviene ricordare quanto mi disse una giovane armena: «Cosa c’è di peggiore della guerra? Adattarsi alla guerra». I testimoni stessi degli orrori lo sanno bene: ricordare con precisione è un duro impegno per non rischiare di non essere creduti, prestando il fianco al negazionismo. Se dunque siamo naturalmente inclini a dimenticare, rimuovere, adattarci, come raccogliere, il giorno dopo, il messaggio di ricordare che ci viene dal giorno prima? Evitare, il giorno prima, la dimensione celebrativa che collega la rilevanza al clima culturale e politico del momento, cioè alla possibilità o meno di agganciarsi con interessi estranei e di parte.Ma soprattutto, ricordando che Shoah è una parola di fuoco, evitare la banalizzazione o l’enfasi eccessiva: nel primo caso sarebbe svuotata di significato, nel secondo caricata di retorica. Due modi di tradirla. Sì, dobbiamo temere un approccio superficiale, visivo, collegato a volte agli eventi, ripetuti o ripetitivi, “di massa”, senza che incidano sui singoli. La ricerca di impatti quantitativi più che qualitativi.

La Shoah è una vicenda che è nata nell’intimo delle persone, delle loro relazioni, all’inizio quasi sussurrata e poi cresciuta, ostentata, urlata e dilagata nella retorica del terrore. Perché non torni più, l’orrore di quella vicenda – insieme alla forza di chi gli si oppose – deve incidere nell’intimo delle persone di oggi, delle loro relazioni, abbandonando nuove retoriche, ostentazioni e urla. Chiede di esserci il giorno dopo; non nelle riunioni, nelle piazze o nelle televisioni, ma dove si sbriciola nell’ordinarietà della vita quotidiana.

Perché in quella vita ordinaria, molti anni fa, diligenti impiegati tedeschi si trasformarono in ubbidienti contabili di morte del Reich e buoni italiani andarono a denunciare conoscenti ebrei, così come, alcuni anni dopo, pacifici vicini di casa divennero assassini della porta accanto nei Balcani, e altri uomini e donne, oggi, in Ucraina, in Israele, a Gaza, stanno compiendo efferatezze, certamente convinti, nella loro falsa coscienza, di fare la cosa giusta o di ubbidire agli ordini. I bambini che sopravviveranno a questi nuovi orrori saranno potenziali incubatori di odio.

Il Giorno della Memoria esige una convinta pratica quotidiana: così il giorno prima si coniuga con il giorno dopo in una continuità che si chiama educazione. Conosco una docente di storia che si guarda bene dal celebrare il Giorno della Memoria. Per lei il 27 gennaio è un giorno come gli altri perché – dice – nel normale programma di storia i miei studenti e le mie studentesse vengono a conoscenza della Shoah, si interrogano con me e ne usciamo inquieti, con domande nuove sul come agire di conseguenza.

Fu una decisione che prese un giorno in cui la sua scuola aveva dedicato una settimana intera alla Memoria e un suo alunno sincero esclamò: «Basta con questa Shoa! Non se ne può più». La professoressa fu intelligente e non reagì, ma il giorno dopo riunì gli studenti e mise a tema l’intervento politicamente scorretto del loro compagno, senza indignarsi, ma col gusto di ascoltare. Insieme presero la decisione di «vivere la memoria in tutto l’anno di storia e non celebrarla».

Mi piacerebbe che ciascuno di noi appartenesse a quella classe, il giorno dopo, convinto della necessità di andare alla radice di quello che è accaduto e non solo al suo esito palesemente tragico: come l’odio ha covato ed è cresciuto nel suo brodo di cultura naturale che è l’indifferenza. Quella radice, infatti, non è di “allora”, ma è di “oggi”, non si è sviluppata solo in “quelli là”, ma si può sviluppare, anzi si sta sviluppando in “noi qua”. Ciascuno è un portatore sano di una possibilità di odio e di indifferenza, sulla soglia tra il giorno prima e il giorno dopo c’è ciascuno di noi. La Memoria di quell’odio diventa allora la memoria del nostro odio, del mio possibile odio, della mia possibile indifferenza.

Franco Vaccari

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