La città in cui vivo, passeggio, rido, piango, ascolto, scrivo, commento, saluto, mangio, leggo, sciupo, aggiusto, gusto il buono, disdegno il gramo e così, velocemente piuttosto che lemme-lemme, lucrando la compagnia di sogni e certezze invecchio e cerco di dare un senso al tempo (operazione difficilissima, soprattutto adesso, cioè in un tempo che non trova tempo da dedicare alla bellezza che il tempo porta sempre con sé)… Proprio lei, Brescia, mitica Leonessa di un’Italia che fu, regina del ferro-tondino-acciaio, principessa delle bollicine, duchessa delle armi (di quelle che fanno bang-bang, ma anche, purtroppo, di quelle che fanno bum-bum), signora incontrastata nell’arte di mettere in vetrina, dopo averle fatte sfilare su passerelle lunghe almeno mille miglia, automobili belle e senza tempo, madre generosa e sempre capace di generare solidarietà, carità, volontariato intelligente e qualunque altra cosa che a guardarla obbliga a fare oh, a stupire, a rallegrarsi del tempo che concede tempo a chi il tempo lo mette a disposizione di chi non ha più tempo per sperare e sognare… Ancora lei, orgogliosa del pennacchio che in un sol tratto di matita (magari maldigerito dai vanitosi tuttologi che d’arte vivono e prosperano) unisce i giorni di un anno e la proclama, insieme a Bergamo (dettaglio importante se il fine è quello di annullare distanze, cancellare steccati e bandire rivalità), “Città della cultura”, c’è e mette in mostra il bello e il buono che possiede in larga misura.
Amici arrivati per gustare la città vestita da capitale della cultura mi assicurano che ritorneranno, perché “i due giorni appena goduti non sono bastati a completare conoscenza e ad acquietare le restanti inevase curiosità”. Brigitte, signora della migliore Salisburgo (quella fatta di musica e arte che a vicenda si rincorrono per sublimare il genio che le ispira), insieme a piccole note scritte per ricordarmi come la cultura sia e debba restare un magnifico canto libero, mi suggerisce di pensare Brescia come se fosse lo scaffale B22 immaginato da Marcel Breuer (architetto conosciuto in tutto il mondo per la sua poltroncina Wassily, sedia rivoluzionaria nell’uso dei materiali – semplici tubi d’acciaio – e nei metodi di produzione) di cui posso trovare tracce in una pagina del suo diario – “vedi alla data 28 novembre 1928 e scoprirai se e come il riferimento è calzante” mi scrive l’amica – e che potrebbe essere, almeno secondo Brigitte, “la raffigurazione di una di quelle piccole città che riescono a soddisfare tutte le necessità dei sui abitanti, soprattutto perché è tranquilla, sempre pulita e possiede tutto l’indispensabile per vivere bene”. Scrive Marcel Breuer: “Sognavo uno spazio che seguisse l’idea di armonia: doveva restituire a chi l’aveva di fronte una sensazione di pace, di piena conciliazione con il mondo. Perciò doveva essere essenziale, pura forma, un unico movimento che trovasse le caratteristiche irriducibili di una libreria. La perfetta sintesi di una realtà che non esiste. Doveva diventare il sinonimo di un’utopia…”. Bello, davvero bello, tale e quale alla città perfetta, ieri immaginata riflessa su una poltroncina, oggi racchiusa nel segno che per un anno la propone al mondo come “Capitale della cultura”.
Però, e senza nulla togliere al blasone assegnatole, che città è quella che vedo, che vediamo e che vedranno i visitatori da adesso a metà maggio? Una città alla Breuer – “fonte di sensazione di pace, di piena conciliazione con il mondo…”, alla Brigitte – “di rara bellezza, ordinata, tranquilla e sempre pulita” – o alla “bel e meglio”, cioè impegnata in frenetica corsa elettorale e, quindi, dipinta sui muri da artisti a caccia di voti utili per governare e mettere a tacere eventuali concorrenti? Non oso rispondere, mi dichiaro inesperto, fuori luogo e perciò mi rifugio laddove immagino possa resistere all’usura del tempo lo scaffale B22, raffigurazione della città ordinata e vivibile, “a misura d’uomo”, sempre che il detto antico non offenda nessuno dei concetti dettati dal nuovo che avanza…
In realtà, la città perfetta raccontata con gradevole enfasi in B22, non esiste. E i diversi piani che la sostengono, adesso, sono semmai simili agli scaffali di Babele, quelli che Luis Borges descrive dicendo: “Gli scaffali della biblioteca di Babele / superano il tetto della stessa torre / restano sospesi nell’aria. / A guardarli dal basso / si mostrano infiniti / eterni nel caos dei loro piani. / Non c’è un libro che non contengano / non una frase o una lingua che non abbiano conosciuto. / Sono gli unici specchi capaci di riflettere / l’umanità che corre”. Eppure, Brescia resta città di rara bellezza e di indubbia cultura. E poco importa se qualcuno, o molti, la considerano “città che legge poco, poco discute e ancor meno dipinge”. È solo invidia. Invidia per una città che della sobrietà ha fatto virtù. Però, in qualche angolo di carta stampata, ho anche letto che “chi intraprende l’umile via della sobrietà va incontro alla sua propria verità e a quella degli altri”, che, se ho ben capito, vorrebbe stabilire che “il fine non è la sobrietà, ma il contatto con la realtà e con la verità”. Di sobrietà, realtà e verità mi sono avvalso scrivendo qualche anno fa trecento e più pagine per raccontare città, paesi, cultura e arte di un territorio che partendo da Brescia, grazie a una nuova e preziosa autostrada, arriva fino a Milano. Dicevo allora e torno a dirlo oggi, che “aggiungere al saputo un tanto di nuovo sapere amplia l’orizzonte e stimola la ricerca di strade nuove da percorrere e di orizzonti nuovi da ammirare”. Allora, se possibile, caro lettore, alla maniera di Oscar Wilde, “ti chiederei, caso, un favore / davvero piccoletto, / cioè di battermi a macchina / questo vano soffietto. / Non ti disturberei, confesso, / se la macchina, caro, / si trovasse in mio possesso, o se avessi denaro. / La tua immagine, caro, rosea / vivrà nella memoria / se accetti di battermi questa / pagina laudatoria”, magari anche di leggerla e semmai di leggere quel che seguirà e verrà pubblicato.
Secondo il (per me solo) massimo studioso di usi e costumi popolari – Gianni Brera, scrivano di calcio, eppur perfetta sintesi di sapere popolar-chic, mica Eco o similia, semmai qualcosa in più – “le librerie sono lo specchio fedele della città che le ospita: belle se bella è la città che ha intorno, trasandate se trasandata è la fisionomia della città in cui han messo radici, interessanti se interessante è la squadra che tirando calci porta a spasso il nome della città, utili s e come la città abitua i suoi abitanti a essere lettori…”. Ma, ahimè, i libri, forse perché ritenuti pericolosi, restano non letti e la lettura, spesso considerata veleno allo stato puro, addirittura velenosa per chiunque non possieda adeguati rimedi, resta un di più di cui fregiarsi divagando tra salotti e tavole imbandite. Lo diceva Antoine Malraux, morto alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, che in “Gli unici rimasti” (il suo canto più noto) dedicava righe malferme ma eloquenti alla velenosità dei libri; lo dico anch’io, però senza enfasi e solo in gran segreto, magari per consolarmi del fatto di non aver letto abbastanza. Insomma, di “esser certo di nulla sapere”. Perché è nella lettura appassionata, costante e mite che risiede il rimedio a troppa ignoranza.
Leggo che “tra le sue molte accezioni, riportate dal vocabolario, il verbo leggere conserva il significato, all’apparenza inusuale, di avvelenare”. Ma non è il caso di temere sfracelli. Infatti, a quanto pare “è una reazione della carta, che sottoposta a continua stropicciatura, obbliga le sue fibre a rilasciare, con invisibili gocce, il morbo che, secondo natura, tutti i libri e le storie raccontate nelle pagine, portano dentro”. Eppure, scriveva, già infetto da quel morbo portato dalla carta, tale Osip Emil’evic Mandel’stam (così è scritto, così lo cito) “se consapevoli di queste secrezioni, la lettura può diventare un’esperienza mitridatica (a parte l’uso guerresco, in medicina il termine significa somministrazione di sostanze tossiche in dosi progressivamente crescenti, per creare nell’organismo resistenze via via più efficaci a certi veleni/ndr) che se ogni giorno viene somministrata a piccole dosi, prima il corpo, con più difficoltà poi l’anima, dal siero che secerne, divengono immuni. Ma una quantità eccessiva, le pagine sbagliate, possono risultare mortali. Così, negli anni, ho deciso di offuscare, con metodica consapevolezza, ogni mio amore, donandogli un libro. L’unica condizione che mi sono posto – spiega con malcelato sussiego -, era non donare mai, e poi mai, libri nuovi raccolti, intonsi, dagli scaffali di una libreria. Era necessario, anzitutto, leggerli sottolinearli, romperne il dorso, spezzare la rilegatura, e farlo lentamente, perché il veleno, a dosi omeopatiche, mi insegnasse a sopravvivere. Ero felice, sembrerà crudele, di assistere alla perdita, leggendo di ogni amore. Non c’è bisogno di dire addio, se gli occhi di chi ti ama, mentre scorrono sulla pagina, muoiono. Adesso che proprio lei, però, mi ha donato un suo libro, letto sottolineato, con il dorso rotto, e spezzata la rilegatura, bisogna dirle grazie”.
Dicerie, solo dicerie, forse utili a selezionare lettori per abituarli a mantenere le distanze, o forse inutili se il fine è invece e comunque quello di trovare lettori disposti a leggere libri piuttosto che a possederli senza degnarli di opportuna lettura. Quindi, dice Corrado Augias, “leggere fa bene, ma può fare anche male, diciamo la verità, perché i libri sono come le medicine o come qualunque altro medium: vanno presi con cautela”. Sarà, ma come afferma Rinaldo Sidoli “l’anima di un individuo risiede nei libri che legge”. Ragion per cui, almeno secondo Cesare Pavese “leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma; ci colpiscono degli altri le parole che risuonano in una zona già nostra – che già viviamo – e facendola vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti dentro di noi”. Però, sostiene Cesare Beccaria, “il miglior metodo per la lettura dei libri è quello di seguir la legge del piacere” e, aggiunge Wislawa Sziìymborska, “leggere libri è il gioco più bello che l’umanità abbia inventato” perché, ricorda Stephen King, “i libri sono una magia…”. E se Franza Kafka scrive che “bisognerebbe leggere, credo, soltanto libri che mordono e pungono” forse ha ragione o forse vuole soltanto avvisarci che “se il libro che stiamo leggendo non ci sveglia come un pugno che ci martella sul cranio…” magari non merita d’essere letto.
Però, amici, non cedete all’arte di non leggere sebbene, almeno secondo Arthur Schopenhauer “quest’arte sia molto importante. Essa consiste infatti – aggiunge – nel non prendere in mano quello che di volta in volta il vasto pubblico sta leggendo, come per esempio libelli politici e letterari, romanzi, poesie e simili cose, che fanno chiasso appunto in quel dato momento e raggiungono perfino parecchie edizioni nel loro primo e ultimo anno di vita…. Sarebbe come pretendere che un individuo ritenga tutto quanto ha letto è come esigere che porti ancora dentro di sé tutto quanto ha mangiato”. Personalmente “quando penso a tutti i libri che mi restano da leggere, ho la certezza d’essere ancora felice”. Da qui, con Marco Tullio Cicerone, fatto salvo che il non possedere libri non sia una scelta ma un obbligo imposto da povertà o obbligata ignoranza, dico che “una casa senza libri è come un uomo senz’anima”.
Quindi, amico lettore, dimmi che libreria hai (non quella che frequenti in città o paese, che è altra cosa) e ti dirò chi sei. Quella che mi mostrò il pastore invitandomi nella sua baita aggrappata alla montagna, fatta con rami rubati al bosco e sostenuti da sassi raccolti nel fiume, di lui mi spiegò che la sapienza, anche quella delle piccole cose, era racchiusa tra le pagine di pochi libri, sempre e solo scelti e letti. Essere “capitale della cultura” è mettere in conto la necessità di leggere non per il gusto di mostrare il saputo, ma per dare la possibilità al saputo di diventare pane quotidiano, per tanti se non proprio per tutti. E in un’ideale “capitale della cultura”, sempre e comunque, “se un amico vi regala un libro è veramente un amico”.
LUCIANO COSTA