L’altro ieri ho inciampato in una pagina di giornale tutta bianca, cioè non scritta, però pretestuosamente mirata a imporre attenzione e a favorire riflessioni, perciò eloquente ed eloquentemente esibita al fine di incutere il terrore di trovarsi, improvvisamente, nel nulla. Diceva infatti che il nulla domina e l’insieme, fatto di parole, di lettere sparse e ammonticchiate in fondo, giace senza darsi pace… Non è una bella prospettiva. E’come fare i conti con qualcuno e qualcosa “che urla il suo silenzio” con la pretesa di essere ascoltato. Ieri, invece, persa la “dritta via” sono di nuovo capitato nella solita “selva oscura”. Ascoltavo il dibattito – uno dei tanti – sulla libertà di informazione gravemente minata dalle limitazioni che taluno vorrebbe imporre all’ascolto (intercettando piuttosto che orecchiando) di altrui pensieri e m’è capitato di sentire un tale (forse Michele Serra, uno che di giudizi e scudisciate ne mena parecchie) dire che “quella dei giornalisti è una categoria adusa a confondere la libertà di stampa con l’impunità di casta, che non accetta bavaglio” e poi ribadire, mettendola bene in vista,“l’incapacità dei medesimi giornalisti di riflettere su se stessi”.
Commentando modi e metodi con cui taluno ha affrontato la vicenda Messina Denaro, Mattia Feltri ha scritto che vedendo in pagina dettagli sugli stimolanti sessuali scovati nel covo da l mafioso usato per eclissarsi alla legge, si è sentito in profondo imbarazzo, arrivando addirittura a chiedersi quale fosse l’interesse pubblico collegato a quei dettagli per poi concludere, amaramente, che erano privi del minimo buon senso… Che se ben usato, dico io, impedirebbe di agire da cafoni, di profferire bugie, di scrivere corbellerie, di andare a cercare qualcosa di insolito a cui affidare valore di scoperta pur sapendo che l’acqua calda è da tempo immemore parte del paesaggio. Nonostante questo, ha sottolineato Feltri riferendosi alla “caccia della figlia del mafioso”, ecco lo spettacolo miserevole offerto da cronisti e notisti “tutti con microfoni e taccuini pronti a suonare al suo campanello, a intervistare le sue amiche, le sue ex professoresse, a pubblicare le sue foto…”. Difficile immaginare “una violenza più svagata e impunita”. Però, ha concluso Mattia Feltri, “se sapessimo riflettere su noi stessi, capiremmo da soli quando serve il bavaglio”.
“Tu sei un ingenuo” mi son sentito dire ieri a margine del salotto allestito attorno al solito mercato in cui si dibattevano i grandi tempi dell’essere e del divenire. Tutto perché sostenevo il diritto di ognuno sia a non essere importunato da microfoni e taccuini in libera uscita, sia a essere padrone delle sue idee, delle sue scelte, del suo sapere o non sapere, della sua cultura o della sua incultura… “Vorresti quindi sostenere che l’idea di cultura, adesso qui da noi usata quale etichetta sfavillante, è cipria e non rimedio…”, mi ha detto il più arguto del coro. Gli ho risposto che essendo “ingenuo” immagino possibile anche l’impossibile. Per esempio, che se un uomo o una donna hanno un’idea nuova, geniale, hanno anche il diritto di divulgarla. “Ma tu sei veramente un ingenuo – ha insistito il coro -. Prima di tutto perché credi ancora alle idee geniali, poi ed è peggio, perché credi all’effetto benefico dell’espansione della cultura”. Mi è allora tornata alla mente la cantata di Giorgio Gaber, quella che a un certo punto dice che “la cultura è delicata, e anche permalosa, ci resta male se non si sente amata, o se le viene il sospetto di non essere un bisogno vero”, che è “come una luce, che quando si espande troppo, perde la sua luminosità: il frastuono della cattiva divulgazione la affievolisce e soltanto il silenzio ne salva l’intensità…”. Insomma, roba alta, mica banalità! Se poi, in aggiunta, “credi che la politica possa risolvere i problemi” allora sei ancora più ingenuo. O non lo sai ancora che “cercare oggi di migliorare le condizioni di vita del Paese con qualsiasi tipo di politica (e di cultura, aggiungo io) è come fare un po’ di pulizie a bordo del Titanic che sta affondando?”.
Ancora non lo so o non lo voglio sapere. Però “io come uomo io vedo il mondo / come un deserto di antiche rovine. / Io vedo un uomo che tocca il fondo / ma forse al peggio non c’è mai una fine./ Nel frattempo la vita non si arrende / e la gente si dà un gran da fare / tanti impegni tante storie / con l’inutile idea di colmare / la mancanza di una nuova coscienza / di una vera coscienza”.Aggiunge Gaber che “è come se dovessimo riempire un vuoto profondo… E allora ci mettiamo dentro rimasugli di cattolicesimo, pezzetti di sociale, brandelli di antichi ideali, un po’ di antirazzismo, e qualche alberello qua e là”. Così “siam qui fermi / malgrado la grave emergenza / come uomini al minimo storico di coscienza”; così’ “io vedo un uomo solo e smarrito / come accecato da false paure / ma la vita non muore nelle guerre / nelle acque inquinate del mare, / E i timori anche giusti / son pretesti per non affrontare / la mancanza di una vera coscienza / che è la sola ragione / della fine di qualsiasi civiltà”.
Alfonso Berardinelli dice che “l’insensibilità nei confronti degli altri, l’incapacità di vederli, sta diventando sempre più un contagio dannoso: trasforma l’io in una prigione e la società in un inferno di diffidenza, indifferenza e paura reciproca. Una passiva conformità a quello che “tutti fanno” tende a rendere automatica l’adesione ai comportamenti di massa, di qualunque tipo”. Mauro Armanino scrive che dove egli si trova, nel Sahel, oltre la polvere del deserto c’è “un tempo per tutto e tutto per un tempo”, vale a dire, per dirla col saggio Qoelet “un tempo per partorire e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per deforestare; un tempo per piangere e uno per ridere, un tempo per lamentarsi e un tempo per danzare; un tempo per abbracciarsi e un tempo per astenersi; un tempo per cercare e un tempo per perdere, un tempo per custodire e un tempo per buttare; un tempo per parlare e un tempo per tacere, un tempo per amare e un tempo per odiare; un tempo per la guerra e un tempo per la pace…”.
Non c’è pace in Ucraina e in altri sedici o ventidue paesi del mondo; non c’è pace tra i flutti del mare, tra le montagne, i fiumi e le pianure che fanno da confine a sterili seppur sognate patrie; non c’è pace dove qualcuno s’impegna a mettere in chiaro che loro sono espressione non secondaria di civiltà e tradizione cristiana, dunque, non disponibili a sopportare invasioni da parte di gente indisposta verso tale civiltà e tali tradizioni. Tradotto in moneta significa che il loro è un paese a cultura Occidentale e di profonda tradizione Cristiana, in cui chi la pensa diversamente o anche solo chi non intende rispettare la cultura e le tradizioni locali è invitato ad andarsene se è già arrivato o a restare dov’è nel caso non abbia ancora intrapreso il viaggio. Spero che gli amici di quel paese non si offendano se oso dissentire dal parapiglia messo in mostra e, secondo me, contrario non solo a ogni logica di civile convivenza, ma anche al comune buon senso e, cosa non da poco, pure alla Parola, la quale, a me e a tutti, ricorda che “non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno…”. Se è così, perché mai dovrebbero sussistere divisioni tra chi è abitante e chi il destino “destina” a cercar di esserlo?
L’impressione è che qualcuno, di fronte al proliferare di parole che generano paura, piuttosto che opporsi con altrettante parole che generano fiducia, preferisca impantanarsi nei divieti e nelle distinzioni tra chi può stare e chi deve andar via, tra bianchi buoni e negri cattivi, ma anche viceversa, tra comunitari ed extracomunitari, regolari e irregolari, belli e brutti, virtuosi e peccatori, perbenisti e furfanti. Oppure, come sta avvenendo dapiù parti, tra cristiani e chi la pensa diversamente. Questione di fede? Ma va là… “Affermare la propria fede – scriveva Sébastien Castellion quasi cinquecento anni fa – non è bruciare un uomo, ma piuttosto farsi bruciare per essa…”. In parole adattate all’oggi, vuol dire che “vivere da cristiani (o anche solo da civili) presuppone porte spalancate e mura abbattute”. Per farlo “servono persone che si facciano mediatori nel quotidiano per mostrare bellezza e compatibilità delle diversità, ma anche la vicinanza tra realtà diverse, anzi talvolta opposte”. Non è difficile: basta mettere da parte paure e prevenzioni, basta accettare che qualcuno non la pensi come noi senza per questo cancellarlo dall’orizzonte conosciuto, basta permettere a chiunque di scrivere il proprio nome dove ha deciso di stabilire la sua residenza.
Come ha scritto Antonella Chitò (una perfetta sconosciuta, niente altro che una figlia della strada, una che la cultura l’ha cercata e trovata tra i sassi) “graffia il tuo nome sui muri perché / c’è chi non si deve scordare di te. / Tappezza col tuo nome una città /perché esiste ancora chi non sa, / chi non sa che tu esisti / che hai giorni tristi, / che hai giorni lieti, / come tutti i poeti. / Graffia sul muro parole d’amore / scrivi esorcismi al dolore, / racconta sul muro storie esaltanti / che facciano accendere cuori ormai spenti./ Graffia sul muro fino a farti male / costruisci con un chiodo la tua morale. / Sai, coi graffiti molto puoi fare, / puoi la speranza far ritornare, / puoi sentirti agli altri unito, / puoi sapere che non sei finito. / Quando fai questo pensa anche a me, / materialmente non sto lì con te, / ma guardando un graffito saprò / che al mondo un amico sconosciuto ho”.
Meditiamo, gente, meditiamo. Nelle rime scombinate di Antonella c’è cultura (quanta ne basta a far comprendere la bellezza di essere Città dell’uomo), c’è buon senso (quanto ne basta per avererispetto di chi ci sta di fronte e che magari, da cronisti e affabulatori siamo chiamati a raccontare), c’è la possibilità di riflettere su chi siamo e su dove intendiamo andare (giusto il necessario per scegliere strade di pace piuttosto che strade di incomprensione e di guerre.
Eccomi, sono l’ingenuo che ogni domenica cerca briciole di panee polvere di deserto da condividere…
LUCIANO COSTA