Il Domenicale

La coscienza del Presidente

Ho dovuto fermarmi un attimo e poi cercare, per leggerlo attentamente, il comunato ufficiale prima di crederci. Era proprio quello che avevo inteso. Giorgia Meloni, il Presidente del Consiglio, con la faccia un po’ così che hanno quelli che conquistano potere e piazze, vestita di grigio ferro con pendaglio al collo e pettinatura non ancora affinata da stilisti e coiffeurs di vaglia, aveva proprio detto quel che altri avevano già declamato. E cioè:Qui si fa l’Italia o si muore”, celebre frase attribuita dallo scrittore Giuseppe Cesare Abba a Giuseppe Garibaldi, che l’avrebbe pronunciata durante il sanguinoso combattimento di Calatafimi (15 maggio 1860) rivolgendosi a Nino Bixio, secondo il quale era impossibile resistere alla preponderanza dei Borbonici. Sentita ieri, quella frase è suonata, se non proprio strana, di sicuro improvvida.

Voleva mettere le mani avanti il Presidente del Consiglio ocercava giustificazioni? Era convinto d’essere (quasi) di fronte all’ineluttabile impossibilità di procedere, oppure rinfocolava preoccupazione e pericolo così da ricevere aiuto e consensi da sponde diverse? E chi era il novello Nino Bixio a cui cercava di infondere coraggio? O magari usava quell’espressione, nel frattempo divenuta proverbiale, semplicemente in senso figurato, senza alcun riferimento politico, per esprimere la necessità di una condotta decisa, fiera, impettita, forte, risoluta e finalmente capace di far intendere ai contendenti di quale pasta son fatti coloro che furonoillo temporesostenitori dell’ordine e della fiamma accesa, portatori mica tanto ingenui di gambali, camice nere e saluti alla romana braccio teso e mano sventagliata messi lì per rimarcare la differenza tra chi li esibiva e chi li subiva? Poi, il dubbio: quella minuscola frase, vecchia e stantia, non era frutto di preoccupazione, ma solo la dimostrazione di quel che si sapeva. E cioè che niente è e sarà come prima!

Subito dopo, come certi pensatori improbabili e poetucci di ventura, mi ritrovai a pensare quel completamento della frase a cui non Pinco Pallino, ma Massimo Taparelli d’Azeglio, o semplicemente Massimo d’Azeglio(politicopatriotapittore e scrittore italiano) aveva lavorato,quella che al classico grido “qui si fa l’Italia o si muore” faceva seguire la lapalissiana constatazione (per alcuni storici generalmente intesa come un appello alla creazione di un’identità nazionale italiana nel senso inteso dalla Rivoluzione francese, cioè capace di unire il popolo e renderlo consapevole di essere spiritualmente unito da caratteristiche quali una lingua comune, una storia comune ed una religione comune), la necessità di “fare gli italiani”, gente finalmente pronta per essere Italia Unita.Tradotto significa che di fronte a un Paese definito è necessario provvedere a mettergli accanto cittadini degni di tanto onore.Ovviamente se qualcuno è disposto a dar credito a simile traduzione… In caso contrario continuerebbe a valere quel che Massimo d’Azeglio intendeva, suppergiù la “necessità di correggere la decadenza del carattere italico, niente altrio che retaggio di secoli di despotismo, materialismo, corruzione edominio ecclesiastico, da superare se il fine era quello di creare persone migliori, libere da vizi quali indisciplina, irresponsabilità, pusillanimità e disonestà (vizi che secondo lui erano fonte del declino dell’Italia a partire dal Rinascimento) ed instillare in loro opportune, sognate e desiderate doti virili“.

E lui, il presidente del Consiglio dei Ministri Giorgia Meloni, lì a specificare, sorridendo, che quel suo riferimento era puramente occasionale, messo in circolo per difendersi da taluni allegri schiamazzi inscenati fuori dalla finestra da inevitabili scalmanati, ma lontani dal presupporre quel che l’Innominato (vedi “Promessi Sposi” a partire dal capitolo XIX) riassume dicendo “che diavolo hanno tutti costoro…” e chiedendosi ad alta voce “che c’è di allegro in questo maledetto paese?”. Ahimè, niente di allegro e neppure di nuovo alberga tra vie e piazze ridisegnate da voti in liberissima uscita e forse neppure opportunamente ragionati. Tanto è vero che adesso, a meno di cento giorni dal pranzo consumato, sembrano addirittura ancora indigesti. Dal che, come scrive MauroBonazzi, filosofo benigno e arguto, “si capisce di cosa si debba occupare davvero la politica”. Ovvero, non di pranzi, cene e banchetti ma di “mettere tutti nella condizione di vivere una vita davvero umana, cioè capace non di “offrire a tutti tutto, ma di mettere tutti in condizione di poter vivere una vita umana…”. Poi ognuno deciderà cosa e come fare liberamente, che alla fine la responsabilità è e rimane personale.

Ho dovuto rileggere più volte e ancora un’altra volta per comprendere quel che Lin Yutang ha scritto in “Importanza di vivere”, laddove si occupa del parlare, del dire, del sommare pensieri per proporli alla meditazione di gente per lo più distratta e attratta solo dal fuoco fatuo…, quello che ai più fa dire “studiar di primavera è tradimento / l’estate di dormire è il buon momento / se l’inverno l’autunno t’affretta / la primavera prossima, tu aspetta”. E dopo aver letto e riletto ho compreso che “spirito, umore, mordente, sarcasmo, intuito geniale, tenerezza, delicatezza di comprensione, indulgente cinismo o cinica indulgenza, cocciutaggine, buon senso” e chissà quant’altre cose, sono parte e non il tutto messo in vista “con lo scopo di ascoltarsi e dare risposte sagge”. Certo, vero è che “il saggio non parla” mentre gli uomini (e le donne) di talento lo fanno, ma la differenza tra il saggio e gli uomini (e le donne) di talento sta nel fatto che “il saggio parla sulla vita come direttamente la percepisce, mentre gli uomini (e le donne) di talento discutono le parole del saggio, e gli imbecilli disputano sulle parole degli uomini (e delle donne) di talento”. Se sia filosofia oppur solo utopia, decidetelo voi, magari dopo aver soppesato quel che comunemente si dice a proposito di filosofi, e cioè che “filosofo è l’uomo che tiene la sua sensibilità in perfetto foco e osserva il flusso della vita, pronto a esser sempre sorpreso da nuovi e più strani paradossi, incongruità e inesplicabili eccezioni alla regola”. Tal quali ai miei e, spero, anche vostri.

Non ho dovuto rileggere, dato che li ho capiti subito, gli scritti di Giorgio Gaber, canzoniere svagato ma ordinato, poeta inascoltatoforse perché non arrabbiato, menestrello di valore e pacato cantore, uomo sincero e fin troppo vero, personaggio di alto lignaggio, soprattutto persona intelligente e sempre controcorrente, morto esattamente vent’anni fa (era il primo giorno di gennaio dell’anno 2003 e sciavo placidamente su nevi rese deserte da fumi e libagioni consumati la notte precedente) quando aveva soltanto sessantatré anni e ancora tanta voglia di stupire e ammonire sciatori, sciamani e politicanti in cerca d’avventure. Giorgio, tanto gentil e tanto onesto da apparir quasi fuori luogo in quei teatri che l’ospitavano insieme al suo vago e però sempre strabiliante modo di cantare e recitare, era un perfetto“uomo nuovo”, forse “conformista”, ma mai opportunista. Lo conoscevo e stimavo quel suo modo accademico, da perfetto gentlemen agreement (specchio fedelissimo di accordo fa gentiluomini) di farsi da parte se qualcuno pretendeva di saperne più di lui e del diavolo in persona. Quando lo vidi sul palcoscenico del Teatro Grande di Brescia, qualche tempo prima di andare dove il fato e non la logica voleva che andasse, mise davanti a signori e signore impettiti ed eleganti il fatto che lui era un uomo nuovo talmente nuovo che è da tempo / che non sono neanche più fascista / sono sensibile e altruista orientalista / ed in passato sono stato un po’ sessantottista…”. Giorgio cantava e rideva di sé e di me, diceva di essere “da un po’ di tempo ambientalista” e fino a “qualche tempo prima anche come tutti un po’ socialista”. Cantava “io sono un uomo nuovo / per carità lo dico in senso letterale / sono progressista / al tempo stesso liberista antirazzista / e sono molto buono sono animalista. / Non sono più assistenzialista / ultimamente sono un po’ controcorrente/ son federalista…”, più o meno un conformista… uno che di solito sta sempre dalla parte giusta / il conformista / ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa / è un concentrato di opinioni / che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani / e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire, / Forse da buon opportunista / si adegua senza farci caso / e vive nel suo paradiso. / Il conformista / è un uomo a tutto tondo che si muove / senza consistenza. / Il conformista / s‘allena a scivolare dentro il mare della maggioranza / è un animale assai comune / che vive di parole da conversazione, / Di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori, / il giorno esplode la sua festa / che è stare in pace con il mondo / e farsi largo galleggiando…”.

Giorgio cantava e chi lo ascoltava diceva dessere “disponibile e ottimista europeista”, incapace di alzare la voce ma “pacifista” sebbene prima fosse “marxista-leninista / e dopo un po’ non so perché anche cattocomunista…”, ma pur sempre “un uomo nuovo”, un essere umano unico sensibile irripetibile / e come tale sono responsabile / del mio pensiero e del mio operato / perché sono un cittadino dello Stato”, di quello Stato che “ha ridotto le spese senza mettere a rischio le pensioni” probabilmente quando io non c‘ero, forse perché “ero in vacanza o forse ero malato” e per questo neppure interpellato”. Però, cantava quella sera Gaber “io conto e m’han detto che io conto / e son contento. / E anche se ogni tanto / ho qualche cedimento / so già che sotto sotto son convinto. / Non sono un uomo medio / ma come dire sono un individuo / non sono affatto inutile e passivo / so di esser decisivo / dò il mio contributo alla democrazia / Hanno fatto ultimamente tante cose / per esempio / hanno fatto il bilancio dello Stato / e dentro si parla di recessione… / e dicon che hanno fatto la guerra per la paceNo, no non dico che hanno fatto bene o hanno fatto male, non mi permetterei mai. D’altronde sono loro che decidono e, basta distrarsi un attimo, sìsì, lo so che gli assenti hanno sempre torto, ma non c’è stato un imbecille che ha detto, che libertà è partecipazione?”, Però “io conto, / non me ne faccio un vanto / m’han detto che io conto / e son contento. / E sono sempre pronto / a fare il mio intervento / son pronto su ogni tipo di argomento. / Non odio e non invidio / è naturale sono un individuo / però non sono certo un qualunquista/ né un frustrato pessimista / credo nella pace e nella libertà. / Io sono un essere umano / unico sensibile irripetibile / ma mi hanno detto che sono molto fragile / e forse anche da ricoverare / perché sono l’unico italiano…”, forse un ingenuo che crede ancora alle idee geniali…

E’ come se la vecchia morale non ci bastasse più mentre se ne sta diffondendo una nuova, che consiste nel prendere in considerazione più che altro, i doveri degli altri verso di noiSembrerà strano, ma sta diventando fortemente morale, tutto ciò che ci convienePraticamente è un affare. Ovviamente homischiato storia, saggezza, rime e parole per coniugarle a un presente forse reale o forse astratto. Però, se volete rileggere il tutto così come Giorgio lo pensò e lo scrisse, cercate la canzone-prosa che nel titolo recita “una nuova coscienza”. Proprio quella “nuova coscienza” che oggi servirebbe non per dire “qui si fa l’Italia o si muore”, ma per rimettere in circolo idee troppo in fretta mandate in esilio… Come quelle che mettono la solidarietà al primo posto, la libertà sopra gli inganni sostenuti dal tiranno, la democrazia ovunque vi siano persone, il rispetto dei deboli dove si trovi un qualsiasi umano in difficoltà…  

LUCIANO COSTA

 

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