Il Domenicale

Irriconoscenza e amici politici

Ieri, nel giorno che ricordava il primo anniversario della morte di Cesare Trebeschi, uomo buono, cittadino esemplare, benefattore e servitore della sua città (questa Brescia che tanti amano e vorrebbero sempre all’altezza della sua grande storia) ho visto e misurato l’irriconoscenza, che è pari all’ingratitudine: indossava un vestito dignitoso ma non aveva dignità; girava per vie e piazze ma non aveva meta e neppure un posto dove sentirsi a casa; profferiva parole talmente vuote e vacue che appena uscite dalla bocca stramazzavano a terra come foglie morte; stringeva tra le mani il registro dei ricordi ma impediva a chicchessia di avvicinarlo; dispensava  sorrisi e inviti ma era il ritratto spiaccicato dell’ingratitudine. Ho però letto tra fogli sparsi e preziosi che “ciò che conta non è aspettarsi riconoscenza, ma lavorare sempre per il bene del mondo, perché in questo sta la più grande ricompensa”. Cesare, di sicuro, la pensava così. E il fatto che i giornali abbiano sorvolato l’anniversario lasciando che il ricordo fosse racchiuso in una Messa trasmessa in streaming e in testimonianze raccolte e diffuse dal suo Comune – Cellatica, luogo natale e prima tappa del suo impegno politico – non lo ha certo deluso. In fondo, come diceva Goethe, un poeta a lui caro, “l’ingratitudine è una forma di debolezza; e non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati”. Ieri Cesare Trebeschi è stato l’attualità di Bresciadesso; oggi è il Domenicale. Lui direbbe che “basta e avanza”. E avrebbe ragione.

Allora mi occupo di tutt’altro. Per esempio, di amici che si dedicano alla politica, che per il fatto di essere prima amici e poi politici, di certo non considerano possibile l’irriconoscenza. In verità, non so se sia opportuno far sapere di avere un amico politico. Però, non è colpa mia se il caso mi ha portato a essere amico (nel senso di comunanza di idee ma non di tempi e spazi) del Matteo fiorentino, grande affabulatore, notevole imbonitore di folle desiderose di novità, assertore di un nuovo a cui affidare le fortune di chi credeva seriamente nella politica come mezzo di redenzione e di progresso, ma anche impareggiabile agitatore e severo scompigliatore di alleanze (prima di quelle fatte in casa e poi di tutte le altre) il più delle volte fiorite sotto il segno dell’opportunismo. Il che non significa che io e lui ci si veda e che ci si sieda a pranzare allegramente insieme. Infatti, non ho mai mangiato fagioli con Matteo, però con lui, ovviamente su piani e luoghi diversi, ho condiviso alcune sue idee sostanziali e quell’avventura “sconsiderata” che lo portò a sfidare l’universo – soprattutto taluni “suoi” compagni d’avventura, vecchi armati fino all’osso per difendere la nicchia conquistata –  con l’intenzione dichiarata di cambiare l’Italia, di renderla governabile, di farla diventare adulta anche agli occhi severi dei parrucconi tedeschi.

Sulla spinta di quell’onda liberatrice e attesa Matteo, allora Capo del Governo e Segretario del PD, il partito ancora di maggioranza, propose un referendum costituzionale, che tantissimi lodarono qual segno di vera novità, ma che i trinariciuti sostenitori dell’insindacabile status quo affossarono inesorabilmente. Allora fiorentino si dimise, rientrò nei ranghi, ma non frenò mai la sua vis polemica, soprattutto nei confronti di coloro che “prima la poltrona e poi tutto il resto”. Da quel momento e per quel suo modo di fare e dire, divenne bersaglio fisso di strali, commenti pepati e lazzi da cui giornali, media e giornalisti (se non tutti almeno la metà più qualcuno) erano improvvisamente attratti. In mezzo alla tempesta, una sera a Castenedolo, dove con il compianto Mino Martinazzoli si era iniziato a ragionare di politica e di ragioni della politica, chiesi a Matteo se magari avesse considerato l’opportunità di lasciare la contesa politica per darsi all’ippica.

Mi rispose che con o senza cavallo lui avrebbe onorato la corsa, “soprattutto perché – aggiunse – le buone idee, e l’idea di mettere l’Italia al riparo da franchi tiratori è una buona idea, valgono e hanno diritto di essere difese e di diventare patrimonio di tutti”. Non so se furono buone idee quelle che lo portarono a dar vita ad un nuovo partito e poi ad affossare non uno ma ben due Governi, diversi di colore ma sempre guidati, guarda caso, dallo stesso personaggio, quel tale che proclamandosi “avvocato del popolo” pensava già di possedere le chiavi del regno. Poi, qualche giorno fa, di fronte alla strampalata ipotesi di un’uscita di Matteo dalla politica, magari per andare in giro per il mondo, a Dubai per esempio, a far conferenze, incontrare amici o a coltivare datteri (affari suoi e, quindi, chi se ne importa se li fa e li disfa?) ho sentito il canto dolente di Jena (corsivista intelligente e spesso velenoso de “La Stampa”) che a gran voce chiedeva: “Come potrò resistere senza un Matteo Renzi da mettere sulla graticola di mattina, a pranzo e anche a cena?”.

Subito a ruota, all’improvviso ho notato nella rubrica delle lettere (“questioni – non solo- di cuore”, visibile su il Venerdì di Repubblica), di cui è titolare niente meno che Natalia Aspesi, che una qualsiasi Giuseppina (Giuseppina Anelli, per servirvi), riferendosi a un articolo scritto appunto dalla titolare, le chiedeva bruscamente e francamente: “Perché Renzi deve sempre essere citato, sempre nel male, in tutte le salse, in tv, su tutti i giornali, soprattutto di sinistra. Non è il caso di lasciarlo un po’ in pace?”. Giuseppina aggiungeva anche “un mi perdoni lo sfogo, ma veramente non ne posso più” e concludeva con una considerazione che chiamava in causa chiunque, e sono tanti, si era voluto occupare di lui. Diceva infatti: “Ma cosa ha fatto di così grave per metterlo sempre alla gogna?”. Natalia, da grande affabulatrice, poteva lasciar perdere, invece ha risposto: prima ammettendo di non essersi spiegata per bene nell’articolo richiamato da Giuseppina, poi mettendo qualche puntino al suo posto, dei quali, almeno uno, era chiarissimo. Diceva infatti la Aspesi: “Credo che Renzi sia un caso unico nella storia politica, detestato da tutti, da destra a sinistra, qualsiasi cosa dica o faccia. Io – aggiungeva – non sono ferrata in politica, la seguo per sensazioni e a me i suoi anni da premier sono sembrati i migliori degli ultimi tempi. Ma tra i miei conoscenti, forse un paio la pensa come me. I più accaniti contro di lui sono invece proprio le persone che stimo di più, che solo a nominarlo urlano. Sarà intervenuto il mago Merlino? Non so, comunque, come dicono gli esperti, staremo a vedere”.

Fuori dai Matteo e dai Conciliaboli ma dentro il mare mosso delle pagine dei giornali, tanto per confermare che nonostante tutto – polemiche, liti, contrasti, chiusure, colori, virus, pandemia e quant’altro vi venga in mente – si può vivere allegramente e spensieratamente, proprio ieri due grandi quotidiani (Repubblica e Corriere della sera), tra dotte disertazioni politiche, effervescenti riflessioni su vaccini e pandemia da sconfiggere, puntuali resoconti di partite e partitelle di calcio, solenni reportage sul Papa, la Chiesa e qualunque cosa ruota attorno, amenità varie e cronache dalle province più ricche (Brescia è una di queste, almeno per il Corriere), hanno trovato modo di spiegare a colti e incliti (esperti e ignoranti, se preferite) alcuni orologi da e di polso, che più costano più appaiono belli-desiderati-distintivi-unici-irripetibili almeno fino al prossimo che verrà, quelle automobili che vanno forte a patto che siano extralusso, le borse-borsine-borsette firmatissime quindi costosissime e i maglioncini-maglioni-pullover-cardigan-canotte e canottiere in puro cashmere, unici e quindi costosi. Divagando mi sono anche imbattuto nella moda che mette gli alberi e i loro tronchi al centro di abbracci liberanti e rigeneranti. Questione di gusto.  Come ha scritto un esperto “quella che adesso si chiama pomposamente interazione sensoriale con felci e mirtilli, una volta rappresentava un elementare fattore d’equlibrio psico-fisico, che non aveva bisogno di rifugiarsi in un agriturismo dello spirito, né di rigenerarsi in una spa della mente, ancor meno di trasformare una foresta in un centro di igiene mentale”.

Quanto al termine “dittatore” con cui da sempre mi permetto apostrofare l’autoproclamato sultano della Turchia e che ora è finalmente diventato, per merito di Mario Draghi, il modo più appropriato per definirlo, ho scoperto in “Memorie di un dittatore”, libro gustoso scritto da Paolo Zardi, la più appropriata definizione e descrizione. Egli, il dittatore, è sornione, sibillino, privo di rimosrsi; è il più scalcagnato, il meno presentabile, il politico più inverosimile che, annota il recensore, “giunto lassù non a caso (qualcuno, dico io, lo avrà pur aiutato-spinto-coperto-innalzato-promosso-esaltato),  ha addomesticato e ripagato l’attesa del popolo radunato sotto a un balcone e sull’uomo – il peggiore – che poi vi si affaccia”.

Infine, siccome ieri si concludeva anche la Prima giornata mondiale della lingua latina, permettetemi di ricordare agli appassionati della nobile e mai inutile lingua, che esiste un Giornale Radio trasmesso in latino. E’ curato dalla RadioVaticana e racconta quel che il Papa fa e dice. L’ultimo che mi è capitato di ascoltare e poi di leggere, è quello di Pasqua e diceva: “Notitiae Vaticanae Latine redditae – Die 10 (décimo) mensis Aprílis anno 2021 (bis millésimo uno et vicésimo). TITULI: Francíscus Papa: vaccína instruménta sunt necessária ad pestiléntiam depelléndam; Summus Póntifex Urbi et Orbi benedictiónem impértiens hoc planum facit: Paschális núntius ad belli spéciem deléndam ádiuvet – Idem Póntifex: pro iis orémus qui vitam in discrímen addúcunt praecípua iura defensúri. Se non riuscite a tradurlo, andate dal prete, che se è di quelli preti-preti vi aiuterà.

Se potete, perdonate gli accostamenti e le divagazioni qui affastellate con scarso riguardo per chi merita riconoscenza e chi, invece, come certe notizie, merita l’oblio. E’ una domenica finalmente piovosa e anche anticipatrice di novità. Chissà, forse si stanno avvicinando quei tempi migliori sognati e auspicati.

LUCIANO COSTA  

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