Il Domenicale

Il silenzio che non abita più qui…

Nella nuova tre giorni tutta rossa ascoltavo il silenzio (esercizio non certo di moda) e all’improvviso mi sono accorto che in realtà, più di infondere quiete assoluta, quel silenzio faceva un gran baccano. Diceva a me per primo che ero un niente perso nel nulla della notte e che di lì a poco tutto sarebbe ritornato come prima; sussurrava pensieri così intensi e ricolmi di emozioni da consentire al pianto di irrompere e alle lacrime di eguagliare il rumore della cascata; pretendeva ascolto e rispetto e, ahimè, dai più riceveva soltanto sberleffi e solo dai meno applausi e consensi sinceri. Destino crudele quello dei cercatori di silenzio! Appena mille anni fa, o forse soltanto ieri, uno di loro, che ai più era sembrato decisamente pazzo, si ritrovò all’improvviso fuori dal coro per il semplice fatto che in quel vociare il silenzio non era ammesso.

Nicola Piovani, eccellentissimo musicista a cui l’Enciclopedia Italiana delle Scienze, Lettere e Arti edita da Treccani ha chiesto di scrivere per il suo nuovo volume la voce “silenzio”, ha spiegato a chi lo intervistava che “prezioso è il silenzio da cui nascono idee, quello in cui si sentono meglio i propri sentimenti, quello in cui vivono la lettura e la riflessione, e che nella nostra moderna comunità consumistica diventa sempre più una rarità”. Prima di lui un certo Federico Fellini, grande facitore di cinema intelligente, all’attore impegnato a spiegare La voce della luna, fa dire: “Eppure, io credo che se ci fosse un po’ più di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire”.

Maestro del silenzio più intelligente e assordante è stato Cesare, uno di quei liberi e forti ai quali non servivano predelle e neppure pulpiti per stupire e obbligare a pensare. Quando capitava di intervistarlo – accadeva raramente, ma quando accadeva le parole assumevano valore di trattato – gli bastava mettere tra domanda e la risposta una pausa, breve brevissima eppure eloquente e tale da indurre a meditare sul suo valore propositivo, per far intendere che al di là delle parole c’era un mondo che reclamava pensieri pensati piuttosto che corse frenetiche alla ricerca di improbabili motivi a cui aggrapparsi per giustificare il mancato rispetto del silenzio. Ogni volta che accadeva, mi ponevo la stessa domanda: “Li mette apposta o sono perfettamente naturali quegli attimi che lascia trascorrere prima di rispondere, riflettere e aggiungere parole al dibattito?”. La spiegazione, lodevolissima ma ormai fuori tempo massimo, me l’ha offerta uno dei suoi carissimi nipoti. “C’erano sempre – ha scritto – quei due o tre secondi che seguivano le sue parole pronunciate con voce calma, sia che fosse una citazione latina, un aneddoto in dialetto o una frase un po’ criptica. In quei secondi il suo interlocutore, il più delle volte, restava interdetto, col dubbio di non aver compreso il significato recondito, o di averlo intuito solo in parte, col disagio che accompagna chi non riesce ad afferrare subito quel che gli viene detto e preferisce nasconderlo. Ma poi, e forse era un bene, tutti finivano con l’accorgersi che il suo era un modo ironico di affrontare le questioni, che in ogni caso non mirava a canzonare. Perché lui nutriva sempre una grande fiducia nell’interlocutore, nella reciproca capacità di comprendere, di non dar mai per scontato il messaggio prima di aver ascoltato fino in fondo il messaggero”.

Nemico del silenzio intelligente e costruttivo è chi crede basti agitare il campanaccio che porta al collo per obbligare gli altri ad ascoltarlo. Sebbene sembri strano che un campanaccio possa stare appeso al collo di un umano, succede che parecchi (probabilmente molti) umani si vantino di essere ascoltati sebbene sia chiaro che non le parole pronunciate ma il rumore provocato dal marchingegno appeso al collo è l’elemento che fa la differenza. Nella tre giorni interamente rossa che proprio oggi raggiunge il suo apice, ho sentito suonare più campanacci che zampogne e udito grida scomposte piuttosto che rispettosi silenzi. Mi sono allora chiesto perché mai uno sgraziato rumore fosse più apprezzato di un melodioso susseguirsi di zufoli e pive e perché il silenzio venisse così facilmente messo in disparte. La risposta me l’ha offerta l’ultimo della fila, quello unanimemente ritenuto il più malconcio-strambo-stranito e inutile dei paesani, facendomi notare quanto fosse popolata l’arena concessa agli urlatori e quanto invece fosse deserto il luogo deputato a contenere le buone intenzioni. Voleva dirmi, ne sono sicuro, che il campanaccio e le grida sono del mondo mentre le zampogne e il silenzio sono ormai fuori dal mondo.

Non è fuori dal mondo, per fortuna, la generosità che ho visto dipanarsi per le vie del paese sotto forma di sorrisi e canzoni recapitati porta a porta da ignoti ambasciatori di bene. Non credendo ai miei occhi, un’altra volta mi son ritrovato a chiedere ad alta voce se qualcuno poteva spiegarmi che cosa stesse succedendo. Una signora, vecchia la sua parte e quindi capace di regalare parole piene di buon senso, mi ha consigliato una sosta davanti al presepio costruito come ogni anno sotto il portico della cascina. “Se vuole – mi ha detto – lì può trovare la risposta che sta cercando”. Ho seguito il consiglio è (forse) ho compreso che il senso più vero e autentico della generosità è tutto fuorché quello esibito l’altro ieri dal politico andato a distribuire pacchi-dono facendosi precedere da annunci roboanti e seguire da telecamere e giornalisti compiacenti. Generosità, invece, diceva il presepio, è un sentimento che nasce dal cuore e che silenziosamente arriva dove c’è qualcuno che da solo non se la fa.

In quel trambusto suscitato dai pensieri rivolti alla generosità, mi passò accanto un pazzo, tale Giacomo Poretti (che con Aldo e Giovanni gode di meritata fama), arrivato per ricordare a me e al popolo dei festanti che “il 25 dicembre appena passato era purtroppo incamminato sul crinale dell’ambiguità, indeciso se essere considerato come una favola collettiva oppure se assurgere a festa di gala del Prodotto interno lordo, volgarmente detto Pil”. Secondo Giacomo “le autorità finanziarie internazionali, confermando il loro pragmatismo, avevano un’altra volta considerato il Natale come la festività più importante dell’anno, di gran lunga più significativa di san Valentino, Halloween, e ovviamente tutti i compleanni, feste di laurea e anniversari, cresime e comunioni e battesimi che insieme portano al raggiungimento del 35% del Pil nazionale”: Allo stesso modo le autorità religiose “avevano considerato il Natale come la festività con maggior afflusso nelle chiese, (25% in più rispetto a tutto l’anno, con presenze anche di atei devoti, scettici e agnostici tolleranti) molto più che a Pasqua, nel dimenticato Corpus Domini e il 15 di agosto, dove, la maggior parte dei credenti ritiene, con annesso senso di colpa, che sia francamente impossibile rinunciare a una grigliata al posto della Messa. Entrambe le autorità preposte ai conti e ai culti – sempre secondo Giacomo -, data l’emergenza virulenta, sapevano che l’edizione natalizia appena passata era da considerarsi sottotono, con percentuali negative di consumi che nemmeno ai tempi del 1929 erano state segnalate, e presenze in chiesa addirittura inferiori perfino ai tempi di Diocleziano”. Però, senza dubbio, “i felici sono stati meno felici perché hanno ricevuto meno regali e fatto nessuna sciata, e gli infelici un po’ meno infelici perché hanno avuto la scusa di non poter pranzare con gli zii…”.

Indisposto a sentirmi complice di ulteriore infelicità, sono tornato a cercare il silenzio tra le pieghe della tre giorni tutta rossa in via di esaurimento. Tranquilli: non l’ho trovato. Quindi, resta a vostra disposizione, ovviamente se lo desiderate.

LUCIANO COSTA

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