Sono tra quelli che vorrebbero sentir dire male di qualcuno solo quando il male attribuitogli è almeno palese, verificato, provato. Sono anche uno di quelli che se sentono parlar male del Papa e dei tanti o pochi cattolici che gli stanno intorno si sente a disagio, si offende, intristisce. Se poi le parole volano contro quei cristiani che se schiaffeggiati da una parte offrono subito anche l’altra – pochi, pochissimi per la verità – allora mi intrometto e chiedo che il discorso, se non supportato da prove certe e inconfutabili, finisca e si accartocci per finire dove merita: nel cestino della carta straccia. Sono, come avrete ben capito, un inguaribile “fedele”, che seppur indegno di meritare di salire fino a un metro dal cielo, guarda a Cristo e al suo Vangelo, ma anche a coloro che di Cristo e del Vangelo sono annunciatori e testimoni (papa, cardinali, vescovi, monsignori, preti, suore, religiosi, religiose, diaconi, consacrati e laici di ogni estrazione e rango) con interesse e rispetto.
Tanto fervore, però, non mi impedisce di vedere il (presunto) marcio che, per dirla alla maniera dei solerti accusatori e detrattori delle cose che odorano (o forse puzzano) di incenso, s’annida oltre il Tevere, tra le sacre Mura Vaticane, o anche altrove, tra chiese parrocchie santuari conventi e conventicole. All’ipotesi di “marcio” ho aggiunto un “presunto” che a mio modestissimo parere dovrebbe valere almeno fino a prova contraria e certificata.
Il gran baccano che è ruotato e ruota attorno all’ex cardinale Becciu, accusato di aver mal amministrato i fondi destinati alla carità e, soprattutto, di essere venuto meno alla fiducia che il Papa gli aveva concesso, è però di tale portata da non ammettere attese, distinguo o parziali giustificazioni. Becciu, che adesso se ne sta in disparte solo con la sua veste di prete, verrà punito se colpevole e premiato se innocente. Nell’attesa, preferirei non essere ossessionato da rumori, soffiate, scoop, pettegolezzi, invenzioni; preferirei non leggere cronache che fondano la loro esistenza su “si dice” e su “pruriti” che all’improvviso assalgono certuni che scrivono e commentano; chiederei chiarezza nelle cronache e rispetto non solo per l’imputato che comunque, almeno fino a prova contraria e fin quando avrà la possibilità di dimostrare nei tribunali la sua innocenza, colpevole non è, ma anche per quei tanti o pochi fedeli che entrando in chiesa, luogo deputato all’incontro con Dio e quindi luogo di preghiera e di raccoglimento, non possono essere considerati babbei o, peggio, complici del marcio disegnato dalla pubblicistica (non tutta, ma parecchia) intorno a loro e alla loro chiesa.
Mi dichiaro incompetente a giudicare, però sufficientemente competente per non accettare giudizi sommari e affrettati. Sto dalla parte di Francesco, un Papa che di nemici e odiatori ne ha davvero tanti, e della sua straordinaria capacità di cogliere il bene anche dove sembra regnare soltanto il male. E stando con Francesco spero cieli e terre nuovi, tanto nuovi da consentire ai delusi andati chissà dove di tornare a rivedere la bellezza dell’essere “fratelli tutti”.
Leggendo quel che don Giacomo Canobbio ha scritto a proposito di “quale Chiesa dopo la pandemia” ho scoperto che le prime e le ultime righe, oltre a modellare la risposta alla domanda iniziale, dicono di quale atteggiamento ci si dovrebbe rivestire per affrontare il caso Becciu senza sprofondare nel banale sensazionalistico tanto caro ai cultori di “dagospia” e dintorni. Abituato a interpretare le umane debolezze, don Canobbio dice infatti che è “difficile lasciarsi rimodellare dalla realtà” soprattutto perché “il vissuto struttura l’immaginazione e mortifica la creatività: il sogno è sempre quello di tornare al già noto, quando non si vada oltre le retoriche, gattopardesche, dichiarazioni che tutto deve cambiare”.
Poi, per concludere l’analisi sul prima e il dopo pandemia della vita pastorale nelle parrocchie, don Giacomo mette al centro il valore della parola di Dio, “senza la quale peraltro non si dà neppure l’Eucaristia” cogliendo in essa “lo stimolo a ripensare anche la presenza dei cristiani nella società. Da questi aspetti – conclude – si ricava il profilo di una Chiesa più incerta, alla ricerca di un volto mai definitivamente delineato, consapevole di condividere con la società la medesima sorte terrena, ma capace di far intravedere che anche nella tempesta il suo Signore è presente, benché non risolva, come si vorrebbe, le cause della tempesta e le paure che questa genera”.
Becciu e chi con lui ha operato (bene, male o malissimo lo diranno i giudici), ha generato tempesta, seminato timori, scombussolato la vita della Chiesa e obbligato il Papa a intervenire per rimettere al centro il dovere dei cristiani, chiunque siano e quale sia il loro ruolo, del servire senza essere serviti, del dare senza cercare di avere indietro il doppio, del fare senza attendere gratitudine, fedeli sempre e soltanto all’antico ammonimento, quello che semplicemente dice che “se hai metti, se non hai prendi”. Il che è esattamente il contrario di ciò che il neoliberismo vuole insegnare ai giorni nostri.
Per altro “il Magistero sociale della Chiesa ha sempre sottolineato l’erroneità del “dogma” neoliberista, secondo cui l’ordine economico e l’ordine morale sarebbero così disparati ed estranei l’uno all’altro, che il primo in nessun modo dipenderebbe dal secondo”. Rileggendo tale affermazione alla luce dei tempi attuali, si constata che, come è scritto nell’Esortazione Apostolica Evangelii gaudium, “l’adorazione dell’antico vitello d’oro ha trovato una nuova e spietata versione nel feticismo del denaro e nella dittatura di una economia senza volto e senza uno scopo veramente umano”. Infatti, “la speculazione finanziaria, con il guadagno facile come scopo fondamentale, continua a fare strage” di uomini e coscienze. Sta scritto, per i cristiani ma forse anche per chiunque abbia a cuore il benessere dell’umanità, che “non si può servire Dio e la ricchezza”.
Quando, infatti, l’economia perde il suo volto umano, ha ripetuto recentemente papa Francesco, “non ci si serve del denaro, ma si serve il denaro. E questa è una forma di idolatria contro cui siamo chiamati a reagire, riproponendo l’ordine razionale delle cose che riconduce al bene comune, secondo il quale il denaro deve servire e non governare!”. Becciu e il suo tempo, innocenti o colpevoli che siano, loro e le loro colpe o i loro meriti, passano. Resta invece, immutato e immutabile, il comandamento dell’Amore, quello che trasforma i nemici in amici e che rende “tutti fratelli”… Meditiamo, gente. Meditiamo!
LUCIANO COSTA